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In margine al Referendum

A proposito dell’intervento dei rivoluzionari

I compagni che ci leggono sanno quanto la nostra concezione del ruolo dei rivoluzionari nella fase presente comporti non una pura e semplice enunciazione e propaganda di principi fondamentali, ma un intervento attivo nello scontro politico e sociale. Il fatto che siamo agli inizi di un ciclo decisivo della ripresa della lotta rivoluzionaria di classe, non può che tradursi in un impegno sempre più pressante nello scontro di classe per gettare le basi della successiva direzione rivoluzionaria di esso.

Sul tema del referendum abbiamo tradotto in pratica questa linea di orientamento, come i lettori potranno meglio constatare attraverso le pagine del numero zero del nostro Lavoratore Comunista. Un bilancio di questa attività è tuttora in corso, mentre esce questo numero del Che Fare, e possiamo solo anticipare che, in talune situazioni, il nostro impegno ha messo capo ad un'opera di presenza e, talvolta di sollecitazione e formazione di "comitati per il sì" a chiara impronta di classe (come nel caso del comitato costituitosi nell'Udinese) o al lavoro di formazione di "comitati per la difesa del salario" (come nel caso di Vibo Valentia). Ma non si tratta tanto, per noi, di allineare delle cronache del "nostro intervento", alla moda di certi gruppetti settari che finiscono per far coincidere l'alfa e l'omega della lotta di classe con la propria separata esistenza, quanto di discutere e chiarificare modi e contenuti dell'intervento rivoluzionario, rispondendo ad un'urgenza sentita nelle avanguardie e in diretto rapporto con le esigenze dell'insieme della classe.

Su cosa verte la discussione?

In più occasioni abbiamo dovuto fronteggiare un duplice fuoco di fila di critiche.

Si dice da un lato: "Data l’attuale fase di limitato, e con un peso ancor più limitato delle forze rivoluzionarie, ogni impegno diretto sul referendum, per chiamare le masse acché si faccia e si vinca e ad organizzarsi, a tal fine, in appositi ‘comitati per il sì’, si riduce ad un attivismo minimalista chiaramente opportunista, alla coda delle organizzazioni riformiste, mentre il ruolo principale dei rivoluzionari dov'essere quello di fare propaganda comunista contro l'insieme delle manovre riformiste e loro obiettivi, dichiaratamente interclassisti e complessivamente antioperai".

I compagni che seguono questo tipo di ragionamento si sono perciò pronunziati per un astensionismo di fatto, appena temperato, in certi casi dalla dichiarazione che si potrà anche, individualmente, votare per il sì, se referendum ci sarà, escludendo ogni atteggiamento "mobilitazionista" anteriore, non esistendone né le giustificazioni oggettive né quelle soggettive.

Oppure, si contrappone al referendum altri obiettivi "non mistificati" ed altre forme di mobilitazione. Qui la citazione è testuale:

"Invece di rincorrere le lucciole dei comitati referendari, il compito dei rivoluzionari è quello di aggregare le prime avanguardie di classe su comitati di lotta contro gli attacchi ad ogni sorta di sterilizzazione della scala mobile, per la difesa ad oltranza dei salari come primo passo verso la lotta alla politica dei sacrifici ed alle compatibilità del sistema così care ai sindacati e alle forze della socialdemocrazia. (...) Il problema non è rispondere sì o no al referendum, il problema è riportare in fabbrica quella lotta per la difesa del salario, che alcune (!) forze borghesi e forze codine di ogni risma vogliono ridurre o consentono che sia ridotta ad un confronto democratico e interclassista" (Battaglia Comunista, n. 4/'85).

Parleremo, in questo caso, di astensionismo "alternativista".

La seconda obiezione è di carattere opposto: "Data l'importanza oggettiva della posta in gioco, che travalica i confini del referendum stesso, ed investe problemi di fondo, sia salariali che politici, è settario e frenante ogni distinguo di tipo propagandistico; occorre, invece, tuffarsi in una lotta che, di per sé, unifica il fronte proletario ad un gradino superiore. La critica al PCI ed alla CGIL di Lama è legittima solo a patto che non introduca nella massa elementi di divisione."

Ed è il tipico discorso trotzkista o dippino, la cui massima critica a PCI e CGIL è di non volere abbastanza la comune vittoria.

Che queste obiezioni ci vengano dall'esterno della nostra organizzazione non ci esime dal darvi delle risposte puntuali, convinti come siamo che esse sono del tutto interne alle problematiche ed alle difficoltà dello stesso movimento di classe.

Risposta agli astensionisti

Il ragionamento degli astensionisti-tipo ripropone il classico atteggiamento del serpente che si morde la coda. Se non c'è già in partenza un movimento di classe all'offensiva, allora nulla si può fare in direzione di esso. Se il partito rivoluzionario è insussistente o, piuttosto, poco forte (tutti costoro si considerano, in realtà, "il Partito"), allora esso non può esercitare alcuna sensibile azione di direzione sul corso degli avvenimenti imposti o monopolizzati dai controrivoluzionari.

Il nostro criterio è un altro: è vero o no che il referendum agita problemi che interessano direttamente gli operai?, che esso è sentito dalla massa lavoratrice in quanto tale?, che questi problemi nascono da una divaricazione di classe e sono comunque destinati ad approfondirla, in un senso o nell'altro (a seconda di chi vinca)?, che una risposta positiva ad essi può venire solo dall'impostazione degli obiettivi e dei metodi di lotta difesi dai rivoluzionari? Se rispondiamo che è vero ne discende che l'impegno dei rivoluzionari può e deve riguardare la massa nel suo scontro col fronte borghese e con lo stesso riformismo.

Su quale terreno? Gli astensionisti "alternativisti" obiettano che dei problemi in tal senso esistono sì, ma non passano per il referendum e si debbono cercare altri obiettivi e comitati. Strano ragionamento. Come si potrà passare a comitati di lotta "contro ogni sorta di sterilizzazione etc, etc. " quale "primo passo" verso... la rivoluzione se la massa ancora stenta ad organizzarsi sul limitato obiettivo del recupero dei 4 punti? Oppure si pensa davvero che ci sia da parte della massa l'aspettativa per le grandi battaglie alla sola condizione di non dover passare per quelle piccole? O che chi si mobilita, poveretto lui, per il referendum sia già un'anima persa, organicamente consegnata al riformismo?

(Non a caso, anche di fronte al poderoso sciopero dei minatori inglesi, questi rivoluzionari superdotati hanno rifiutato lo spregevole "minimalismo" della lotta reale in corso per proporre, in alternativa ad essa, obiettivi "più avanzati" ma che diciamo?, gli unici veri obiettivi...).

Il fatto è che tutta questa propaganda ideologica si rivolge espressamente ad "avanguardie" che abbiano già fatto il famoso salto di coscienza e che siano ben decise a non retrocedere da esso in direzione della massa "attardata", mentre il nostro scopo è di far sì che la funzione dell'avanguardia sia di penetrare nella massa a partire da quella che essa è e lungo i binari su cui l'obbliga il corso stesso della crisi.

L'astensionismo principista in genere crede troppo nei "piani" del capitale e del riformismo, sospetta eternamente la fregatura insita nel gioco condotto da costoro, mentre trascura completamente le contraddizioni oggettive che fanno sì che il gioco dei nostri avversari non possa essere indipendente dalle determinazioni di classe e debba scontrarsi con esse. Cosa che avviene sempre non sui terreni che ci siamo scelti noi, ma su quelli cui, fino alla rivoluzione, siamo obbligati dagli altri, dai borghesi e dai riformisti. Detto sinteticamente: la rivoluzione è un traguardo strategico d'arrivo per il movimento di classe cui i rivoluzionari devono lavorare, non un punto di partenza.

È vero che, nella situazione presente, il nostro obiettivo principe non è la vittoria dei sì in se stessa, ma il rafforzamento della classe nel suo insieme, delle avanguardie di massa e politiche della classe, dell'organizzazione rivoluzionaria. Proprio per questo noi non facciamo dell'attivismo indifferenziato alla "trotzkista". Ma è anche vero che il risultato cui tendiamo, in ordine ai tre fattori di cui sopra (da tenere insieme uniti e ben distinti), comporta una lotta per spostare dei rapporti di forza che non può darsi indipendentemente dall'oggetto specifico in questione. Chi si presentasse di fronte alla massa dicendo: "Siamo con voi contro ogni sorta di sterilizzazione della scala mobile, ma, proprio per questo, non ci interessa questa forma di... sottrazione sulla scala mobile" farebbe ridere i polli e svaluterebbe completamente il discorso rivoluzionario.

Del resto, tutto è possibile. Abbiamo anche letto da qualche parte, in una rivistina "marxista" americana, che la stessa lotta salariale, in quanto ribadisce l'esistenza del lavoro salariato, è necessariamente appannaggio dei riformisti e va "sostituita" dalla lotta per l'abolizione del lavoro salariato... Il che suona alquanto diverso dalle pagine di Marx in Salario prezzo e profitto che abbiamo presentato (non a caso) nel numero precedente del giornale.

Da parte nostra, consideriamo come un risultato effettivo allorché in settori della massa è cresciuta una disponibilità alla lotta divaricata rispetto all'atteggiamento riformista, sia per metodi che obiettivi, od allorché in settori dell'avanguardia alcune forze sono state messe in grado di cogliere "un po' meglio" la divaricazione di prospettive generali tra riformismo, centrismo e rivoluzionari. Consideriamo questo un passo avanti cui si può tranquillamente lavorare senza fare... due passi indietro (e soprattutto senza mettersi nella funzione del Motore Immobile cara a certi nostri amici).

Risposta agli opportunisti di sinistra

L'altro tipo di obiezione parte da chiari presupposti opportunistici e ad essi inevitabilmente riconduce.

È ben vero che il problema del referendum riguarda realmente interessi operai e contiene in sé la possibilità di un'affermazione di essi. Occorre, però intendersi.

Lo scontro referendario non si dà secondo uno scenario per cui da una parte c'è un fronte antioperaio compatto e dichiarato e dalla parte opposta un "puro" fronte proletario, si che basterebbe sostenere e far uscire vittorioso il secondo per risolvere il busillis rivoluzionario.

Non ci stancheremo mai di ripetere l'assioma leninista per cui la lotta operaia può giungere di per sé al solo livello trade-unionista e che, perché essa trascresca in lotta rivoluzionaria, occorre che sia importata al suo interno la coscienza. Se è vero che il proletario spontaneamente mira a difendere il salario, l'occupazione, le proprie condizioni di esistenza, è altrettanto vero che la lotta che si dà a tal fine è legata ad una trama infinita di fili che occorre dipanare, ai rapporti tra tutte le classi, tra le classi e lo Stato. Ed è su questo lavorano le forze politiche borghesi, ben compresa — ed anzi in prima linea — quella riformista, a far sì che la lotta immediata si raccordi ad una prospettiva complessiva di mantenimento dell'ordine sociale capitalista e ne dipenda. Per l'appunto, i riformisti possono sì condurre una lotta della classe in quanto classe "in sé", classe del capitale, mentre aborriscono dalla lotta rivoluzionaria della classe "per sé", in quanto contro il capitale.

Ora, sulla questione del referendum i sindacati si dividono, ad esempio, non tra chi chiede il taglieggiamento incondizionato della busta paga e dei bravi Robin Hood che intendano "rubare" ai ricchi per "restituire" ai poveri. Un Carniti conduce la sua battaglia per il "no" sulla base di una accorta demagogia operaia (difesa dell'occupazione e dei salari bassi, recupero salariale sulla base dell'attenuazione dell'inflazione, lotta all'evasione fiscale...), mentre un Natta chiede il recupero dei 4 punti per rilanciare un piano di contrattazione "consensuale" dichiaratamente finalizzato ad una "ricomposizione equa del conflitto sociale". È evidente che sinché la classe operaia si limitasse al piano referendario, senza riuscire a sottrarsi ai piani riformisti, non farebbe un passo avanti, né in termini di recupero immediato né, tantomeno, in termini di sviluppo della propria forza antagonista.

È certamente vero, l'abbiamo detto infinite volte e lo ripetiamo qui, che le possibilità di fare degli ulteriori passi innanzi sulla nostra strada partono da un’organizzazione sul "sì" e quindi non si tratta di restarsene pilatescamente a metà tra il sì ed il no come se fossero la stessa cosa. Ma la condizione prima di mettere a frutto il "sì" è che la battaglia si ingaggi non solo contro il fronte avverso, ma all'interno della classe, contro il riformismo, per "introdurre" nel proletariato "dall'esterno dei rapporti immediati" la coscienza di classe.

In effetti, solo prevedendo a tempo e fronteggiando tutte le manovre del riformismo in materia di referendum si può pensare di costituire quel fronte di classe che, dal punto di vista marxista non s'identifica con un criterio formale di unità ma con il radicamento e l'estendersi della presenza rivoluzionaria nella massa. Perciò: battaglia contro tutti i tentennamenti e i rinvii sulla stessa prospettiva del referendum, battaglia contro l'impostazione interclassista dei comitati per il sì e la loro delimitazione a puri movimenti elettoralistici e di "opinione", battaglia contro la delimitazione del movimento immediato al puro contenzioso sui 4 punti, battaglia contro il tentativo di rimediazione al ribasso con padronato e governo rispetto alla richiesta espressa dal referendum, battaglia contro i connotati di divisione in seno alla classe insiti nei piani di "riforma del salario" (più o meno alternativi od aggiuntivi al referendum), battaglia contro la delimitazione dello scontro referendario ai soli lavoratori occupati e per una prospettiva capace di coinvolgere tutti gli altri spezzoni del proletariato (cassintegrati, licenziati, disoccupati, part-timisti, lavoratori al nero...), e via dicendo.

Da dove e come questa battaglia debba partire non siamo noi a sceglierlo. Si possono dare situazioni di comitati oltre il referendum, per la difesa del salario, comitati per i sì chiaramente delimitati sul terreno di classe, comitati assai meno caratterizzati in partenza (ed escludendo, certo, i falsi comitati riducentisi a puro terreno di manovra al chiuso del PCI). L'importante non è questo, ma che, sapendo da dove si comincia, si voglia e si sappia far marciare assieme l'unità di fronte per il sì e piantare dei cunei all'interno del rapporto riformismo-massa.

L'opportunismo di sinistra si assume il primo compito rinunziando al secondo e così li tradisce entrambi.

Sono argomenti su cui ritorneremo sul Lavoratore Comunista. Ci basta, intanto, aver fissato alcuni punti discriminanti su cui incardinare la discussione con le altre organizzazioni comuniste e coi lettori.


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