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La questione palestinese è giunta al suo svolto cruciale

La causa nazionale del popolo palestinese
non è risolvibile né contenibile
entro i confini di uno "stato palestinese"

Quante batterie puntate contro la popolazione palestinese! Cristiani e musulmani di varia confessione, stati reazionari e stati "progressisti" , in lotta tra loro si trovano coalizzati nel tentativo di subordinare ai propri interessi e, all'occorrenza, togliere di mezzo senza troppi complimenti l'ingombrante presenza di questo popolo senza terra, da decenni in armi. Se le mani di Israele grondano sangue palestinese, nulla hanno da invidiare ad esso quelle dei "fratelli arabi" di Giordania e Siria. Il palestinese è esule sulla terra che storicamente gli appartiene; è parimenti esule nelle "ospitali" terre dei paesi "fratelli". La causa del suo riscatto nazionale non è risolvibile, né contenibile entro i confini di uno "stato palestinese" a venire, scomodo ed ingombrante per tutti gli schieramenti statali presenti in zona. Essa può vincere solo unificando attorno a sé la causa di tutti gli oppressi del Medio oriente in un processo di rivoluzione sociale ininterrotta tale da ridisegnare l'intero assetto (sociale e statale) dell'area in direzione del socialismo.

La questione palestinese sta arrivando decisamente al punto in cui o si imporrà il superamento della linea strettamente nazional-borghese rappresentata dall'OLP od andrà sempre più a conchiudersi in un permanente bagno di sangue tale da incancrenire l'intiera situazione medio-orientale a servizio non tanto dei protagonisti statuali della zona (pallidi comprimari della tragedia in atto) quanto dei giochi sanguinosi che sul Medio-Oriente intessono le grandi potenze imperialistiche.

L'OLP, in quanto rappresentante del compromesso unitario tra i vari interessi delle forze sociali e politiche agitantisi in seno al popolo palestinese, ha già dato tutto quel che poteva dare in senso rivoluzionario. Anche per essa è arrivato il redde rationem. Lo diciamo senza chiudere gli occhi su quel che l'OLP ha potuto rappresentare in passato, nel corso della sua lunga storia. Al contrario.

Corriamo volentieri il rischio di scandalizzare ulteriormente i nostri critici "da sinistra" affermando che l'OLP ha avuto l'indiscutibile merito storico di incarnare le aspirazioni, la coscienza, la capacità di mobilitazione del popolo palestinese sottraendo questo popolo ai destino dell'anonimato, di un popolo non solo senza terra, ma senza storia propria possibile. Entro limiti borghesi? Sì. Con un compromesso sociale, di conseguenza, destinato al fallimento? Sì. Ma anche con un livello di determinazione e presenza attiva reali. Nell'unico modo con cui era possibile immaginare che la bandiera della sacrosanta lotta palestinese non fosse ammainata, in un periodo storico in cui l'eco dell'unità internazionalista della rivoluzione proletaria appariva spenta nel mondo e per primi i falsi "marxisti" dei paesi arabi di educazione staliniana avevano disertato il campo di lotta, lasciandolo esposto alla presa di forze reazionarie o permeabile, per l'appunto, allo sforzo di riscossa, "inconcludente" sin che si vuole, ma vitale, di correnti quali l'OLP.

L'OLP nacque come frutto artificiale coltivato dalle neo-borghesie arabe per servirsene nei loro giochi statali, e l'una contro l’altra se del caso, indirizzandola contro quel "comune" nemico Israele. Frutto artificiale, ma su un terreno fertile, che non avrebbe mancato di dare i suoi frutti autoctoni. Da "protettorato" egiziano affidato nelle mani del fantoccio Shukeiri, l'OLP doveva ben presto assumere il ruolo di rappresentante autentico del popolo palestinese per sé e tale trasformazione non era il frutto di un "colpo di mano" politico, bensì il risultato della concreta pressione della lotta di popolo annunciata già nel'57 con la creazione di Al Fatah e dispiegatasi appieno dal '65 con l'inizio di una vera e propria guerra guerreggiata contro l'usurpatore israeliano.

Da sempre, e tuttora, il "mondo arabo" affetta la sua piena e solidale unità attorno alla causa palestinese. Ora, è ben vero che il sentimento dell'unità araba e della cancellazione da parte di essa dell'offesa israeliana è sentito dalle masse popolari, ma la stessa costituzione dello Stato d'Israele è tale, per la sua natura, da scomporre quest'unità ed obbligare il movimento rivoluzionario a porsi su un gradino più alto di quel che possa essere la causa del riscatto "anticoloniale". Lo stato d’Israele non è un semplice stato "conquistatore" e men che mai uno stato "colonizzatore" vecchio tipo. Ben prima della sua costituzione, esso si è preparato il terreno attraverso la sistematica dissoluzione nell'area in oggetto dei primitivi rapporti precapitalistici, con l'instaurazione di moderni rapporti di dominazione capitalistica (e non a caso può vantare, a pretesa dei suoi "diritti di proprietà" di aver "comprato più che strappato con le armi, le terre su cui si è originariamente insediato). Con Israele è il moderno capitalismo che entra nella zona e concorre a trasformarne l'intera fisionomia, agendo non solo entro i propri confini statali, ma anche all'interno dei nemici stati arabi. Con l'ingresso di Israele nel Medio-Oriente è definitivamente rotta la stagnazione precedente nei rapporti economici, sociali e politici. Con Israele il "mondo arabo" diventa parte dell'unitario mondo del capitale, con tutto quel che ne consegue: divisione in classi sociali e, in prospettiva, partiti politici contrapposti.

Nel corso di una prima, e lunghissima, fase l'aspetto nazionale "arabo" ha potuto far aggio su questa nuova realtà in incubazione perché il "mondo arabo" nel suo complesso non era ancora del tutto uscito dalla precedente morsa colonizzatrice e la causa del suo riscatto obiettivamente poteva confondere, in assenza di decisivi apporti da parte del proletariato metropolitano, in un unico fronte nazional-razziale "tutte le classi", "tutto il popolo". Un "antimperialismo" di tal fatta raggiunse la sua massima espressione nel movimento di riscossa scatenato nel '56 da Nasser (e le cui ultime propaggini si dovevano avvertire ben più lontano nel tempo, ad esempio nella "rivoluzione dall'alto" del'69 in Libia). Ma sono proprio le conseguenze di questo movimento che hanno dialetticamente portato alla dissoluzione finale i presupposti di "unità del mondo arabo": la conquista della propria e piena indipendenza politica ed il conseguente avvio di una "modernizzazione" capitalista entro i singoli stati arabi nel frattempo definitisi rappresentano il passaggio della consegna dell’ "unità del mondo arabo" da reale e storica insegna di lotta liberatrice a squallida bandiera reazionaria per nascondere e comprimere la verità di un insieme di società agitate da interni conflitti di classe e da sempre rifiorenti rivalità inter-statali.

Se ancora alle casse dell'OLP affluisce danaro da parte di tutti gli stati arabi ciò si deve sempre più alla necessità da parte di questi stati di rispettare i sentimenti di fratellanza tra gli oppressi d'uno stesso sangue che restano ben vivi nei cuori della massa, ma si tratta di un pedaggio che si paga malvolentieri e sempre indirizzandolo selettivamente per "affittare" delle frazioni del movimento palestinese ai fini dei propri interessi particolari, di classi sociali e stati. Che relazione può esserci infatti, tra l'appoggio alla causa palestinese da parte di paesi come l'Egitto e l'Arabia Saudita (tanto diversi tra loro per strutture economico-sociali), ma entrambi legati a filo doppio alle centrali imperialiste d'Occidente) e come la Siria e la Libia "rivoluzionarie" ed "antimperialiste" (ma la prima ben decisa ad imporre un proprio ruolo bismarckiano sulla regione, utilizzando i palestinesi come carne da cannone e passando sopra i loro corpi all'occorrenza)?

E non è un problema che riguardi solo i rapporti tra palestinesi e stati arabi, ma lo stesso popolo palestinese al suo interno. Parlare dell'individuo palestinese è un'astrazione e una beffa. Esiste bensì il palestinese piccolo, medio ed anche grande borghese (quello, per intenderci, che controlla il trust economico del Samed cui fanno capo varie fabbriche ed aziende sparse in diversi paesi arabi ed africani e le finanze concentrate nell'Arab Bank, che conta più di 20 filiali in differenti paesi del mondo) così come esistono il contadino ed il proletario palestinese, cronici "senza riserve". Gli uni e gli altri sono "senza patria", ma i primi non se ne sentono intralciati più di tanto, visto che la loro vera patria, il capitale, è per sua natura circolante oltre ogni confine, mentre i secondi incontrano invariabilmente sul loro cammino rapporti di dominazione capitalistica con cui sono costretti a scontrarsi e che potenzialmente li accomunano alla sorte di tutti gli sfruttati con cui si trovano a condividere tale sorte, dal Libano alla Giordania, dalla Siria ad Israele. Gli uni costituiscono una classe dominante sovranazionale, gli altri una massa doppiamente sfruttata in quanto salariati e senza patria. Ciò non esclude l'attualità della questione nazionale palestinese, come vorrebbero gli "estremisti" da strapazzo, ma la colloca nel quadro bruciante di una lotta rivoluzionaria in cui "due compiti si confondono in uno", per dirla con le sempre attuali parole dell'internazionale Comunista di Lenin: compiti di riscatto nazionale e riscatto sociale che, per la stessa presenza palestinese in tutta l'area mediorientale, non può che proiettarsi su questa stessa intera area.

Le travagliate vicende recenti dell'OLP stanno a dimostrare che questa divisione di campi e quest'alternativa non sono più rimandabili, proprio per preservare i destini di un popolo altrimenti esposto a mille altre Sabra e Chatila senza costrutto alcuno. La forza di Arafat consiste tuttora nell'accanimento con cui il popolo palestinese delle trincee è sottoposto al fuoco di fila incrociato delle armi nemiche e nella sicura intuizione da parte delle masse che anche molti "scavalcamenti a sinistra" della linea Arafat si confezionano non ad assicurare maggior "fermezza" nella lotta, ma a porla al servizio ausiliario di manovre statali estranee agli interessi palestinesi, come nel caso della Siria. è un elemento di forza, però, fondato sulle sabbie mobili, che vale più a ritardare la resa dei conti che a scongiurarla realmente.

La via della vittoria rivoluzionaria delle masse sfruttate palestinesi passa altrove, per l'unificazione delle lotte sociali degli sfruttati in tutta la regione. E’ questa l'arma possente capace di superare i conciliazionismi riformisti di settori palestinesi già solidamente stanziatisi in Giordania e Cisgiordania e comprensibilmente più propensi alla contrattazione di un proprio spazio di "normale" esistenza con la corte haschemita e i sinedri israeliani; la sola arma in grado di sottrarsi al fagocitamento diplomatico-militare siriano; la sola, ancora, cui è dato di divellere gli steccati divisori tra sfruttati che tuttora, come sta accadendo nel pantano libanese, oppongono poveri diavoli ad altri poveri diavoli (ciò su cui specula la reazione sciita di Amai, ad esempio, per promuovere la sua guerra fratricida). E a questo solo patto che i combattenti palestinesi potranno apparire, ovunque siano, non come "intrusi" di cui sbarazzarsi o al massimo da tollerare come corpo estraneo, ma quali fratelli di un'unitaria lotta sociale. Nulla è più instabile dei confini statali del Medio Oriente e nulla è più certo di una loro traumatica ridefinizione. Le differenti storie di razza, lingua, religione e cultura certamente non si possono cancellare in nome di un vano "cosmopolitismo"; esse, però, sono al tempo stesso talmente intrecciate nell'area da non potersi risolvere nessuna per sé entro proprio, esclusivi Bantustan "nazionali". Nel Medio Oriente è all'ordine del giorno, come primo concreto esito rivoluzionario, una federazione di popoli liberi sgravati dalle attuali dittature borghesi e dall'ipotetica che su di esse costantemente pone l'imperialismo, da ogni forma di residui feudali coesistenti con queste dittature, da qualsiasi tentazione confessionale di stato... Una federazione di popoli capaci di "autodecidersi" attraverso i loro soviet di operai, contadini e lavoratori poveri.

Non è "utopia"; è il richiamo incessante che le condizioni stesse degli scontri in atto lancia di continuo da queste piaghe insanguinate. Noi non crediamo che sarà musica di domani mattina, ma se, accanto alle lezioni che si devono trarre sulle trincee fisiche dello scontro, il popolo palestinese, così come gli altri popoli di sfruttati dell'area, potrà ricevere da noi proletari delle metropoli dei concreti segnali di solidale impegno militante le condizioni perché emerga, innanzitutto, un'avanguardia comunista dentro la lotta nazionale per imprimere ad essa contenuti e metodi di "guerra di classe" si faranno immensamente più propizie.

Abbiamo nel massimo disprezzo coloro che, da presunti "puristi ", si divertono a collezionare le "arretratezze" del movimento palestinese senza averne mai inteso le richieste di aiuto rivolte al proletariato metropolitano e senza nullamente intendere che là si gioca anche la nostra partita e che le "arretratezze" della periferia sono il frutto, in primo luogo, della nostra arretratezza metropolitana.


ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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