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Urss. La "grande riforma" di Gorbacev

Ma la crisi capitalistica non è riformabile…

E’ bastato pochissimo tempo perché le nostre analisi e prospettive sull'URSS di Gorbacev (vedi il Dossier URSS nel n. 5 di questo giornale) trovassero piena conferma in tutta una serie di avvenimenti "concreti". L'avvento della direzione Gorbacev non ha mai rappresentato per noi marxisti una novità imponderabile. Esso era segnato nei destini dello sviluppo capitalista dell'intiera struttura economico-sociale sovietica e, semmai, la "novità" sta nel fatto che essa si sia verificata con eccessivo ritardo, in forza di specifiche strozzature legate all'insieme del corso storico dell'URSS nel contesto del capitalismo internazionale. Questo ritardo impone oggi accelerazioni e frenate insieme, suscita contemporaneamente entusiasmi e mobilitazioni di massa e resistenze, tanto che se diciamo che Gorbacev è favorito nella sua azione dalle leggi oggettive ed impersonali, quindi, del capitale, non affermiamo per tanto che la sua personale vittoria su tutta la linea sia automaticamente coperta da un'assicurazione-scudo a tutta prova.

Già una decina d'anni fa il "nuovo corso" gorbacioviano era pronosticabile con certezza, perché già agente nei suoi presupposti primi all’interno della società sovietica. Esauritesi già allora le riserve di una struttura agraria arretrata cui rivolgersi per lo sviluppo dell'industrializzazione (con la formazione della corrispondente manodopera operaia "fresca" a ciò necessaria), si poteva ben vedere come "il capitalismo russo deve ( ... ) cercare le "riserve latenti di produttività" che esistono nella sua industria: in altre parole, passare da una accumulazione estensiva della base del plusvalore assoluto ad un'accumulazione intensiva, perseguire prima di tutto gli aumenti di produttività sulla base delle unità produttive già in atto, sostituire l'operaio con la macchina e, più in generale, "ristrutturare" i processi di produzione accrescendo la produttività e l'intensità del lavoro; insomma, deve cercare di produrre plusvalore relativo. Di qui le misure di concentrazione e ristrutturazione industriale che abbiamo citato, gli "esperimenti" di riorganizzazione basati sul licenziamento di manodopera, e gli incessanti richiami dei dirigenti russi e dei sindacati alla produttività, alla disciplina del lavoro, ecc.".(1)

Avvio difficile, come sempre quando si tratta di cambiar rotta non limitandosi ad adottare nuove "tecniche", ma dovendo sconvolgere precedenti equilibri di potere, cioè, in ultima istanza, di classe. E doppiamente difficile dato il frazionamento produttivo sovietico e la conseguente fragilità dei processi di concentrazione e centralizzazione economici (al di là del vuoto formalismo giuridico del "superpotere" statale, da molti sciocchi scambiato come vertice supremo di capitalismo di stato, cioè della parola ultima del capitalismo). Lo diceva d'altronde chiaramente sin dal '75 una nostra vecchia conoscenza, l'accademico Aganbegian: "Dare maggiore autonomia alle imprese ha senso solo se esistono imprese degne di questo nome. Le imprese sovietiche sono piccole e fragili ( ... ), sono piuttosto delle officine che impiegano di media 600 lavoratori. Bisognerebbe concentrarle: passare dalle 49.000 oggi esistenti a circa 5.000" (2), secondo lo standard, cioè, di concentrazione raggiunto negli altri paesi capitalisticamente avanzati, (negli USA il cui tasso di concentrazione stava per l'appunto in rapporto di 10:1 circa rispetto a quello sovietico). Dal '75 questo processo di concentrazione è andato comunque avanti, anche durante il "periodo grigio" dell’ "immobilismo" brezneviano (preoccupato soprattutto di non turbare i difficili equilibri precedenti), e se, nel frattempo, si sono accumulati ulteriori ritardi relativi rispetto alla concorrenza degli altri grandi paesi capitalistici, questa è diventata una ragione in più per rompere con decisione le incrostazioni del passato. Via dunque con l'autonomia delle imprese e l'autonomia dell'iniziativa privata individuale: entrambi gli aspetti stanno non insieme; non si tratta di un "ritorno all'indietro" ad un "ripristino" di categorie mercantili "superate", ma di un unico concorrere, dall'alto di aziende "competitive" e dal basso di una proliferazione di piccole iniziative individuali, alla fase decisiva della concentrazione e centralizzazione capitalista. Il pieno "capitalismo di stato" comincia proprio da qui. Quanto ieri il "centralismo assoluto" rappresentava una necessaria, ma fragile sovrastruttura per favorire lo sviluppo capitalista su basi estensive, altrettanto oggi il "decentramento relativo , funziona da leva per un'effettiva concentrazione e centralizzazione nel senso di una riproduzione capitalista su basi intensive.

Autonomia aziendale, glasnost’, democrazia politica… e lotta di classe

Se la società sovietica è stata sempre divisa in classi, oggi tale divisione è destinata ad approfondirsi in corrispondenza alle "riforme" gorbacioviane. Crescendo in intensità, il capitalismo russo porta ad una maggior stratificazione e fissazione delle classi. I diversi ruoli sociali si moltiplicano e si definiscono meglio nella loro "atomizzazione". E inevitabile, perciò, che al fittizio "Stato di tutto il popolo" si vada sostituendo, a tutti i livelli, uno Stato come palese "comitato d'affari" della fiorente borghesia sovietica in grado di gestire una pluralità di interessi ed istanze economico-sociali e quindi politiche. La glasnost' (trasparenza) vantata dai gorbacioviani costituisce di per sé l'anticamera di una vera e propria "democrazia politica" in senso borghese (cioè del "miglior involucro della dittatura del capitale") e sarà appena da dire ai molti "antitotalitari" che, intesa la democrazia in questo senso, essa ha già una lunga storia in URSS: il "pluralismo" borghese, pur se "strozzato" e "distorto", ha avuto - e non da oggi - ampio corso nel paese e le cosiddette "grandi svolte" nel Partito e negli organi dirigenti dello stato e dell'economia non possono correttamente intendersi al dì fuori di questa dialettica.

Ma lo sviluppo di una "piena democrazia politica" (anche se, ovviamente, non secondo i moduli noti in Occidente) richiama anche la rivendicazione e la conquista da parte dei proletari della loro" democrazia. Il corso economico attuale, in poche parole, non può limitarsi ad esprimere una pluralità di soggetti economico-sociali senza dar, con ciò stesso, voce all'antagonismo proletario. I rapporti sociali si fanno "più limpidi", e questo significa marxisticamente più antagonisti. La "trasparenza" del potere sarà anche trasparenza della lotta di classe.

Ora, è precisamente questo che preoccupa i dirigenti sovietici. Schiere di "esperti" (dai sociologi al KGB) sono mobilitati, come mostravamo nel precedente Dossier, non più per "scongiurare" la lotta di classe - che, in quanto tale, la società borghese può solo riprodurre a scala continuamente allargata e si tratta quindi di "riconoscere" -, ma per impedirne la canalizzazione nel senso proletario, antagonista. Se innalzamento dei ritmi e della produttività, se mobilità e licenziamenti sono altrettanti dati necessari allo sviluppo, la conflittualità è altrettanto automaticamente inscritta all'ordine del giorno. Si tratta, allora, di far sì che trasparenza e "pluralismo" politico di parte borghese siano messi in grado di funzionare da argine e canalizzazione della società contro la trasparenza uniclassista della lotta antagonista proletaria.

L'apertura, o meglio: lo spalancamento di porte, alla "dissidenza" alla Sacharov va letta in questo preciso senso. Non è un caso che questo tipo di "dissidenza" possa orgogliosamente dire di non aver mai avuto nulla da spartire con la classe operaia sovietica, rispetto alla quale c'è sempre stata reciproca incomunicabilità, mentre mostra di riconoscersi appieno nel "nuovo corso", tanto da affermare che "le cose che oggi dice Gorbacev sono le stesse per le quali molti di noi sono finiti in galera nel passato". Battistrada "troppo in anticipo" della "grande riforma" ieri; battistrada tempisti oggi.

A noi, naturalmente, fa un immenso piacere che i vari Sacharov siano rimessi sull'altare e che persino molti "dissidenti" accampatisi provvisoriamente negli USA rientrino in URSS riconoscendovi un sistema borghese "più a misura d'uomo" di quello del "libero Occidente". Vada finalmente a farsi fottere la balla dei "diritti umani" (borghesi) agitata dalla propaganda bellicista dei massimi centri imperialisti! Nel rispetto della "libera opinione" borghese l'URSS finalmente è "omologata" all'Occidente, così come vi è omologata sul piano della repressione dell'opposizione al proprio imperialismo (pur se la presenza dell'Armata Rossa in Afganistan è ben poca cosa rispetto a quella delle armate stelle e strisce e NATO in tutto il globo) e come vi è omologata sul piano della repressione antiproletaria (su cui, né ad Ovest né ad Est, ci sarà mai una "libera opinione" borghese a piangere sul serio). Che cosa si potrà rimproverare d'ora in poi, per ragioni di borghese bottega, all’URSS sul piano dei "diritti umani"? Una statistica sui prigionieri politici di Moscovia e di Occidente sarebbe istruttiva; né ci consta di poliziotti del KGB promossi a deputati del Soviet Supremo per aver (o "nonostante" l'aver, se meglio credete) sottoposto a torture prigionieri politici, come ci sembra di ricordare essere accaduto in un liberissimo paese occidentale di cui ci sfugge, al momento, il nome.

"I nemici stanno in alto". E in basso?

Gorbacev ama ripetere che i nemici della "grande riforma" stanno in alto, annidati nelle posizioni parassitarie dei vertici burocratici di potere. Che sia vero anche questo lo riconosciamo, e lo abbiamo a suo tempo motivato. Quello che contestiamo è che gli ostacoli decisivi possano venire da un ristretto pugno di gente abbarbicata al potere per proprio esclusivo conto e senza rapporti con ampi settori della società. Lo sa bene, del resto, anche Gorbacev: le difficoltà dell’"operazione ripulitura" nascono dall'intreccio tra poteri refrattari alla riforma ed interessi "particolari" della società già profondamente scomposta dell'URSS.

Il caso-Kazakhstan è emblematico in questo senso. Esso dimostra in modo esemplare come, sotto il velo superficiale della "direzione centrale unica" (ed "unitaria"), il sistema sovietico abbia prodotto, nel suo corso, conflitti sociali di ogni genere: inter-settoriali (tra i singoli rami produttivi in conflitto tra loro), inter-aziendali, interregionali e tra nazionalità (classica prevaricazione dell'elemento grande-russo rispetto alle nazionalità "minori"), nonché, e vada sé, tra le classi.

Che una quota notevole della popolazione del Kazakhstan si sia schierata "unitariamente" a favore del deposto Kunaev in quanto "blocco di popolo" non inganni sull'aggettivazione da dare alla rivolta. Che non si sia trattato di un'insurrezione proletaria e che, anzi, i rischi di deviazione reazionaria vi siano stati fortemente presenti è un dato di fatto. Questo è il primo risultato, però, di contraddizioni intimamente connesse al corso capitalistico: da un lato siamo in presenza di un accentramento del potere economico e politico nelle mani dell'elemento grande-russo, con la "naturale" emarginazione di un Meridione l'arretrato" e "diverso" (per caratteristiche nazionali, economiche e culturali), dall'altro questo accentramento si compensa, in linea con l’andamento anarchico del sistema capitalista, con un decentramento regionalistico (un "pluralismo" regionale!). Quest'ultimo aspetto ha potuto far sì che "tutte le classi" del Kazakhstan abbiano potuto far blocco attorno alla dirigenza locale in quanto portavoce degli interessi specifici della "nazione kazakha nel suo complesso" di fronte al centro moscovita, sul "modello" delle periodiche scosse che agitano la Federativa jugoslava.

Tuttavia, anche in un movimento del genere il proletariato locale entra con le sue specifiche rivendicazioni, ancorché dirette e deviate al momento da altre forze sociali. Lo sviluppo della "grande riforma", se - come speriamo - non andrà ad infrangersi contro il blocco del conservatorismo reazionario, avrà il merito di togliere strutturalmente di mezzo i residui margini di compromesso sociale e politico di tipo "regionalistico", sottoponendo crescentemente l'insieme (necessariamente squilibrato) dell'URSS alla dittatura reale e non più solo formale del capitale. E’ indubbio, allora, che le stesse iniziali rivendicazioni di autonomia regionale e nazionale andranno a separare e definire ad un livello più alto classi e "partiti" sociali e che si aprirà una strada più praticabile ad un'azione autonoma del proletariato programmaticamente ed organizzativamente non confinata ai propri confini nazionali, ma aperta all'unione di tutto il proletariato russo.

Interrompiamo qui questo primo aggiornamento di "cronaca" sulle vicende dell'URSS. Nel prossimo numero affronteremo la questione dell'impatto che la "grande riforma" trasmette all'esterno dell'URSS in direzione dei paesi "fratelli" od "alleati" e gli impulsi che dall'esterno essa è costretta a ricevere (si pensi, a solo titolo anticipatore, all'azione di rimando sull'URSS del "caso Afganistan").

Vedremo, inoltre, come il "nuovo corso" sia destinato ad incidere sui rapporti internazionali tra paesi e forze politiche e sociali, sia sul versante borghese che su quello proletario.

E facciamo, in attesa, tanti auguri al "compagno Michele": che la tua opera di "riformatore" vada avanti!; essa non potrà che favorire l'opera di scavo della vecchia talpa rivoluzionaria! In URSS e in tutto il mondo.


Note

1. Cfr. Il mito della "pianificazione socialista" in Urss (Quaderni del Programma Comunista, n. 1 agosto '76 pag.16

2. Cfr. L'Espansion ottobre '75


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