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La concentrazione tra USA, Europa e Giappone, dal mito alla realtà


Nel breve giro di un anno le relazioni economiche tra USA, Europa (soprattutto Germania) e Giappone sono passate dalla apparente concertazione all'effettivo inasprimento dei contrasti. Il 22 settembre 1985 i "Cinque Grandi" concludevano, così si disse, un accordo per favorire il calo del dollaro e con esso una maggiore stabilità del sistema monetario internazionale, allo scopo ultimo di "rilanciare" l'economia mondiale. Dopo alcuni mesi, gli stessi Grandi, divenuti sette per le accresciute difficoltà a governare... le forze produttive, concludevano, così vantava il tam-tam dei mass media, un nuovo e più ampio accordo, cementato dal comune compito politico di salvaguardare il libero Occidente" contro l'incombente terrorismo". Cominciava il "nuovo corso" dell'economia mondiale (Il Sole-24 Ore, 7 maggio 1986). Con una secchezza che non sopporta veli, la realtà si è incaricata di smentire questa grande illusione. Al posto della concertazione, ciò che domina la scena è, per dirla con la colorita espressione di Neesweek (del 13 ottobre) "a barroom brawl among the Western industrial countries", una rissa da saloon tra i paesi industriali dell’Occidente. E invece del rilancio (e più d'uno parlava di inizio di un nuovo boom), ci si è avvicinati ad una nuova recessione.

Il rilancio produttivo non c'è stato, la cooperazione neanche

In effetti, nonostante il crollo del prezzo del petrolio, tutto il promesso slancio si è risolto in un momentaneo prolungamento della ripresina USA in Europa. E’ stato "un anno frustrante", che ci ha messi di fronte ad "un'economia in declino", è costretto ad ammettere The Economist (del 7 settembre).

L'economia USA è arrivata agli indici negativi e fronteggia, con un blocco pressoché totale degli investimenti, una caduta continua della capacità produttiva utilizzata. Nonostante il deprezzamento violento del dollaro, la bilancia commerciale americana continua a segnare record su record di passivo, mentre gli USA sono divenuti, a causa del deficit federale, il primo paese debitore del mondo (in termini assoluti). Lo stesso Giappone la frenata più brusca degli ultimi 10 anni e l’URSS (non più, come nel 1980, la Polonia) è costretta a dichiarare in modo aperto il proprio stato di crisi.

Il felice continente" Cina è già alle prese con i contraccolpi negativi della sua frenetica corsa a liberalizzare. Il commercio internazionale ristagna, le spinte protezioniste si rafforzano.

In campo monetario e finanziario, poi, le cose non vanno certamente meglio che nella produzione e nel commercio. Le tensioni sul mercato monetario sono esplose pubblicamente anche agli occhi del vasto pubblico con la guerra dei tassi di sconto tra USA, Germania e Giappone. Il problema del debito, dopo una pausa di un paio di anni, ritorna allarmante non solo per i paesi dell'America centrale e latina, ma su una scala anche più larga.

La divaricazione tra un'economia in declino ed una Borsa-"toro" si è accentuata fino a toccare il rapporto 1:20 tra prodotto nazionale lordo e volume della contrattazione in titoli negli USA, il paese maggiormente impantanato nella putrefazione imperialista. Del resto, in un solo anno Wall Street ha scricchiolato per sei volte, contribuendo a mettere in luce come la gran parte della recente speculazione finanziaria corra pericolosamente (per lor signori) in canali che sfuggono, almeno per ora, ad ogni controllo "centrale".

In buona sostanza: il promesso rilancio produttivo non c'è stato (tutte le previsioni - per quel che valgono -sono state riviste al ribasso, anche per il 1987), e la cooperazione monetaria neppure. Tant'è che, dopo la 411 assemblea del Fondo monetario internazionale, la possibilità di addivenire non diciamo ad un nuovo sistema monetario internazionale, ma a modesti accordi di massima sulla fluttuazione delle monete, appare più remota di un anno fa. I contrasti economici tra USA, Germania e Giappone si sono, viceversa, fatti acuti al punto tale che ci si è dovuti dare delle regole sulle forme in cui portare all'esterno le divergenze (v. Il Mondo del 13 ottobre).

Come mai? Perché i governi di Tokyo e di Bonn, in modo così aperto e nonostante i passi in avanti fatti dalla concertazione politico-militare nel campo occidentale, si sono rifiutati di accordarsi con l'amministrazione USA sui tassi di sconto e - più in generale - di assumere la cd. funzione di "locomotive" dell'economia mondiale?

Vediamo anzitutto in cosa consiste la pretesa-ricatto degli USA e da quale situazione è determinata.

Il contenuto dello scontro

Gli USA, dopo avere incamerato i vantaggi dell'enorme rastrellamento di capitali realizzato con gli alti tassi di interesse e l'alto dollaro, si trovano - nella imminenza di una nuova recessione - davanti alla necessità di scaricare sui propri alleati-concorrenti almeno una parte dei pesanti costi economico-sociali che prevedono di dover pagare per la fine della loro ripresa drogata.

Il doppio gigantesco deficit del bilancio federale e del commercio con l'estero - ha detto il governatore della Federai Reserve, Voicker è "politicamente insostenibile". Infatti, esso, da un lato fa degli USA un paese sempre più "dipendente dai capitali esteri", in quanto sempre più indebitato; e dall'altro manda in rovina settori crescenti dell'industria e dell'agricoltura americane.

"Si può... negare che sia astrattamente 'concepibile' una nuova fase del capitalismo che segua quella dell'imperialismo? No. Astrattamente si può concepirla. In pratica però ciò significa diventare un opportunista che nega i problemi acuti del presente in nome di sogni su problemi futuri non acuti. In teoria ciò significa non fondarsi sullo sviluppo che ha effettivamente luogo, ma staccarsi arbitrariamente da esso in nome di questi sogni. Non vi è dubbio che lo sviluppo segue la linea di un unico trust mondiale che assorba tutte le imprese e tutti gli stati senza eccezione, ma la segue in circostanze tali, a tali ritmi, con tali contrasti, conflitti e sconvolgimenti - e non soltanto economici, ma anche politici, nazionali, ecc. - che, immancabilmente, prima che si giunga a un unico trust mondiale, all'associazione 'ultraimperialista' dei capitali finanziari nazionali, l'imperialismo dovrà immancabilmente saltare e il capitalismo trasformarsi nel suo contrario".

(Lenin, Prefazione all’opuscolo di Bukharin "L’economia mondiale e l'imperialismo", in Opere complete, vol. 22, pp. 111-112).

Questo doppio deficit, che è lo specchio del processo di complessiva decadenza degli USA (un tempo primi esportatori del mondo sia di capitali che di merci!), non può essere sanato con una cura rapida e radicale. Per azzerare il deficit federale, o -per dire meglio - per ridurne l'incremento, bisognerebbe smantellare più a fondo la spesa sociale e tagliare di molto le spese belliche. Per conseguire il medesimo risultato con il deficit commerciale, si dovrebbe addirittura invertire la tendenza storica al declino della produttività del lavoro negli USA (di cui il numero di settembre di Le Monde Diplomatique presenta un'analisi puntuale). Inoltre, una cura rapida e radicale comporterebbe un aumento dell’imposizione fiscale (che negli USA, per quanto riguarda la imposizione sul capitale e gli alti redditi, è ai livelli più bassi degli ultimi decenni) e una politica di riduzione secca dei consumi di massa. Insomma: effetti devastanti sul piano sociale e militare. Non a caso la borghesia americana esclude categoricamente di imboccare una tale via.

Ma anche il procedere gradualmente e a piccoli passi su questa strada è, per l’imperialismo USA, tutt'altro che semplice e indolore. Prova ne é che l'amministrazione Reagan, che aveva promesso un bilancio federale 1986 con 28 miliardi di dollari di attivo, chiuderà quest'anno con un deficit pari ad almeno 230 miliardi di dollari (all'incirca la metà del PNL italiano).

Le difficoltà, che sono anzitutto produttive e sociali, sono complicate dal rebus-dollaro. Infatti, se il dollaro cala troppo e di botto, a parte ogni altro contraccolpo, si può avere una fuga di capitali dagli USA, con l'aggravamento del problema del debito e degli investimenti; laddove, se il dollaro non continuasse a calare o addirittura riprendesse a salire, per industria ed agricoltura americane sarebbe il peggio.

Presa nella morsa di queste contraddizioni, con addosso il fiato e i primi colpi delle masse oppresse dell'America centrale e latina, del Sud-Africa, del Medio-Oriente, delle Filippine, etc., la borghesia yankee è costretta ad intensificare pressioni e ricatti sui propri alleati-concorrenti. Il suo "messaggio" a Giappone e Germania è: "Per scongiurare la recessione imminente, aumentate la spesa statale e allargate i cordoni del credito, cosicché le nostre merci possano trovare uno sbocco estero alternativo a quello dei paesi iper-indebitati e la vostra pressione sul mercato USA diminuisca, assorbendo una parte maggiore delle vostre merci sul vostro mercato interno".

Dal punto di vista della borghesia giapponese e tedesca (ed europea in genere) questo significherebbe:

Ecco perché i governi di Germania e di Giappone hanno dovuto opporre una serie di no a Washington. Non si tratta, come credono i riformisti, in questo caso curiosamente consonanti con certe critiche dell'amministrazione Reagan, di politiche grettamente e intenzionalmente recessive, ma delle politiche che corrispondono ai rispettivi interessi nazionali.

Lo stesso rinserramento politico-militare dei ranghi occidentali, promosso con vigore dagli USA, funziona nel senso di irrigidire le spinte di Germania e Giappone alla "piena autonomia" nel campo della politica economica. Questi due paesi, infatti, "ostaggi" come sono degli USA sul piano militare, debbono far valere al massimo il peso della propria economia meno imputridita di quella USA, se vogliono evitare - e lo vogliono!, non trattandosi di "borghesie serve" degli USA, come un buon numero di fessi, o di ... nazionalisti, crede - di essere schiacciati dall’alleato-concorrente americano.

La posta di questo scontro è, quindi, tutt'altro che confinata al semplice campo monetario su cui il conflitto si è manifestato in forma acuta. Lo scontro è su importanti quote del mercato mondiale, nonché sul livello di competitività delle merci. E’ una contesa tra le massime potenze imperialiste dell'Occidente per stabilire i relativi rapporti di forza alla vigilia dei nuovi e più acuti tornanti della crisi e dello scontro inter-imperialistico (con i relativi riflessi sul piano sociale interno, in termini di risorse con cui ammortizzare lo scontro tra le classi). Si tratta di un conflitto che viene da lontano, che ha segnato tutto il XX secolo e ora torna ad inasprirsi non diciamo nelle forme ma di sicuro con lo stesso contenuto del passato, nonostante USA, Germania e Giappone siano guidati da governi con forte affinità ideologico-politica!

Le prospettive

Se le cose stanno così, è proprio vero che - come abbiamo ripetute volte scritto su questo giornale - la ripresa drogata dell'economia USA ha contribuito alla caotica moltiplicazione delle contraddizioni dell'economia mondiale. E ora?

L'ultima assemblea del FMI, che il governatore tedesco Poehl ha definito 1a più difficile degli ultimi anni", ha sancito a livello ufficiale che tra le grandi potenze occidentali non vi è più spazio, come un anno o 5 mesi fa, neppure per l'apparenza della concertazione. Il ministro giapponese delle finanze, Miyazawa, ci ha voluto mettere su una pietra, affermando: "Sono anni che ne parliamo, ma sono più parole che realtà concrete (c.n.). E una lunga, lunga storia, che non ha registrato grandi successi, ed è per questo che sono scettico" (v. Il Mondo del 13 ottobre).

Sul piano economico, la prospettiva certa è quella di conflitti ancora più aspri nel vertice stesso della piramide del capitale finanziario, nel contesto del rapido avvicinarsi di una nuova caduta della produzione. E’ un autentico sogno dei riformisti che "ogni pericolo di crisi potrebbe essere evitato se gli USA rispettassero di più i diritti e le esigenze degli altri" (come scrive R. Parboni su Rinascita dell'11 ottobre). E’ un sogno, perché è esattamente ciò che la borghesia USA non può fare, se vuole continuare a difendere la propria posizione di predominio almeno relativo minacciata da tutti i lati.

Non escludiamo, ovviamente, rattoppature di breve periodo, come la modesta discesa dei tassi in Giappone o Germania oppure un qualche miglioramento della bilancia commerciale USA. Ma non è con simili palliativi che il sistema capitalistico riuscirà a superare né sul breve, né tantomeno sul lungo periodo la propria crisi generale.

Viceversa, se dovesse realizzarsi, spontaneamente e con il concorso di Washington, una caduta del dollaro verso quota 1.000, le conseguenze sarebbero scardinanti. Oltre, nelle previsioni, non si può andare, tali e tanti essendo i fattori in causa, compresi quelli soggettivi.

Sul piano politico, la prospettiva certa è quella di un'intensificazione dell'appello nazionalistico che le borghesie imperialiste rivolgeranno alle rispettive società, e dunque al rispettivo proletariato. Se nei primi anni della crisi che sono stati, per dir così, all'acqua di rose, la propaganda borghese ha battuto prevalentemente sulla competitività aziendale e sulla concorrenza economica, ora che andiamo ai tornanti più acuti della crisi e dei contrasti interimperialistici, l'accento si sposterà a livelli più alti, sulla difesa - con tutti i mezzi - del "benessere" e del "ruolo" nazionale. Non per nulla in Giappone si rivalutano le occupazioni coloniali del passato, in Italia dalla propaganda del "Made in Italy" si è passati a quella del "ruolo di pace" nel Mediterraneo e in Medio-Oriente, in Germania (compresa quella dell'Est) si celebra in pompa magna la "grande tradizione tedesca", e così via, con i riformisti impegnati con tutte le proprie forze, a supporto, a diffondere veleno nazionalista nelle fila operaie.

Le risorse materiali di cui dispongono le borghesie imperialiste non sono affatto illimitate, essendo il corso economico in discesa e con pericoli crescenti. Non c'è da illudersi, però, su effetti meccanici di sorta. Dobbiamo intensificare la nostra propaganda internazionalista, dicendo a chiare lettere alla classe operaia e al proletariato che il loro interesse non sta nel fronte borghese; che i sacrifici di oggi preparano non benessere, ma sacrifici ancora più grandi domani; che la borghesia si sta preparando a mandarli al massacro per i propri interessi; che bisogna spezzare questa spirale di rinunce, rifiutare di unirci con chi ci sfrutta, per formare, con il proletariato degli altri paesi e i popoli oppressi dall'imperialismo, un solo esercito internazionale di classe contro il sistema capitalistico.

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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