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Dossier 
Gli operai e l’autunno

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L’ "azienda Italia" nella concorrenza internazionale


Il punto di partenza obbligato per inquadrare come si va a questo autunno è lo stato dell'economia mondiale.

La fine della ripresina USA, dopo poco più di un anno di drogata euforia, annuncia un periodo non breve di incertezza e, quanto meno, di nuova stagnazione, con tutti i fattori di instabilità non solo intatti, ma pericolosamente accresciuti.

Siamo avviati con decisione verso i passaggi più acuti della crisi, tanto più quanto più hanno perso vigore negli scorsi anni prima i tentativi di rimettere in sesto l'accumulazione mondiale attraverso i paesi dell'Est e i paesi arretrati, e poi il "nuovo rinascimento" (!) americano.

È così che, con metodo, la crisi trascina il capitalismo internazionale ad un nuovo e profondo attacco diretto allo stesso proletariato metropolitano, e non già — come supponeva l'Autonomia — per astratta libidine di comando, ma per le molto concrete e materiali sue necessità di sopravvivere. Un capitalismo capace sì di fare profitti, ma incapace di farne a sufficienza per continuare ad espandersi, dove porrà mano per riprendere una più intensa valorizzazione? Alla gallina dalle uova d'oro, al proletariato, che alcuni insensati postulano lì lì per scomparire, ed è invece, più che mai, il pilastro della produzione mondiale.

La cosa non è nuova, si dirà. In sé non è certo nuova, ma guai a non cogliere le due particolarità di questo momento.

Negli anni '70, almeno nelle metropoli occidentali, l'attacco capitalistico alla classe operaia centrale è avvenuto ancora prevalentemente in forma indiretta (per es. attraverso l'inflazione) e con una tattica di aggiramento, ossia con i primi colpi assestati ai settori più deboli e "marginali" del proletariato. A più di dieci anni dall'inizio della crisi, l'attacco si è fatto dovunque molto più diretto (v. la scheda sul tramonto della politica di concertazione in tutta Europa) e rivolto in progressione alla parte centrale del proletariato industriale. Il percorso di questo attacco può essere ben esemplificato, per l'Italia, in due date: 1975, accordo sul punto unico di contingenza, che estendeva il grado di copertura della scala mobile in cambio di una maggiore produttività e disciplina nelle fabbriche; 1985, assalto della Confindustria, sulla base di una propria piattaforma globale che non prevede alcun tipo di scambio, all'ultimo simulacro di scala mobile rimasto. Negli altri paesi europei le cose vanno nella stessa direzione, sfalsate tutt'al più nei tempi e nei modi.

L'altra particolarità della attuale fase della crisi è l'ulteriore incremento della concorrenza sul mercato internazionale sempre più stagnante. Neanche questa è una novità in assoluto, perché già tra il '75 e il '78 ci fu in Europa un primo piccolo boom di provvedimenti protezionisti. E, se ben si guarda, dall'inizio della crisi non è che un susseguirsi di forme sempre più aspre di concorrenza. La piccola differenza della attuale congiuntura è il livello e sono le modalità della concorrenza stessa. Oggi del tutto scopertamente sono USA, Giappone ed Europa a scontrarsi per il controllo del mercato mondiale, con una Europa sempre più disarticolata al proprio interno proprio dal meccanismo della competizione, minacciata dalla maggiore aggressività economica, finanziaria e militare degli alleati-nemici. Quanto al livello, basterà notare che siamo già alle prime spedizioni militari sui territori da "difendere" (le Malvinas, Grenada, Beirut) e basterà ricordare, Per il livello economico, la dichiarazione di Agnelli sull'industria dell'auto in Europa: dieci grandi produttori di auto in Europa sono troppi, bisogna andare ad accordi e fusioni per ridurre la... sovraproduzione (su "la Repubblica", 3/7/85).

"In presenza di una domanda internazionale debole, la maggiore crescita italiana potrà realizzarsi solo se saremo in grado di guadagnare nuove quote di mercato all'interno e all'esterno del nostro paese, cioè solo se sapremo innalzare decisamente il livello di competitività dell'azienda-Italia": così scrive la Confindustria nel suo documento-proclama del luglio scorso. E questo è l'obiettivo globale cui il capitalismo italiano mira. Un obiettivo che non condizionerà le politiche confindustriali per qualche mese, ma che dominerà gli interventi privati e statali del capitalismo per un lungo periodo.

Tutta la "filosofia", tutta la propaganda borghese — e se ne fa tanta in questo momento — si riduce a questo unico articolo di fede. Con l'aggiunta di una scontata giaculatoria: se sarà migliorata la competitività dell'azienda-Italia, tutti gli italiani, leggi anche i lavoratori, staranno meglio.

Ora, i vincoli di questa concorrenza ad alto livello sono molto stretti per il capitalismo italiano. Esso è situato in una posizione intermedia tra quella delle massime potenze e quella dei paesi imperialisti minori, il che la obbliga a concorrere:

- da un lato (nelle produzioni di avanguardia) con gli USA, il Giappone e gli altri paesi europei;

- dall'altro (nelle produzioni mature o intermedie) con i paesi di giovane capitalismo o con i paesi dell'Est.

La sua conflittualità è quindi su due fronti, e si esprime da un lato nella tendenza a competere nei nuovi settori (elettronica, robotica, progetto Sdi e Eureka), dall'altro nella guerra difensiva per non farsi scalzare dai paesi "emergenti".

Ora, nel primo decennio della crisi, la posizione del capitalismo italiano sul mercato internazionale è rimasta, ad onta degli allarmismi, la stessa del 1971. Dividendo il complesso delle esportazioni italiane in tre settori, ad alto contenuto tecnologico (I), a medio contenuto tecnologico (II), a basso contenuto tecnologico (III), abbiamo le seguenti variazioni:

 

1971

1981

settore I

21,2

21,4

settore II

38, 1

39,2

settore III

40,6

39,4

Naturalmente, però, nella misura in cui USA, Giappone e Germania (in proporzioni molto differenti) hanno variato questa composizione a favore del settore I, la tendenza su descritta è una tendenza ad essere distanziati. Ed è proprio questo l'incubo che turba i sogni dei borghesi italiani, quello che si arresti o addirittura si inverta la marcia di avvicinamento storica ai massimi paesi capitalisti. Segnale inquietante è, per loro, la persistenza, quasi ininterrotta da sei anni, di deficit della bilancia dei pagamenti crescenti che, cumulandosi, rischiano di peggiorare la situazione finanziaria complessiva. Un altro segnale inquietante è il deficit statale cronico che alimenta un indebitamento globale pari ormai al prodotto nazionale lordo, con una difficoltà che impaccia gli interventi di sostegno all'accumulazione proprio in un momento in cui esso è determinante nel varare politiche industriali di lungo periodo, nell'aggancio dei piani di guerre stellari, nel dare impulso alle nuove tecnologie e nel fornire nuove infrastrutture pubbliche.

Nell'ultimo decennio la struttura produttiva italiana non è rimasta inerte e identica a se stessa, nonostante che il 50% delle sue esportazioni sia costituito da prodotti meccanici, tessili e di abbigliamento, tutti settori considerati tradizionali. C'è stato, infatti, anche in questi settori uno spostamento verso "fasce di qualità superiori delle specializzazioni produttive". Senonché pure un tale spostamento, conseguito in larga misura attraverso un ampio ricorso alla piccola impresa moderna, se è stato sufficiente, insieme con discrete ma realissime misure protezionistiche, a garantire il capitalismo italiano dai paesi emergenti, non lo è affatto per l'aggancio con gli USA, la Germania e il Giappone.

Intendiamoci: ancora una volta il capitalismo italiano ricorrerà all'abbassamento del prezzo del lavoro operaio e al suo massimo sfruttamento. Del resto è la tendenza via via più forte degli ultimi anni, in cui, a cadenze semestrali e al massimo annuali, i capitalisti hanno presentato piattaforme anti-operaie a governo e sindacati, spesso attuandole unilateralmente. Ma, proprio per il livello attuale dello scontro sul mercato mondiale, una misura del genere non sarebbe sufficiente. Nuovi livelli tecnologici possono essere conseguiti, nuovi mercati conquistati, vecchi "squilibri macroeconomici" rettificati solo a condizione di un massiccio "spostamento di mezzi finanziari dai salvataggi e dall'assistenza al sostegno degli investimenti produttivi", cioè dalla spesa pubblica che in qualche modo costituisce una integrazione del salario alla spesa pubblica di diretto sostegno dei profitti.

Neppure questo, però, basterebbe: "Lo stato moderno, garante del patto sociale che lega tra loro uomini liberi e padroni del proprio destino, deve operare perché anche in questa fase nuova della società italiana siano garantite a tutti le opportunità e le possibilità di esprimere le proprie capacità creative". Il filosofastro appena citato è il Lucchini ("Mondo economico", 3/ó/85). La sua dolciastra prosa, decodificata, vale: lo stato, garante del patto per la vita e per la morte che lega i padroni (dell'altrui destino...) grandi e piccoli ("tutti"), dunque lo stato in quanto stato capitalistico, deve organizzarsi in anticipo, blindarsi in anticipo in modo adeguato ("operare per") allo scopo di garantire ai capitalisti ("tutti") contro il proletariato (innominato, ma presente) la possibilità e l'opportunità, la libertà — insomma — di attuare forme di sfruttamento ("capacità creative") adeguate alla nuova fase della concorrenza internazionale.

Ecco come la seconda particolarità dell'attuale passaggio della crisi va a rafforzare la prima: la difesa dell' "economia nazionale", la possibilità che la democrazia nata dalla resistenza realizzi finalmente il sogno mussoliniano del posto al sole per l'Italia, è affidata ancora una volta ad un attacco senza limiti di tempo né di misura al proletariato, un attacco che segna questo autunno, e va ben oltre di esso.


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