Home page        Archivio generale "Che fare"      Fine pagina   Per contattarci


Dossier PCI

Anagrafe del PCI


Si può dire che l'atto di nascita del PCI, quale oggi noi lo conosciamo, è costituito dal Congresso di Lione del 1926, che sancisce praticamente l'eliminazione della Sinistra, non tanto per la forza endogena del centrismo gramsciano quanto per il peso schiacciante della controrivoluzione, dl cui lo stalinismo è a tempo espressione e strumento. Lione e teoria del socialismo in un solo paese stanno assieme anche in termini temporali.

La sconfitta del movimento rivoluzionario in Europa, sul quale cade adorno al '29 una definitiva pietra tombale con l'esaurirsi delle ultime ondate proletarie in Germania, fa sì che le forze sociali siano sottratte al raggio d'influenza immediato delle Sinistre marxiste: da un lato cala sul proletariato la scure del fascismo o del noskismo, dall'altro lato esso è deviato sulle false piste di Mosca.

Qualcuno, a più riprese, ha tentato di imputare il disastro all'incapacità delle Sinistre marxiste di reagire allo stalinismo sulla base di un completo piano teorico, programmatico, strategico e tattico (e organizzativo, si suppone) "veramente leninista". Un bell'esempio di critica idealista: la controrivoluzione, afferma Marx, è qualcosa di materiale (destinato a pesare necessariamente sullo stesso partito in quanto "prodotto della storia") e non si capovolge con alcun marchingegno di volontà o abilità intellettuale; si può, bensì, preparare la ripresa a venire attraverso un lavoro contre le courant per trarre dalla sconfitta subita bilanci e prospettive adeguati all'assalto a venire, che a nessun super-Lenin sarebbe dato di "impulsare" per altra via. Chi non sa cogliere il perché dei 50 anni di controrivoluzione che stiamo lasciando alle spalle, dubitiamo saprà fare anche il minimo passo per uscirne.

Nel giro di meno di dieci anni i partiti comunisti dell'Internazionale di Lenin si sono trasformati in partiti "operai" del capitalismo. Cosi è andata, per un complesso di motivi che datano da ben prima la costituzione dell’Internazionale ed è perfettamente assurdo perdersi in congetture sul come le cose sarebbero potute andare diversamente... se non fossero andate in questo modo.

Ma ciò non significa, secondo il nostro metodo, che tutto torni da allora come prima, che la rivoluzione debba ricominciare da zero. La sconfitta militare del proletariato nel primo dopoguerra va di pari passo con una vittoria teorica del marxismo, con una sua riaffermazione anche oltre i livelli raggiunti dal movimento di classe con la stessa Internazionale, con lo stesso Lenin. Per i marxisti è sempre stato certo, sin dal massimo della depressione controrivoluzionaria, che una nuova ondata rivoluzionaria si sarebbe dovuta determinare e che essa avrebbe messo a frutto il bilancio delle esperienze precedenti.

Vittoria teorica sulla democrazia borghese, perché il cammino del capitalismo è sempre più spietatamente indirizzato ad una concentrazione e centralizzazione di forze a livello tanto economico che politico, sia dove il fascismo spazza via con la violenza le organizzazioni operaie, sia dove la socialdemocrazia e lo stalinismo assicurano la continuità del sistema col fare del proletariato una classe tra le altre, una classe del capitale "al servizio della nazione". Non e stata poca cosa fissare inequivocamente questi punti, colmando buchi e sfasature dell'Internazionale a proposito del "fronte unico" e del "governo operaio" poi ripresi e accentuati dallo stesso Trotzkij. Da questa vittoria teorica, conseguita sul campo, anche se lontani dalla possibilità di guidare le masse, dovrà partire la rivoluzione a venire.

Vittoria teorica sullo stalinismo, inchiodato non a supposti errori di metodo tattico e strategico, ma alla sua specifica natura borghese. Ed anche questo e un'acquisizione materiale da cui non si potrà prescindere.

Sradicata la presenza comunista rivoluzionaria (ciò di cui hanno colpa i Noske ed i Turati prima e più degli Stalin e dei Palmiri), lo stalinismo resta la voce di un antagonismo di classe che può arrivare ai limite estremo di strappare in armi il potere ai borghesi, ma per assumersi la costruzione di un socialismo "popolare" che resta completamente interno e funzionale al sistema capitalista, col vantaggio di precostituirgli una base "consensuale" operaia di massa (almeno sin quando la realtà dei rapporti sociali antagonisti non rimette in crisi strutture e sovrastrutture). E ci aggiungiamo un altro dato: la soluzione stalinista è destinata ad affermarsi, in virtù delle sue caratteristiche, soprattutto laddove si tratta di spezzare rapporti economico-sociali precapitalistici ed in presenza di una borghesia nazionale latitante o legata a filo doppio all'imperialismo straniero tanto da svendere ad esso i compiti storici cui sarebbe chiamata, oppure laddove il vento della reazione nera ha infranto la "legalità democratica" nel vuoto, e in parte con la complicità oggettiva, della socialdemocrazia tradizionale. Ciò spiega tanto le risorse che i limiti dello stalinismo.

Dopo Lione, il PCI persegue la sua specifica via stalinista di lotta antifascista per la ricostruzione di un'Italia democratica, tessendo la sua rete intorno ad un proletariato impossibilitato, per il carico delle sconfitte precedenti del movimento di classe internazionale, a scindere l'esigenza primaria di lotta contro il fascismo dall'affermazione di una prospettiva per sua natura interclassista e cioè borghese. La Resistenza ha segnato il momento più alto e tragico di questo "riformismo eroico", per cui hanno innanzitutto pagato gli operai e i militanti stalinisti, col risultato di aprire la strada alla ricostruzione capitalista. E’ stata l'ultima "rivoluzione" di cui sarà mai capace il PCI: porre il proletariato al servizio del capitalismo "prendendo nelle proprie mani - come si esprimeva Togliatti - le bandiere abbandonate dalla borghesia", che prima aveva appoggiato il fascismo e poi si era ben astenuta dal combatterlo, persino quando esso appariva agonizzante. "Rivoluzione interrotta?" No, "rivoluzione" portata sino solo in fondo, fatta dagli operai per borghesia.

Nel secondo dopoguerra il PCI vede infrangersi i suoi sogni di "democrazia progressiva". Due fattori, strettamente concomitanti, stanno alla base di ciò: quello internazionale, con la lacerazione tra gli alleati "antifascisti" USA ed URSS, in relazione alle esigenze incontenibili dell'imperialismo statunitense che - la favola le lupo e dell'agnello insegna - si sente intorbidate le acque dal crescente espansionismo del blocco sovietico verso l'Europa e in Asia; quello interno, determinato dalla rottura della solidarietà ciellenistica di fronte ad una ricostruzione del paese che i partiti borghesi intendono far ricadere interamente sulle spalle degli operai. Siamo a quella che si definisce la guerra fredda. E proprio calda non sarà stata, ma quant'è costata in lacrime e sangue in ogni parte del mondo?, quanto è costata ai proletari italiani inchiodati alle stesse galere aziendali, incriminati ed imprigionati dalle stesse leggi e dalla stessa magistratura del ventennio, o assassinati a decine (ecco la novità!) dalle forze dell'ordine "nuovo, repubblicano ed antifascista?

Queste condizioni di fatto tengono inchiodato il PCI ad una solidarietà di ferro con l'URSS, che appare largamente inattaccabile ai proletari colpiti dalle "oscure forze della reazione" democristiana ed imperialista, e, in particolare dopo l'estromissione definitiva dai governi di "unita nazionale" nel '47, il PCI può ben atteggiarsi a forza operaia intransigente: dal '47 alla metà degli anni '50 non si contano, in effetti, le lotte di classe di cui il PCI si pone alla testa. (Parentesi per certi "ultrasinistri" che si saranno già preparati ad inveire contro il nostro "opportunismo": abbiamo detto lotte di classe, e non ci smentiamo e non lotta rivoluzionaria, che è altra cosa; il PCI può benissimo, aver diretto, ed anche sollecitato, le prime senza essersi avvicinato per nulla alla seconda, ed anzi proprio allo scopo di scongiurarla. L' "intransigenza" di chi, pur di demarcarsi dal riformismo, si costringe a negare l'evidenza di questo fatto non è destinato a far molta strada...)

Facciamo a questo punto un richiamo che può essere utile soprattutto per i lettori più giovani, che di quegli anni hanno al massimo la "conoscenza" loro offerta dalla stampa mistificata propria del riformismo o delle varie correnti che lo "contestano" da "sinistra".

Dopo il '47 il ciclo controrivoluzionario si è ulteriormente rafforzato col passaggio al riformismo stalinista anche di energie proletaria che, per un momento, al fuoco della guerra e nei primi due anni di "confusione" post-bellica, avevano aderito all'organizzazione rivoluzionaria. Di fronte al radicalismo picista e sovietico, e in contrapposizione all'attacco delle forze borghesi, interne ed internazionali, queste forze trovarono naturale far fronte col partito "operaio" di massa e con la centrale statale del "socialismo". Nel tranello caddero anche taluni leaders ipnotizzati dalla prospettiva "tattica" di un’ "azione comune" per il raddrizzamento rivoluzionario del PCI o addirittura attratti dalla linea-Secchia (a proposito del quale sarà utile leggere gli Archivi, a dimostrazione di come si possa essere riformisti marci con la perfetta buona fede e l'assoluta volontà di essere "rivoluzionari" ed "a fianco della classe operaia"). Anche qui converrà scontrarsi ad ogni spiegazione idealista del perché i rivoluzionari non hanno fatto, o completato - come altri vorrebbe - la rivoluzione ed imparare che da essi fu compiuto allora (bene o meno bene) il dovere che doveva essere compiuto.

Il secondo tempo del dopoguerra si è evoluto diversamente dagli inizi.

Sul piano internazionale gli USA hanno portato avanti la loro politica di penetrazione imperialistica senza doversi immediatamente scontrare con I'URSS; l'Europa, ed in essa l'Italia, hanno ritrovato lo slancio produttivo, costruendo sulle macerie (e grazie ad esse) un miracolo economico" che pareva a molti destinato a durare in eterno; la contesa inter-imperialistica è potuta incanalarsi nell'alveo della "distensione" e della "pacifica competizione" (sinché tra i big c'è stato il mondo intero da spartirsi e spremere con profitto)...

Sul piano interno italiano si è assistito, dalla seconda metà degli anni '50 a tutti gli anni '60, ad un allentamento delle tensioni politiche e sociali, con un conseguente allargarsi dei cordoni della borsa e ritrovati spazi di democrazia borghese. La curva dei salari assoluti e della normalizzazione dei rapporti politici tra centro e sinistra è andata costantemente (non senza lotte, ovviamente) verso l'alto in quest'arco di tempo.

Da questo complesso di fattori sono derivate alcune significative trasformazioni per quanto riguarda il partito "operaio"-borghese: i suoi rapporti con la "società", cioè col potere borghese, si sono fatti via via meno conflittuali; esso si è gradatamente inserito in certi gangli, non solo periferici, del sistema politico ed economico; con la classe operaia che ne costituisce la base essenziale si é stabilito un rapporto meno socialmente esclusivista e con una decisa attenuazione della conflittualità in fabbrica; contemporaneamente, sono affluite nel partito forze rappresentanti di altri settori della società, in particolare della piccola e media borghesia; il PCI è stato riconosciuto come "forza di governo", anche se non direttamente cooptato nella direzione formale della cosa pubblica...

In parallelo a questa progressiva integrazione nella società borghese il PCI ha accentuato anche a scala internazionale il suo passaggio da un iniziale modo d'essere stalinista in direzione di una sua socialdemocratizzazione.

Il "baluardo" russo ha finito per rivelarsi ai suoi occhi come improponibile rispetto al nuovo ruolo assunto nell’ambito di una società tutt'altro che "arretrata" (come ancora si diceva nei '45, imbastendo trame anti-feudali), tutt'altro che politicamente "chiusa". (Come si diceva nel '48, accusando di "rigurgito neo-fascista" gli ex e futuri compari democristiani). Oltretutto, Mosca ha dimostrato sempre più di non aver molto a che fare con "socialismo in paese solo"... degli altri. Berlino 1953, Budapest 1956, Praga 1968, per limitarci a qualche esempio soltanto, hanno dato la misura dell'incapacità dell'URSS di tenere assieme un blocco socialista altro che con lo knut. In più, "il" socialismo di marca stalinista è diventato col tempo "tanti" socialismi, ognuno con proprie esigenze indipendenti e persino in contrasto le une con le altre: dal no di Tito a Stalin all vittoria di Mao in Cina, sino al proliferare dei nuovi stati di "democrazia popolare" negli anni '60 è stata una continua messa in causa della legittimità del ruolo di "patria del socialismo" dell'URSS.

Terzo atto, e ci siamo dentro.

Esauritosi il ciclo precedente, siamo alla vigilia di nuovi sconvolgimenti. Il PCI ci è arrivato portando enormemente avanti la sua opera di socialdemocratizzazione, si è fatto italiano ed europeo, ha modificato profondamente la sua base sociale; ha superato il "favore K" come solo Ronchey stenta a credere; si è fatto difensore dell'ordine borghese con la diligenza ed intransigenza che neppure uno Scelba aveva manifestato contro il pericolo "sovversivo"...

Tutto compiuto, dunque?

No, perché il processo in questione viene bloccato dalla crisi, dalla reinsorgenza di tutti i motivi di contrasto tra le classi, i partiti, gli stati, di periodi che il riformismo pensava scongiurati per sempre. E il PCI vi arriva senza essere giunto al termine del processo di "socialdemocratizzazione" (che in assoluto, ripetiamo, non è mai chiudibile del tutto, neppure per... le socialdemocrazie).

Vediamo quindi su che scenario si apre il terzo atto, e proviamo ad "indovinarne" l'epilogo.


Home page        Archivio generale "Che fare"      Fine pagina   Per contattarci