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Reagan, reaganismo, movimento operaio

Dove vanno gli Stati Uniti?

Indice

Ronald Reagan, l'eroe della borghesia occidentale degli anni '80, è nella polvere. Il mito della "presidenza più amata della storia degli USA" è in frantumi. Come mai un crollo così repentino e di tale portata?

L'America è sana, non sopporta la violazione delle regole del gioco democratico - risponde A. Schlesinger (su La Repubblica del 24 dicembre), in un goffo tentativo di spiegazione apologetica. La crisi di Reagan sarebbe, perciò, la rivincita della democrazia. Macché! Nessuna vicenda quanto quella dell' "Iran-contras-connection" ha mostrato, anche al più orbo degli spettatori, quanto sia marcio, dal vertice alle sue ultime propaggini, l'apparato di potere, di spionaggio e di guerra della democrazia americana.

Le formali regole di corretta amministrazione c'entrano ben poco. Il terremoto che ha disastrato l'amministrazione Reagan può essere compreso solo in riferimento ad un quadro segnato da un lato dall'indurimento dello scontro inter-borghese per la rispartizione del mondo, dall'altro dalla acutizzazione della lotta delle masse oppresse e della resistenza del movimento proletario. Esso è il prodotto di fattori, squilibri, contraddizioni, antagonismi interni ed internazionali, le cui spinte si sono combinate, in un dato momento, in modo tale da esplodere sotto la Casa Bianca. E non è un caso se tale momento è conciso con il tramonto della "miracolosa" ripresa economica degli ultimi anni.

La risposta aggressiva ad un lungo declino

La sostanza americana del reaganismo (ve n'è anche una universale) è tutta nel grido di riscossa contenuto nel primo discorso di investitura di Reagan: "America in piedi". Il reaganismo è stato ed è - al di là della sorte dell'individuo Reagan - la reazione della borghesia nordamericana al proprio declino politico ed economico. Ha rappresentato e rappresenta il tentativo di riconsolidare l'impero-USA all'interno e all'esterno: tra gli amici-concorrenti occidentali e di fronte all’"avversario" russo, sopra e contro il proletariato ed i popoli oppressi del mondo.

La decadenza della struttura economica USA viene da lontano e precede di parecchio l'entrata in crisi del primato politico americano, che possiamo ricollegare alla guerra del Vietnam. Infatti, se fino alla prima guerra mondiale gli Stati Uniti hanno registrato il saggio di crescita più elevato nel mondo, è a partire da essa che il loro ritmo di sviluppo, rapportato a quello degli altri paesi concorrenti, non è più molto brillante.

Superata la catastrofe del '29 solo in virtù del particolare ruolo avuto nella seconda guerra mondiale, l'economia USA vede accentuarsi il suo relativo declino proprio a partire dal momento in cui (diciamo, come simbolo, il 1945) gli USA, al loro apogeo politico-militare, hanno conquistato sul mercato mondiale una posizione di semi-monopolio nei settori più importanti della produzione industriale ed agricola.

Per un arco di un quindicennio almeno, questo processo discendente è frenato dagli immensi profitti e vantaggi che l'imperialismo USA riesce a lucrare dalle aree "neo-coloniali" di cui si è impadronito approfittando dello sfacelo degli imperi coloniali europei. Ma, nonostante la travolgente espansione delle proprie multinazionali, gli USA perdono, negli anni sessanta e settanta, un 40% della loro quota del mercato mondiale e nei primi anni '80 almeno un 15 % di quello interno.

Il "productivity gap" opera inesorabilmente a sfavore degli USA, dove tasso di incremento della produttività, risparmi ed investimenti sono a livelli più bassi che nel resto dell'Occidente. La "Reaganomics" incita alla riscossa questa struttura economica invecchiata ed appesantita, e non più sorretta dalla potenza politica di un tempo. "Capitale, in piedi! Solo liberando da ogni vincolo il mercato ed il profitto, potremo uscire dalla palude" (e siamo ad un aspetto insieme americano ed universale del reaganismo).

Detassazione del capitale, forte impulso alla tecnologia d'avanguardia attraverso il balzo all'insù della spesa bellica, deregulation selvaggia per i movimenti del signor Denaro, tagli alla spesa sociale dello stato: dati gli ingredienti ed i momentanei risultati - la perentoria ripresa del 1984 e dei primi mesi dell'85 - la ricetta non poteva che essere di grande successo, in USA e altrove.

Evviva il cuoco, dunque! Ma... via via che gli indici positivi calavano e le conseguenze squilibranti ed i costi per i concorrenti euro-giapponesi venivano in luce, il consenso generale è andato scemando. I fenomeni di resistenza e di ostilità nello stesso campo borghese si sono moltiplicati. Germania e Giappone si sono fatti riottosi sulla riduzione del tasso di sconto; Wall Street ha punito quell' A. Boesky, che era il campione dei predatori fioriti all'ombra della speculazione di borsa alimentata dal reaganismo; il sistema bancario ed i settori produttivi in rovina hanno lanciato sempre più frequenti segnali di allarme. Per parte loro, i vertici del sindacato AFL-CIO si sono rinserrati intorno al partito democratico. La tempesta di oggi non è arrivata a ciel sereno. Essa esprime, e a sua volta alimenta, contrasti interborghesi ed inter-imperialisti quanto mai duri.

Perché una crisi sul terreno della politica estera

Sotto questo profilo, il caso Iran-contras è stato una semplice goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non è fortuito, però, che il naufragio dell'amministrazione Reagan sia avvenuto sul terreno della politica estera. Infatti, parte integrante del reaganismo è stata la necessità ed il proposito di voltare pagina, definitivamente, rispetto alle sconfitte ed ai "cedimenti" degli anni '70.

Il reaganismo ha fatto del "riarmo morale e materiale degli USA" (e del campo imperialista di Occidente) la propria bandiera. Una bandiera agitata - con lo stemma dell'SDI al centro - davanti all’ "avversario socialista" di Mosca, opportunamente ridefinito come "Impero del male", e soprattutto contro il movimento proletario e le masse oppresse dalla dominazione imperialista la cui sacrosanta lotta è, per il criminale Reagan, l'equivalente del terrorismo.

Gli USA sono forti e faranno uso della propria forza per difendere ovunque i propri interessi: questo il messaggio rambo-reaganiano, cui l'amministrazione di Washington ha dato corpo con il bombardamento di Beirut, il massiccio aiuto ai contras di Nicaragua, l'occupazione militare di Grenada, il bombardamento della Libia, mentre sul piano propagandistico mandava avanti la campagna di rivalutazione della guerra del Vietnam. Atti e politiche di tale significato da trascinare, una volta tanto, perfino gli anemici redattori di Rinascita ad una prosa sanguigna: "Siamo alla politica delle cannoniere, alla diplomazia dei marines e dei rangers, all'uso brutale della forza, all'affermazione del diritto americano ad esportare la controrivoluzione ovunque lo si ritenga possibile" (così A. Coppola su Rinascita del 4 novembre 1983, all'indomani dell'invasione di Grenada).

Senonché, mentre svariati aspetti della sua politica economica (non certo quelli antioperai!) hanno trovato crescente resistenza nelle borghesie europee, la politica internazionale del governo Reagan, la politica del riarmo scatenato e del terrorismo di stato più aperto, ha conquistato giorno dopo giorno nuovi entusiasti proseliti ovunque, esercitando una profonda influenza anche nel campo riformista e socialdemocratico. Basta paragonare le reazioni seguite all'invasione di Grenada con quelle successive al banditesco bombardamento su Tripoli e Bengasi, per rendersi conto della universale fortuna della "dottrina Reagan" in quanto teoria e pratica dell'uso incondizionato della forza - da parte degli stati imperialisti - nel regolare i rapporti con i paesi minori, le masse oppresse ed i movimenti antimperialisti.

Una fortuna universale che l'aumentata pressione insurrezionale delle masse lavoratrici doppiamente sfruttate del mondo, ha affrettato. Abbattuti i regimi di Somoza e dello Scià, il movimento rivoluzionario di queste masse si è esteso, nonostante la pesante sconfitta subita dal popolo palestinese, a tutti gli angoli della terra: da Haiti alle Filippine, dal Sudan al Sud-Africa, dal Pakistan alla Corea. Tutta la borghesia occidentale, e non solo quella..., ne sente il fiato addosso, e si fa ogni giorno più... reaganiana.

Ciò posto, come sorprendersi della universale sollevazione anti-reaganiana determinatasi quando il massimo rappresentante odierno del militarismo imperialista è stato scoperto a barattare con il regime iraniano, ufficialmente bollato come "terrorista"? Reagan, che già era stato duramente criticato "da destra" per il suo comportamento di Reykjavik, giudicato non adeguatamente aggressivo, si chiamava addosso la bufera. Importo poco o nulla se e come ne uscirà in quanto persona o in quanto governo: conta, invece, che la contestazione alla pratica di Reagan e dei suoi soci avviene in nome della "dottrina Reagan" negli USA e in Europa.

Sullo sfondo, una società sempre più polarizzata

E il proletariato USA? Esso sembra completamente assente da una vicenda che, viceversa, lo riguarda sotto tutti gli aspetti. Ma non è così. I processi sociali pesano e hanno conseguenze anche prima di diventare evidenti e coscienti. Ora, per quanto al momento sia sullo sfondo, la contraddizione proletariato-borghesia negli USA ha agito nel senso di indebolire, nel corso degli anni, l'amministrazione Reagan nei confronti di una società materialmente sempre più divisa e che essa ha contribuito a dividere. Il risultato delle elezioni di medio termine è solo un riflesso pallidissimo e lontano di uno spostamento di forze sociali che sta avvenendo con altre proporzioni in profondità.

"Siamo tutti ceto medio o quasi, o così ci fa piacere credere - ha scritto Barbara Ehrenreich sul New York Time Magazine del 7 novembre. Ma ci sono segni che l'America sta diventando una società più divisa: nell'ultimo decennio i ricchi si sono arricchiti, i poveri sono diventati più numerosi, e chi sta in mezzo non se la passa più bene come in passato. Il presidente Reagan ci assicura che l’America sta tornando ad essere se stessa dopo il malessere economico dei primi anni '80. Ma può darsi che torni in forma più aspra ed aliena". E sentite le parole di Lane Kirkland, il capo dell'AFL-CIO, un tipo che, quanto a sinistrismo, non vale il nostro Benvenduto ... : "Per la prima volta c'è una generazione di giovani americani che non si aspetta di stare altrettanto bene dei propri genitori. Si riducono le opportunità loro offerte e si riduce la loro speranza... Quando abbiamo fatto l'unificazione (nel 1955), il 52% delle famiglie americane si poteva permettere una casa di proprietà, a prezzo ragionevole, oggi lo può fare solo il 30%... allora una maggioranza delle famiglie americane aveva un solo stipendio; oggi due terzi delle famiglie di questo paese hanno più di uno stipendio - eppure non si possono permettere quella modesta casa che trent'anni fa era la loro...; allora c'era una disoccupazione al 4,4% e strillavamo che era insopportabile; oggi, allo zenit del boom di Reagan, siamo al 7,1% - che però, senza trucchi, si traduce in un tasso di disoccupazione reale del 12,6%... " (v. Conquiste del lavoro, 18 novembre 1985).

Siamo ben oltre la cosiddetta "area di povertà", che pure è cresciuta con Reagan fino al ragguardevole livello del 18% della popolazione, qualcosa come 36 milioni di persone (v. grafico), di cui almeno 20 patiscono la fame. Un'area collocata, comunque, pressoché integralmente nel campo del lavoro salariato. Siamo nel centro della un tempo "iper-garantita" classe operaia del paese più ricco del mondo, che ha visto decurtati i propri salari reali, dal 1973 al 1985, di almeno il 14% (v. La Stampa, 22 luglio 1986); di quella classe operaia che ha subito, tra il 1981 e il 1985, due milioni e mezzo di licenziamenti,- per lo più rimpiazzati da posti di lavoro precari e sottopagati. Non meraviglia, perciò, leggere che "Nessun operaio residente in un quartiere periferico (sono quelli a reddito più alto - n.n.) si sente oggi al sicuro" (Monthly Review, gennaio-aprile 1986).

Sul fronte interno il reaganismo ha guidato il più globale attacco antiproletario degli ultimi decenni: taglio dei salari e della spesa per servizi sociali e assistenza, via libera alle politiche antisindacali, sistematico ricorso alle misure "legali" anti-sciopero, aumento dei senzatetto, allargamento del lavoro nero.

Nessun periodo come quello reaganiano ha contribuito tanto ad affossare lo storico mito americano della "eguaglianza delle opportunità" ed a far scomparire finalmente dalla scena il fantasma dell’ "americano medio" e della società statunitense come società compatta di classi medie. Il crollo, per ora pressoché esclusivamente oggettivo, di questi miti significa molto per la stabilità di un ordine capitalistico internazionale che ha pur sempre negli USA il proprio "centro dinamico ". Non si tratta, infatti, dei soli proletari neri o chicanos (o delle altre minoranze di recente immigrazione), la cui condizione è, peraltro, sempre più disperata. Si tratta della massa proletaria bianca.

Ecco un'altra ragione di crescente difficoltà del governo Reagan, che ha contribuito a minarne la forza, al di là della consistenza immediata ancora minima dei primi segnali di ripresa delle lotte proletarie e del movimento antimperialista negli USA (di cui parliamo qui a fianco).

Dopo Reagan, cosa?

Fine del reaganismo, dunque? No, neanche per idea! La crisi dell'amministrazione Reagan è l'effetto e a sua volta la causa di difficoltà e contrasti dello schieramento borghese, dentro e fuori degli USA. Ma già i borghesi di tutto il mondo sono all'opera per una certa gestione di questa crisi politica, che consenta loro di rafforzarsi, senza che si manifesti l'antagonismo proletario. Nessuna illusione, quindi. Quali che possano essere i momentanei aggiustamenti congiunturali, non siamo alla crisi del "modello reaganiano", né sul piano economico-sociale (attacco alla massa del proletariato), né su quello internazionale (attacco ai popoli oppressi ed ai paesi dominati o controllati dall'imperialismo), né su quello strategico (riarmo generalizzato, in vista di una nuova spartizione del mondo per mezzo di una nuova guerra imperialista).

Verifichiamolo attraverso le dichiarazioni di intenti di due tra i massimi esponenti di quel partito democratico, nel quale il PCI ripone le proprie attese di un cambiamento in direzione di un maggior senso di "responsabilità" e di "equità". Gary Hart: "Qualsiasi cosa succeda nei prossimi due anni, che ci piaccia o no, vi saranno aspetti del reaganismo che non dovremo mai (c.n.) ripudiare. L'efficienza economica ad esempio, la lealtà al paese, la consapevolezza della nostra forza, e via di seguito" (Il Sabato, 20 dicembre 1986). Non è poco, è tutto l'essenziale del reaganismo... Da parte sua Walter Mondale, dopo aver approvato in pieno il bombardamento della Libia ("Non ho dubbi in proposito. E’ stato necessario"), formula la seguente critica a Reagan: "In questa trattativa con Khomeini stiamo rischiando il prestigio dell'America in Medio Oriente. L'impressione che il presidente Reagan sta offrendo è di debolezza. Il nostro paese sembra essere in balia (c. n.) dei ricatti del regime di Teheran" (La Repubblica, 14 novembre 1986). Come prima, più di prima, dunque.

Né le critiche dei reaganiani italici sono andate in direzione opposta: si pensi alle prese di posizione del PRI e di larghissima parte della stampa. E tutta la critica del Popolo si riduce, in fin dei conti, alla critica contraddittoria di "eccesso di schematismo" e di "comportamento incoerente" ' non sognandosi neppure di sollevare una pur minima obiezione alla sostanza del reaganismo. E come potrebbe, d'altra parte?

Gettata via un po' (il minimo) d'acqua sporca e il più in fretta che si può, con o senza il fantoccio Ron, il nocciolo del reaganismo resterà negli USA, in Europa e in Italia in quanto espressione di necessità obiettive della borghesia imperialista occidentale. E resterà, in prospettiva, addirittura potenziato, perché, al di là e al di qua dell’Atlantico, una borghesia ancora dotata di cospicue riserve, ma minacciata ormai in tutti i luoghi e da tutti i lati, non può non ricorrere a forme sempre più estreme di reazione politica, pur di difendere un dominio messo in questione e - se possibile -ampliarlo. In questo senso il reaganismo non è una malattia americana, ma un cancro dell'intero capitalismo occidentale, che noi dobbiamo contribuire ad estirpare in primo luogo qui, nella lotta contro la nostra borghesia.

Quanto agli USA, essi sono avviati verso grandi convulsioni sociali e politiche, che non rimarranno confinate, come negli anni '60, al movimento giovanile ed alle masse nere, ma coinvolgeranno a pieno la massa della classe operaia. Come e più che negli anni '10 e '20 di questo secolo, gli USA saranno un grande campo di battaglia tra lo schieramento borghese-imperialista e quello proletario. "Non avete visto ancora nulla"...


ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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