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No alla dissociazione di Stato,
sì all’autocritica comunista


È uscito di recente un giornale di cui non sentivamo la mancanza. "Antigone" è il suo nome, il nome di un personaggio né filisteo né legalitario della tragedia greca, chiamato in causa, impropriamente, per sponsorizzare, con un alone di nobiltà, un'operazione che di nobile non ha nulla.

Siamo al secondo tempo del non esaltante spettacolo: "Come dissociarsi da qualunque forma di critica e di ribellione alla società e riconciliarsi con la democrazia borghese". Il primo tempo cominciò con il documento dei 51 da Rebibbia. Il secondo tempo s'è aperto con gli show di Morucci e Faranda e ora si movimenta ulteriormente: ai dialoghi a distanza o ravvicinati tra ex-sovversivi pentiti e giudici (ai danni di altri!) si sovrappone e si intreccia un gruppo di intellettuali "di sinistra". Dalla pratica della dissociazione alla teoria della riassociazione allo stato democratico. E poiché la cosa, dati i tempi e le oggettive necessità, si fa più impegnativa, è giusto che la caotica accozzaglia di "Assemblea" ceda il passo ai lucidi professionisti di "Antigone".

La parola, dunque, ai teorici Rossanda, Manconi Neppi Modona e così via. A chi si rivolgono costoro, con quale discorso, per quale scopo? In prima istanza il loro appello è allo stato. Il punto di partenza è che il cd. "movimento eversivo" ha compiuto una "revisione critica" "sul punto minoritario ma scottante della lotta armata e delle istituzioni che il movimento avevano represso. Insomma, prendiamo atto, dicono, che gran parte dei detenuti politici ha sconfessato il ricorso alla violenza ed ha riconosciuto come proprie le istituzioni democratiche. Se questo è vero, ed è vero, bisogna superare l'emergenza come forma di governo e ritornare alla normalità democratica attraverso un processo di cambiamento che non riguardi solo i detenuti politici ma le stesse istituzioni. Queste, si implora e si depreca, "guardino dentro di sé", vedano dentro di sé le devianze, rimettano in causa in qualche modo la propria identità e "in un crogiuolo a fiamma molto alta" fondano "sia le culture passate del conflitto politico sia le culture presenti del dominio o della mediazione". E che verrebbe fuori dalla mistura di un po' di Negri e molto Martinazzoli? Un società pacificata, una democrazia ben sbarbata, un carcere umanizzato. Che splendido idillio! Questa però non è una commedia all'italiana, sembra ammonire la Rossanda; attenti!, non per caso è richiamata la tragedia greca, qualcuno deve pagare ed espiare: chi ha compiuto le "azioni di sangue" e soprattutto chi si rifiuta di entrare in questo "commercio di pace". Per costoro nessuna scorciatoia furbesca, nessun provvedimento generale di libertà neppure sul presupposto scalzoniano "la guerra è finita, andate in pace". No! Strepitano i soavi redattori di... "Creonte", questo no, sarebbe troppo, sarebbe restare "a bocce ferme", non abiurare il proprio passato di ribelli, non volere dal profondo la riconciliazione e la normalità pacificata (dentro la società del capitale) che è l'obiettivo fondamentale da perseguire. E così diventa chiaro che il loro discorso è da un lato un appello alle istituzioni perché eliminino il sovrappiù di repressione non più necessario, dall'altro una spinta ai dissociati perché portino sino in fondo il loro percorso di ri-associazione alla democrazia di Craxi e di Lucchini, e infine un duro ammonimento, una scomunica vera e propria contro i dissidenti di oggi e di domani. A te va il discorso, proletariato!

Le istituzioni, come non rimasero insensibili alle avances dei 51, così - checché deprechi Radio dissociazione - non sono rimaste insensibili alle nuove profferte, alle contrizioni, alle autocritiche (rivolte allo stato) e perfino ai tentennamenti di tanti detenuti politici. Solo che, ovviamente, pone le proprie, dure condizioni e verifica puntualmente che vengano ottemperate, regolando la sua condotta non già in riferimento al carcere, ma allo scontro di classe più in generale. I suoi passi verso gli stessi dissociati son cauti (e "deludenti") non già perché la democrazia ami di perversa passione l'emergenza, ma per ragioni molto meno psicologiche e molto più materiali: perché teme l'avvicinarsi della vera emergenza, quella che sarà rappresentata dal ritorno della lotta di classe rivoluzionaria del proletariato. Un'emergenza che la crisi inesorabilmente prepara. È per tutelare a fondo il suo generale interesse anti-proletario che il governo ed il sistema nel complesso ci vanno cauti. Sanno, ben più dei redattori di "Antigone", che bisognerà continuare la costruzione delle nuove carceri, moltiplicare i regolamenti anti-sciopero, differenziare la repressione, rafforzare i corpi repressivi per scongiurare e schiacciare l'emergenza proletaria (v. il comportamento della democrazia inglese con i minatori, o del Parlamento danese contro gli scioperanti). E finalizzano, perciò, alla legittimazione di questa ancora più ampia e profonda repressione, i premi e le concessioni per i dissociati.

Il lento, ma effettivo, avanzamento della legge per il riconoscimento della dissociazione (con accordo Dc-Pci-Psi) va visto in questo quadro. I promotori sanno bene, v. "Reporter" dell'11 aprile, che "il fenomeno della critica e del rifiuto della lotta armata e della riscoperta della democrazia come strumento di lotta politica è reale e profondo", non hanno dubbi su questo, nondimeno debbono da un lato fare i conti con l’opinione più reazionaria, dall’altro (soprattutto) gestire bene, lentamente, verso il proletariato tale abiura/riscoperta per socializzare ben al di là delle carceri la necessità della pace sociale, per radicare la convinzione che la rivoluzione è impossibile, per legittimare il monopolio statale della violenza.

In questa stessa linea di condotta s'inscrive un certo modo di abolire l'art. 90 nelle carceri, più formale che reale (v. riquadro), e che lascia in piedi, per giunta consolidato, un regime carcerario che ormai ha legalizzato definitivamente la differenziazione e si è professionalizzato nello studio dei comportamenti, proponendosi gesuiticamente di incarcerare oltre i corpi anche "le anime".

Allora: contro la dissociazione di stato, la sua teoria, la sua cultura, la sua umiliante e spesso indegna prassi. Per quale alternativa?

Alcuni dicono: per riaffermare la validità della lotta armata. La loro si configura come contrapposizione ad ogni forma di critica al guerriglierismo, sulla base del presupposto, indimostrato ed indimostrabile, che lotta armata qui e ora = lotta per il comunismo. Sì, dicono, è possibile discutere, criticare e correggere "gli errori" compiuti negli anni '70, ma "tra comunisti e da comunisti". Poi, tanto per evitare equivoci, arriva il libretto rosso sullo scontro tra la linea 1 e la linea 2 delle Br in cui si dice: gli unici a poter criticare le Br sono le Br stesse, poiché altri rivoluzionari in Italia (e, si suppone, nel mondo) non ve ne sono. Cosicché l'unica critica possibile della dissociazione è quella della ri-associazione alle Br.

Abbiamo dissentito e dissentiamo completamente da questa impostazione, non tanto e non solo per la più discutibile autoinvestitura, ma in primo luogo per la logica che la sottende.

Per noi la dissociazione si misura non già rispetto a questa o quella organizzazione, a questa o quella forma di lotta e neppure rispetto all'una o all'altra strategia (per es. non accetteremo mai di considerare non-rivoluzionaria Rosa Luxemburg sol perché non fu "leninista"), ma anzitutto rispetto al programma del comunismo e agli interessi del proletariato.

Rispetto a questo obbligatorio punto di riferimento si può dire che l'operaismo e il guerriglierismo non si sono mai dissociati totalmente dal riformismo, in versione desiderante, o in versione istituzionale. Qui sta il punto fondamentale della questione. E’ vero che la l.a. è stata un sintomo della più generale divisione tendenziale della società in schieramenti antagonisti. E’ vero che la volontà con cui un certo numero di compagni è entrato in questa esperienza era quella di battersi per il comunismo. Ma la volontà e le intenzioni non bastano, i fatti lo hanno provato abbondantemente, tanto più se coniugati con teorie che, per un verso o per un altro, al marxismo si sono contrapposte.

Sappiamo che può esservi anche un'adesione formale e parolaia allo stesso marxismo; non per caso polemizziamo - rispetto ai compiti verso il movimento reale - con un estremismo facilone e inconcludente. Ma altro è dire questo, fino a criticarne il substrato opportunista, altro è dire come Negri-Sorel di un tempo): qui e ora la discriminante è la violenza. Questa discriminante fu suggerita dall'impazienza di strati sociali impoveriti ed oppressi, ma incapaci legarsi profondamente ai movimenti più lenti, ma più stabili della massa del proletariato, che è la forza decisiva di ogni rivoluzione che non sia puramente immaginaria. Quella discriminante fu giustificata da teorie che non erano affatto emancipate dal riformismo. Questi due fattori, separazione dal movimento reale dal proletariato (per seguire i percorsi della... soggettività... pentibile) e mancata separazione dal riformismo dovevano portare le Br, Pl, la stessa Autonomia ed affini al vicolo cieco in cui sono ora.

È giusto e da sostenere il rifiuto di "discutere con lo stato" i problemi del movimento rivoluzionario. Ma è sbagliato e inaccettabile pretendere che i soli a poter corregge catastrofici "errori" siano gli stessi che li hanno commessi, e - per di più - sulla base delle stesse teorie che li hanno determinati.

Il bilancio e l'autocritica verso il proletariato e sulla base del programma comunista sono necessari. Non li chiediamo certo da un piedistallo che altri incautamente si attribuiscono ma in quanto incardinati fermamente nel comunismo rivoluzionario.

Tuttavia, che avvenga o meno tale bilancio e tale autocritica nelle forme e nei contenuti necessari a far avanzare il movimento comunista, noi siamo impegnati, con il giornale e il nostro lavoro, a denunciare e lottare la repressione che si abbatte contro quei militanti che si rifiutano di sottomettersi ai diktat della democrazia e alle prescrizioni di Rossanda e soci. Lo abbiamo fatto e continueremo a farlo in direzione del proletariato, perché non sia indifferente e complice davanti ai decreti di... Creonte e dei suoi alleati.

Non abbiamo la miracolosa ricetti per far uscire dal carcere i militanti imprigionati, tale ricetta non ce l'ha nessuno (e i fatti hanno provato quanto fosse assurdo pensare che - senza guerra civile vera – fosse possibile l'evasione). Però faremo tutto ciò che è possibile alle nostre forze perché il proletariato assuma su di sé la lotta alla repressione difendendo chi ne è colpito oggi e preparandosi, nel contempo, a difendere se stesso.

Come Martinazzoli dà con una mano e toglie con l'altra

Stampa e televisione hanno dato con grande rilievo la notizia che il 31 ottobre non è stato rinnovato l’art. 90 dell'ordinamento carcerario (colloqui con i vetri, limitazioni nella socialità e aria, impossibilità di ricevere pacchi viveri).

Quali vantaggi ne hanno avuto i detenuti?
Per i "politici" c’è la possibilità di ricevere generi alimentari ogni quindici giorni, ma il pacco settimanale è stato ridotto ai peso massimo di 3 Kg. Una giacca e un paio di pantaloni superano già questo peso e bisogna scegliere tra mangiare e cambiarsi.

Il colloquio avviene ancora attraverso un vetro, dove è stata ritagliata un apertura quadrata, che serve solo a guardarsi meglio e a far passare la voce perché la minima manifestazione d'affetto viene interrotta. Sono stati drasticamente ridotti i colloqui straordinari che vengono concessi soltanto per motivi eccezionali. La posta, da quando è stata "tolta" la censura, viene consegnata solo in parte, in ritardo, o non viene consegnata affatto.

E questa sarebbe l’umanizzazione decantata ai quattro venti dal ministro Martinazzoli e dal direttore delle carceri Amato!
Ma c’è di peggio: come se si volesse far pagare queste concessioni ai proletari incarcerati, anche per loro sono state introdotte alcune "novità".

I pacchi sono stati ridotti da un massimo di 10 Kg. settimanali a un massimo di 3 Kg. con le stesse modalità che per i politici. E così anche i colloqui straordinari, che vengono dati con il contagocce.

E evidente il tentativo di mettere prigionieri "comuni" contro "politici", ma è anche vero che questo disegno può mutarsi nel suo contrario e favorire invece l’unità di tutti i prigionieri contro lo stesso nemico: le autorità carcerarie e il loro stato.

In molte carceri sono partite le lotte contro questo inasprimento delle condizioni di vita: a Nuoro, a Torino, all’Ucciardone (Palermo) con lo sciopero dei lavoranti. Anche a S. Vittore è in atto
lo sciopero del sopravvitto.

Questo tentativo di divisione non deve passare!
Solidarietà per i prigionieri!
Milano, 24 novembre 1984

Comitato Familiari Detenuti Proletari


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