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Elezioni e dopo


I dati delle recenti elezioni amministrative offrono un quadro abbastanza eloquente, per chi lo sappia decifrare, delle tendenze reali in atto nei rapporti che si vanno configurando tra le classi. I1 primo elemento che risulta dal voto è che la società italiana va lentamente, ma sicuramente polarizzandosi (in tempi e modi certamente più netti di quanto i nudi e crudi dati numerici lascino intendere).

L'exploit elettorale del PCI nell'84 era ancora il frutto di un "equivoco" destinato a sciogliersi con l'approfondirsi della crisi. Sulla risacca della politica di "unità nazionale", vasti settori di piccola e media borghesia "progressista" potevano, in quell'occasione, giocare per l'ultima volta la carta del voto al PCI, nella fiducia che i propri specifici interessi di classe potessero conciliarsi con quelli di una classe operaia disposta ad ogni sorta di "giusti sacrifici" per il "bene della nazione" per far blocco "comune" contro i ceti parassitari e contro un malcostume amministrativo che mai aveva toccato i vertici di questi anni. E’ bastato un anno per mandare all’aria questo blocco.

Cos’è successo in un anno? O meglio, cos’è venuto chiaramente a maturazione nel corso di quest’ultimo anno? Una semplificazione corrente dice: Natta ha impresso al PCE una "svolta" a sinistra, operaista e "settaria". In realtà, la svolta non è partita dal PCI, ma dalle situazioni oggettive, dall’approfondirsi della crisi e dalla necessità da parte capitalista di passare ad un attacco sempre più a fondo contro la classe operaia. Ed è questo il fatto di cui il PCI — in quanto partito "operaio"-borghese — non ha potuto non tenere conto, dovendo assumersi, in parte, e con le mille insanabili contraddizioni insiste nella sua stessa natura, una qualche difesa degli interessi della sua decisiva base operaia. L'indizione del referendum era una risposta obbligata, non solo per respingere la rapina sui 4 punti di contingenza tagliati per decreto (quanti altri punti sono andati precedentemente e consensualmente persi proprio grazie al PCI?!), ma per collegare alla pressione operaia un rilancio del peso contrattuale del PCI e della CGIL compromesso dalla determinazione con cui padronato e forze politiche e sindacali di governo andavano a colpirli.

Contemporaneamente, il governo Craxi si muoveva, con la proposta Visentini, all'attacco (sia pure con le molle) contro le fin troppo evidenti franchigie fiscali di commercianti, professionisti, artigiani. Ciò introduceva un'ulteriore contraddizione nel PCI. Avendo molto puntato, per la sua politica di "blocco nazionale", sul consenso di queste categorie, il PCI si è trovato imbottigliato tra due fuochi: esso non poteva certamente cavalcarne la protesta "corporativa" sino in fondo, come ha fatto un MSI, ma neppure poteva contrapporsi ad essa col "rigore, che si sarebbe potuto immaginare in un partito che fa della lotta al parassitismo una delle sue insegne di battaglia. L'effetto è stato di creare confusione tra alcuni settori della stessa classe operaia (insistentemente pressata dalla campagna demagogica di "giustizia fiscale" per il risanamento della "nazione" da parte dei partiti di governo e dei sindacati ad esso legati) e di scontentare decisamente queste categorie, che costituiscono — segnatamente nelle regioni "rosse" — una buona fetta della base elettorale e... finanziaria del partitone (come documentiamo nel, "dossier" di questo stesso numero). E queste ultime hanno, inesorabilmente, cominciato la loro marcia di distacco da un partito sospettato di "eccessivo operaismo" (posto che nel precipitare della crisi ogni assunzione di difesa, pur limitata, di certi interessi operai si scontra con gli interessi della pletora crescente dei ceti parassitari prosperanti sul plusvalore estratto dalla classe operaia).

Ci si potrebbe chiedere come mai i partiti di governo non ne siano stati egualmente penalizzati, come mai questi ceti non siano andati ad impinguire massicciamente l'aspirante Le Pen nostrano, Almirante. Il fatto è che questi partiti, con il PSI alla testa, si sono accreditati soprattutto come garanti di una politica d'ordine che garantisce che l' "ordine" sarà soprattutto rispettato contro la classe operaia; cosa che può ben rassicurare i campioni dell'evasione fiscale che su ciò prosperano. Certamente, in una situazione più "precipitata", si assisterebbe ad ulteriori spinte a destra, ma, per il momento, tutto lascia vedere che torchiatura e controllo sociale si eserciteranno a senso unico, senza bisogno delle "drammatizzazioni" tipiche delle classi medie spinte sull'orlo della rovina e conseguentemente recalcitranti ad ogni invito alla stabilità. "Ha vinto il bisogno di stabilità", ha titolato qualche giornale, ed è vero; occorreva solo aggiungere: la stabilità del blocco antioperaio.

Il PCI ha, tutto sommato, perso molto meno di quanto non si sia voluto far credere, non ripercorrendo in nulla le vicende che hanno segnato il tracollo rapido e verticale del PCF o del PC spagnolo, ridottisi, nei giro di pochi anni, a larve insignificanti sul piano elettorale. Ed anche questo è il segno di una situazione ancora distante da una precipitazione traumatica (ciò di cui va dato atto alla borghesia italiana, maestra nell'opera di vasellinazione dei conflitti politico-sociali).

Ma la perdita anche di pochi punti, nella situazione che si va aprendo, significa per il PCI l'avvio di un ciclo inarrestabile di discesa. Col suo "zoccolo duro" del 30%, il PCI poteva essere un buon partner (semi-esterno) dei governi di "solidarietà nazionale". Oggi, questo 30% ricacciato nell'isolamento dagli avversari conta nulla, ovvero è sottoposto al ricatto permanente di una revisione sostanziale, di una rottura decisa non col fattore K, ma del fattore O: il fattore operaio. Il PCI è stretto nella morsa, tra la necessità che esso sente di rilegittimarsi quale "grande forza nazionale" interclassista (allorché le classi vanno a scontrarsi) e l'impossibilità di scaricare tranquillamente le spinte operaie. Una morsa che Craxi fa di tutto per rendere più stretta, mirando al cuore del "triangolo rosso", incrinatosi il quale davvero comincerebbe per il PCI un percorso in discesa alla francese.

La sconfitta elettorale è destinata ad aprire ulteriori contraddizioni tra una linea ultramoderata di "ripresa del dialogo" con le fantomatiche "forze progressiste" degli altri partiti. Lama e Napolitano ne sono buoni portavoce, ma per noi non c'è dubbio che ad essi verranno ad aggiungersi nel tempo altri vasti settori piccolo-borghesi, magari ex - "sinistri", sempre tempestivi quando si tratta di scendere dal cavallo operaio perdente. D'altra parte, al lato estremo del PCI non appare ancora alcun segno di effettiva radicalizzazione a sinistra. Nel PCI la disputa resta tra dei Kinnoch di sinistra, tutti rifuggendocome la peste ogni minaccia di "scargillismo", compresi coloro che si fanno vanto di fedeltà alla rivoluzione ed alle patrie del socialismo reale. Con una classe operaia sovraccaricata di batoste e tuttora intenta a leccarsi le ferite questo è perfettamente naturale. Le cose cambieranno quando essa tornerà spontaneamente — cioè: per materiale necessità — in azione.

La scadenza del referendum si colloca in questo quadro. La maggioranza del PCI è tentata dalla prospettiva di rifarsi sulla batosta delle amministrative con una vittoria sul tema dei 4 punti, ma, nello stesso tempo, ambisce ad una rivincita che non significhi "esasperazione dello scontro sociale". Una bella quadratura del cerchio! La destra sarebbe tentata da un "buon accordo tra le parti"; il guaio è che l'avversario lascia presagire poco di accordo e poco di buono, mirando ad una sconfitta espressa delle forze "comuniste", ciò che rende il piatto indigesto persino a quello stomaco di struzzo di un Lama.

In queste condizioni i rivoluzionari hanno delle buone carte da giocare per fare dell'immancabile ripresa dello scontro di classe un elemento decisivo di separazione di settori di punta della classe dal riformismo. Si preparano tempi in cui ogni svendita sarà messa in conto, tempi in cui ogni mezza misura si rivelerà impotente: spetta ai rivoluzionari dare alla rinascente lotta proletaria dei precisi punti di riferimento politici, programmatici ed anche organizzativi per attrezzarsi a questo passaggio.

Il proletariato si sta già ritrovando solo sul piano elettorale; enormemente più solo sarà sul terreno dello scontro sociale. Ma in questa solitudine esso è forte del fatto di essere il perno esclusivo della produzione e della società. Esso deve "soltanto" riconoscere orgogliosamente questa sua solitudine e questa sua forza per ritornare ad essere sì stesso. Le elezioni sono passate, sottraendo dei punti al partito "operaio"-borghese; non hanno sottratto al proletariato, in quanto classe, alcun punto di forza né hanno sanato alcun suo problema. Lo scontro vero è destinato sempre più a trasferirsi fuori dalle urne e dai parlamenti, nelle fabbriche e nelle piazze. Di qui verrà la risposta che ci attendiamo ed a cui lavoriamo!



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