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Una manciata di soldi (forse) 
per tanta produttività in più

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Quest'anno è cominciato - per la borghesia - sotto rosei auspici. Il calo contemporaneo di petrolio e dollaro ha dato una improvvisa ventata di speranza ad una economia immersa fino alla gola nel fango della crisi. Ma i borghesi, ormai edotti dell'andamento a "denti di sega" dei loro affari, non si sono abbandonati a toni trionfalistici. I più ottimisti parlano di qualche anno di tenuta, gli altri si accontentano anche di qualcosa in meno, e non si nascondono la possibilità di svolte improvvise. D'altra parte i segnali non sono tutti positivi; il calo di materie prime e petrolio, ad esempio, avvantaggia i paesi industriali, ma getta il Terzo Mondo in una situazione incandescente e fa tornare sulla finanza mondiale la nera ombra del debito internazionale.

"E’ un'occasione", si sono affrettati a dirci padroni, governanti e giornalisti. Un'occasione che non va mancata, una contingenza di cui approfittare appieno, sapendo che, prima o poi, si tornerà nel tunnel senza fondo della crisi. Ma, come avvantaggiarsene?

Il risparmio sulla bolletta petrolifera non è ancora quantificabile con certezza (l’Opec sembra ormai orientata a cercare di risalire ai 20 dollari al barile), ma il dibattito sulla sua destinazione ha già illuminato sulle intenzioni dei contendenti: destinare questo risparmio "ai consumatori" sarebbe inutile e nocivo. Inutile perché l'aumento dei consumi - oltre a rilanciare anche l'acquisto di merci estere sortirebbe solo un effetto effimero di rilancio produttivo, ma nuocerebbe alle imprese che oggi hanno bisogno, non tanto di qualche mese di produzione gonfiata dalla domanda di consumo, bensì dei capitali necessari ad avviare una nuova fase di ristrutturazione che le adegui ad un livello di concorrenza, già ora spinto avanti dalla rinnovata aggressività commerciale degli USA (su cui un effetto, non trascurabile, ha la svalutazione del dollaro), e che subirà un ulteriore salto nel corso di questa ripresa (nessuna borghesia destina quote significative di risparmio petrolifero ai consumi), e dopo di essa.

Il tempo in cui si poteva sperare di rimanere a galla con palliativi momentanei, come il rilancio dei consumi, è ormai finito; il parametro con cui fare i conti è quello dettato dalla ristrutturazione tecnologica e finanziaria compiuta dagli USA, solo stando al passo con quel livello si tiene, altrimenti la botola per il 3° Mondo si apre anche per l'Italia.

Su questa linea non c'è monolitismo nella borghesia, ci occupiamo altrove della natura dello scontro e dei contendenti, ci basti qui solo rilevare che è di sicuro quella prevalente. Quali le conseguenze?

Tutto il risparmio vada - invocano i padroni - alle imprese, al finanziamento delle cure per migliorare la loro competitività, seguendo un andamento già avviatosi con il "boom" della Borsa. Introdurre capitali nelle aziende non è però sufficiente, va migliorata anche la produttività dei lavoro. A questo fine la parola d'ordine centrale per la borghesia è divenuta la flessibilità (ma quella sul costo dei lavoro non è certo passata in archivio!). Flessibilità innanzitutto del mercato del lavoro in entrata: assunzioni nominative, senza passare per il Collocamento, contratti di formazione-lavoro con assunzioni a tempo e contributi statali-CEE. Flessibilità in uscita: snellimento e progressiva abolizione di C.I.G., prepensionamenti, mobilità da un posto di lavoro a un altro, e dal lavoro... alla disoccupazione. Flessibilità, per ultimo ma non meno importante, in fabbrica: ricorso ai turni a seconda delle necessità del mercato, abbattimento di tutte le rigidità nell'uso della forza-lavoro, utilizzo delle riduzioni d'orario già ottenute nei vecchi contratti (e eventuali altre cui, comunque, la Confindustria si oppone) in ragione d'anno, ovvero secondo l'andamento produttivo (prolungamento anche oltre le 40 ore quando il mercato tira, uso del monte-ore ridotte per fermate o rallentamenti produttivi). Questa, in sintesi, la piattaforma confindustriale per i prossimi contratti. Una piattaforma su cui i padroni hanno già cominciato ad ottenere molto sia dal governo (per ultimo anche coi piano De Michelis per l'occupazione giovanile) che dai sindacati.

In cambio ci potrà anche essere qualche misero aumento salariale - meglio se diversificato e legato a presenza e produttività - che non sia neppure un recupero di quanto è stato tolto dai salari con l'ultimo provvedimento sulla scala mobile. Non a caso la Confindustria ha lanciato in prima persona (Mandelli e Annibaldi, Sole-24 ore del 1.3 e 7.3.86) un duro attacco alle "fasce sociali" di ENEL e SIP e alle pensioni: basta con la pensione garantita, via ai "fondi pensionistici privati", che sono, oltre tutto, un altro sistema per convogliare verso la finanza - e le imprese - quote di salario. L'attacco complessivo al salario non deve rallentare neanche un momento anche se si orienta su strade diverse.

Il modello Fiat

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Questa linea ha avuto un primo significativo suggello con tre successivi accordi tra Fiat e sindacati. Complessivamente la Fiat ha dato: aumento medio di 320.000 lire per l'86 più altre 140.000 per l'87, impegno alla sistemazione di "2.200" dei rimanenti 5.500 cassintegrati entro l'87, in vario modo: assunzione in Fiat o in Pubblica Amministrazione, prepensionamenti, dimissioni incentivate, corsi di riqualificazione. Molto più cospicuo è quanto ha ottenuto: 8 sabati lavorativi, alcune centinaia di assunzioni a tempo determinato (contratti formazione-lavoro), turni di notte fino all'87 per 1.800 lavoratori a Rivalta, più altri turni di notte (senza termine prefissato) per far funzionare 24 ore su 24 i nuovi impianti superautomatizzati che saranno introdotti con un investimento di 5.700 miliardi nei prossimi 4 anni, un nuovo sistema di pause per la mensa in modo che vi siano sempre operai a far funzionare gli impianti. Da notare che ai turni notturni saranno impiegate anche le donne, in deroga, con l'assenso del sindacato, alla legge sulla parità che le escludeva.

Agnelli fu alla testa dell'opposizione alla linea filo-Piramidi che divise la borghesia nel dopo-Lauro e Sigonella, si ripropone oggi come avanguardia di tutta la borghesia e spiana la strada al modello di relazioni industriali di cui il padronato ha bisogno per affrontare i saliscendi della crisi: massima libertà (se contrattata e accettata dal sindacato, meglio) nell'uso di una forza-lavoro legata alle sorti aziendali, sempre meno pagata e mai più in sciopero.

La Confindustria ha, quindi, scoperto le sue carte, non così il governo che vive tuttora i una situazione di "empasse", dovuta allo scontro, non risolto, tra "filo-arnericani" e "filo-arabi" (le virgolette sono d'obbligo anche perché le definizioni non chiariscono tutta la portata della contesa). Gli stessi tentennamenti e le scivolate nella approvazione della finanziaria alle Camere hanno testimoniato le difficoltà - non dovute solo a motivi clientelari - in cui si muovono i "cinque".

Nonostante ciò il governo ha lanciato alcuni segnali inconfutabili: il risparmio petrolifero non andrà ai consumi (fiscalizzazione delle diminuzioni dei prezzi dei prodotti petroliferi, tenuta sostanziale della bolletta ENEL, ecc.), tuttalpiù si discute in che proporzione dividerlo tra imprese e deficit pubblico. Ampia disponibilità ad intervenire, come "mediatore" e con leggi, in tema di flessibilità. Revisione della curva fiscale nel senso di restituire qualcosa, per il solo '86, ai redditi medio-bassi.

Craxi ha ricordato a Lucchini quanto la "mano pubblica" sia già stata generosa con le imprese, non certo per promettere restrizioni, ma solo per far pesare di più, politicamente, questa "larghezza" e ottenere dai padroni un maggior sostegno alla sua linea.

Verso i contratti

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La ripresa economica iniziata nell'84, ha dunque, un prolungamento.

Per legarcisi la borghesia impose al proletariato il taglio dei 4 punti di contingenza. Ora per rimanere sul carro eleva le sue richieste.

Persevera, metodica, nell'attacco.

I sindacati non hanno costituito finora contro esso alcun argine reale, fino a provocare uno scollamento con la "base operaia", giunto ad un limite di guardia, per quanto si esprima ancora solo in mugugno e disorientamento, piuttosto che in critica aperta e profonda alla loro linea. I contratti in scadenza quest'anno per 13 milioni di lavoratori possono essere il terreno per un tentativo di recupero di consenso operaio, un recupero di cui hanno bisogno anche per tornare cori maggiore legittimità a quel tavolo di "concertazione" divenuto vieppiù per loro tavolo di accettazione di cedimenti.

Tutto il congresso CGIL e l'attuale discussione tra le Confederazioni, all'inseguimento di una improbabile nuova a unità, verte intorno a questo. Vediamone i punti centrali.

L'orientamento divenuto ormai comune è quello a fare dei contratti "aperti", ovvero degli accordi cornice che risolvono i problemi di fondo, rinviando poi alle soluzioni articolate nelle singole aziende, tenendo conto della loro competitività.

Le richieste salariali sono ampiamente contenute nelle prime due piattaforme abbozzate. Per i metalmeccanici si richiedono 100.000 in tre anni, per il pubblico impiego nulla, solo un recupero dell'1% perso nell'85 e qualche trasferimento da straordinari a stipendi.

In compenso si prospetta un ventaglio salariale molto più largo: per i metalmeccanici da 100 a 220 con l'istituzione di una sorta di "indennità di funzione" per i quadri, per il pubblico impiego da 100 a 300. Sull'orario la richiesta è per i metalmeccanici una riduzione di 32 ore annue da utilizzare in accordo alle necessità delle aziende. Le disponibilità sulla flessibilità sono, infine, pressoché totali, condizionate solo da una richiesta di commissioni provinciali paritetiche per il controllo del rispetto delle norme sui contratti di " formazione-lavoro".

La logica di queste piattaforme è quella di ottenere qualche aumento salariale, poco meno che simbolico, e tentare un maggiore legame tra operai e azienda attraverso un recupero del ruolo di contrattazione dei consigli di fabbrica e delle strutture sindacali di zona. "Può offrirci l'occasione di riaffermare il ruolo negoziale del sindacato" così il "sinistro" Garavini ha salutato l'accordo Fiat su l'Unità del 21 marzo.

Il risultato sarà una frammentazione degli operai che per ottenere qualche più serio aumento salariale - o solo un maggiore garanzia del posto di lavoro - dovranno accettare di legarli a piani di aumento della produttività, azienda per azienda.

Gli operai escono da anni di "bastonate" continue; le ultime stanno appena cominciando a manifestare i primi effetti. Scattano gli aumenti di tickets stabiliti dalla finanziaria 86 e - da febbraio - ha iniziato a funzionare la semestralizzazione della scala mobile, che da sola produrrà una perdita, solo nel 86, di 207.000 lire annue, da sommarsi alla minore copertura garantita dal nuovo sistema (che, è utile ricordarlo, ha inserito un metodo di conteggio diversificato per reddito).

Persino una logica come quella sindacale può apparire - in questo quadro - positiva. Purché si recuperi qualche soldo, e purché cessi lo stillicidio di licenziamenti, molti operai potranno anche cadere nel senso comune indotto dal "modello Fiat": aiutiamo - con i nostri sacrifici - l'azienda a migliorare i suoi conti e i suoi profitti, dopodiché qualche briciola compensativa potrà giungere anche nelle nostre buste-paga. E saranno portati a sottovalutare quali contropartite Fiat e padronato chiedono in cambio di queste briciole.

Un simile atteggiamento presenta dei rischi enormi. Anzitutto riafferma il primato dell'azienda sui bisogni operai, e, una volta riaffermato, anche le richiese salariali dovranno contenersi in ragione dei profitti. In più, in questo modo gli aumenti di salario non sarebbero tanto il corrispettivo di parte operaia di ciò che è stato realizzato come utili di impresa, bensì il pagamento (parziale) di una nuova tornata di sfruttamento. Infine, e questo è il punto più delicato, i soldi (pochi e maledetti) sarebbero il contraccambio apparente di una perdita incommensurabilmente maggiore.

La flessibilità non è altro che maggiore debolezza degli operai nello scontro con l'avversario. Una debolezza che i padroni vogliono lucrare adesso (e per sempre). Inserire - ad esempio - in fabbrica una quota di forza-lavoro più debole, più ricattata, peggio pagata vuol dire abbassare il potenziale complessivo di lotta non solo perché questa (in attesa della riconferma) difficilmente si farà coinvolgere nella lotta, ma anche perché gli operai avranno dinanzi agli occhi i loro possibili futuri sostituti, quando la crisi produrrà nuovi "esuberanti".

Il modello Fiat, è, quindi, per gli operai molto pericoloso. Esso va risolutamente rifiutato. Alcuni segnali positivi li hanno già lanciati gli stessi operai Fiat (oltre ai cassintegrati che hanno rifiutato l'accordo indicendo una mobilitazione con i disoccupati) rivendicando maggiori steccati alla flessibilità aziendale. Ma questi sono insufficienti. Degli steccati non fanno un argine, possono contribuire, però, a fondarlo se tutto l'insieme dei proletariato sa farli suoi e rinforzarli, trasformando i contratti in una occasione per riavviare il dibattito sulla base del bilancio fallimentare della linea sindacale dall'EUR oggi e delle micidiali illusioni che quest'ultima ha seminato tra gli operai. La principale delle quali, l'illusione di garantire la difesa degli interessi operai attraverso il recupero di competitività dell’economia padronale, si ripresenta ancora all'imbocco di questa stagione contrattuale.

Sconfiggere questa illusione è il primo compito per gli operai più combattivi, per rivendicare che le piattaforme siano, innanzitutto, discusse in tutte le fabbriche, e che siano fondate su obiettivi unificanti, uguali per tutte le categorie, e di reale difesa operaia.

Andare ai contratti in ordine sparso è il miglior modo per perderli.

Nelle condizioni attuali gli operai possono ottenere qualcosa nelle singole aziende solo assoggettandosi ulteriormente ai programmi padronali, accettando così un loro maggiore indebolimento, anche se questo dovesse corrispondere ad un rafforzamento del ruolo del sindacato. Ben altra è la forza che essi possono mettere in campo se si muovono come un solo esercito e se hanno al loro fianco anche i disoccupati. Non basta invocare questa unità, per essa bisogna proporre le condizioni, in primis le comuni rivendicazioni e obiettivi.

A questo fine diviene centrale la rivendicazione di una riduzione della giornata lavorativa (e non solo dell'orario annuo) drastica e generale, sia come risposta all'enorme aumento della produttività (e della nocività) del lavoro, sia come reale punto di incontro tra occupati e disoccupati. I sindacati prendono in considerazione la difesa dell'occupazione con proposte di riduzioni d'orario che ridistribuiscano il lavoro tra gli occupati, rinviando a fumosi piani generali per l'occupazione la difesa di chi disoccupato lo è già. I disoccupati possono rientrare in fabbrica solo con riduzioni d'orario che vadano ben oltre le due ore settimanali, e in ogni caso possono smettere di funzionare da massa usata come ricatto dalla borghesia solo avendo un salario garantito, pari al salario medio operaio.

Riduzioni d'orario, salario garantito ai disoccupati, aumenti salariali egualitari e rapportati alla perdita del potere d'acquisto dei salari negli ultimi anni, difesa dall'intensificazione dei ritmi. Su questi obiettivi si baserà la nostra agitazione politica nella fase di discussione delle piattaforme contrattuali. Sappiamo che, pur essendo mature le condizioni perché il proletariato si attesti su una tale linea di difesa, difficilmente essa si affermerà largamente tra gli operai. E’ necessario lo stesso che di essa si comincia a discutere e che soprattutto si discuta di una ripresa della lotta non solo in fabbrica, ma della sua estensione e della sua generalizzazione, per segnare una inversione di tendenza a due anni di "stanca" ed assenza operaia dalla scena, che hanno favorito solo l'approfondimento dell'attacco borghese a tutta la classe.

E i cassintegrati dicono no

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Il coordinamento cassaintegrati Fiat ha bocciato l'accordo tra Fiat e sindacato sui rientri, in un'assemblea di oltre 500 lavoratori il 26 marzo '86. Le motivazioni sono chiare e contenute nell'accordo stesso, per quanto i sindacati tentino di minimizzarle per esaltare il valore di riaperture della "contrattazione".

L'accordo, sostiene il coordinamento, non garantisce in alcun modo i rientri, soprattutto per i 3.500 rimanenti dopo la diversa sistemazione dei primi 2.000 (al solito non si parla esplicitamente di rientro), tantomeno per gli handicappati.

Inoltre non sarebbe certo il primo accordo non rispettato dalla Fiat in nome delle condizioni di mercato. E, tanto per non smentirsi, l'accordo premette che "il piano enunciato si colloca in un'ipotesi di andamento positivo dei mercato europeo", ovvero se l'ipotesi si rivela fallace... addio piano e rientri. D’altronde la Fiat si preoccupa di precisare (e i sindacati di sottoscrivere) che "permangono incertezze circa la durata effettiva del ciclo" e che la "situazione concorrenziale anche nei prossimi anni continuerà ad essere molto tesa, in relazione alla rilevante sovracapacità produttiva (oltre il 20%) ancora presente in Europa".

Quale sicurezza dei rientri quindi?

La Fiat cerca di migliorare la propria immagine anche per facilitare il ricorso al mercato finanziario, per il nuovo ciclo di ristrutturazione, tenta una "pace" con i sindacati, ma mentre non garantisce di riassumere i 5.500 cassaintegrati, assicura nuovi ricorsi alla CIG.

Non è tutto, e i cassintegrati del coordinamento lo hanno detto: "c'è uno "scambio" tra un atto dovuto come i rientri ed il peggioramento delle condizioni di lavoro" (L'Unità, 27.3.86).

La lotta dei cassaintegrati continua e deve trovare in questo accordo maggiori motivi per uscire dalla sua "settorialità" per collegarsi a quella operaia contro lo "scambio" e a quella dei disoccupati, cui i cassaintegrati sono sempre più assimilati.

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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