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ITALIA 5a POTENZA: 
SULLA PELLE DI CHI? PER ANDARE DOVE?

Il tanto atteso evento è alfin giunto: l'Italia ha superato la Gran Bretagna nel PIL e, sullo scatto, si prepara a operare un identico sorpasso ai danni della "vanitosa cugina d'oltralpe", la Francia.

Statistiche alla mano, il prodotto interno totale è già superiore a quello inglese e molto vicino al francese, qualche altro anno ad un ritmo di sviluppo superiore, qualche altra provvidenziale rettifica che porti, almeno statisticamente, allo scoperto una percentuale del "sommerso", et voilà, un altro gradino della gerarchia mondiale può essere brillantemente scalato in scioltezza.

La propaganda nazionale (e nazionalistica), confortata dalle sconsolate e cavalleresche ammissioni inglesi e da altri riconoscimenti internazionali, ha così trovato un nuovo argomento per invitare alla coesistenza pacifica tra le classi e al comune impegno per raggiungere obiettivi più ambiziosi. 5a potenza mondiale se si considerano le sole nazioni dell'occidente capitalistico, 6a se nel computo si inserisce la Russia, ma con fondate speranze di divenire la 4a nel primo e la 5a nel secondo caso. Senza dimenticare che la rivalutazione del PIL ci ha fatto tutti, mediamente, più ricchi. E che nessuno scomodi Trilussa e il refrain sulle statistiche che assegnano un pollo a testa ad un intero popolo anche se c'è chi di polli ne mangia due e chi nessuno!

La baldanzosa allegrezza è stata appena scalfita allorché si è trattato di attribuire i meriti. Craxi, quasi ormai compiaciuto dei quotidiani paralleli - vignettistici e no - tra lui e il duce, lo ha rivendicato tutto a sé, alla stabilità governativa da lui garantita, al decisionismo prima, e alle aperture consensualistiche poi. La DC ha proposto di dividere equamente i meriti, riconoscendone ai singoli partiti governativi per lo meno nella stessa proporzione della propria rappresentanza.

Su un'altra sponda, dello stesso fiume, Agnelli ha ricordato i meriti suoi e del padronato, senza negare, ma soprassedendo, su quelli dei litigiosi "politici". Infatti intervistato da Newsweek del 16.2.87 (che ha dedicato la copertina a lui e titoloni ai "Miracles makers" - quelli che fanno i miracoli - italiani) ha prima spiegato che l'Italia degli anni '70 andava in malora perché c'era eccessivo potere dei sindacati e del PCI, che "si poteva a malapena sopravvivere nelle fabbriche: c'era disordine, terrorismo, perfino prostituzione", ed ha poi fornito la data e il motivo della svolta: l'ottobre '80 e la manifestazione dei 40.000.

Il rilancio dell'Italia come potenza, la ripresa dei profitti aziendali, la febbre di borsa, il ritorno oltre frontiera dei capitali italiani, non più per sfuggire ad una situazione interna critica, ma per investire all'estero, portare la concorrenza in casa d'altri e partecipare più attivamente allo sfruttamento del 3° mondo, hanno, quindi, una vittima certa: la classe operaia. E’ a sue spese che questi obiettivi sono stati raggiunti, comprimendo sempre più i salari, diminuendo il numero degli occupati, elevando i ritmi di lavoro e, in una parola, lo sfruttamento.

Un risultato ottenuto attraverso un attacco durissimo all'intero proletariato, passato anche grazie all'acquiescenza attiva di sindacati e PCI, disposti a convincere gli operai sulla necessità di sacrificarsi per risanare e rilanciare l'economia nazionale. Questi sacrifici non erano a vuoto, si è detto. Avrebbero avuto anch'essi, sulla distanza, una ricaduta positiva sull'insieme della classe, delle contropartite: una ripresa dell'occupazione, un maggior potere d'acquisto dei salari, un lavoro più pulito e umano. Dopo 7 anni di promesse il bilancio è, per gli operai, del tutto negativo: la disoccupazione è in continua salita, il potere d'acquisto è stato a malapena fermato, per un solo anno (l'87), nel suo continuo calo, con i recenti contratti (e grazie alle lotte operaie), di recuperi sulle precedenti rapine neanche l'ombra! Ma le note più dolenti per gli operai vengono dalle condizioni di lavoro. Non molti anni fa sembrava di essere all'alba di una nuova era, quella della tecnologia e dell'informatica. Il lavoro in fabbrica e la stessa figura sociale dell'operaio erano dati ormai come in via di estinzione; poca gente sarebbe rimasta nelle fabbriche e soltanto per svolgere, in camice bianco, un tranquillo e pulito lavoro di direzione delle macchine automatiche e intelligenti destinate a prendere il posto dell'uomo.

Oggi si ammette da più parti che i processi di ristrutturazione hanno riguardato solo in minima parte l'introduzione di robot et similia, mentre i maggiori livelli di produttività sono stati ottenuti esclusivamente con un più intenso sfruttamento del lavoro umano, sottoponendo gli operai a carichi e ritmi di lavoro crescenti, perfezionando il controllo e il ricatto su di essi, liberalizzando in modo selvaggio il mercato del lavoro. I nudi dati sull'aumento degli incidenti sul lavoro, sui morti in FIAT e, più recente, i 13 operai morti nella stiva di una nave nel porto di Ravenna, lo testimoniano nel modo più eloquente e violento.

Del tutto noncurante dei cadaveri lasciati sul proprio cammino la borghesia guarda avanti, e lo fa cercando di tramutare la sua maggiore forza economica in riconoscimenti, non platonici, sul piano internazionale.

Se nella sua recente visita in Inghilterra Craxi ha dato sfoggio di fairplay nel non affondare la lama nella ferita inglese del sorpasso, ben diverso è stato l'atteggiamento in occasione della riunione dei 5, o dei 7, paesi più industrializzati d’occidente a Parigi: Goria, chiamato a giochi fatti, ha declinato l'invito a sedersi ed è tornato a casa. "Baccano nel quale risuona il ricordo di comportamenti da anni 30"?

Non solo. L'Italia vuole vedere riconosciuto il proprio ruolo economico e finanziario, partecipando, a pari titolo con gli altri paesi imperialisti, a tutte le decisioni capaci di produrre conseguenze sui suoi affari, e, soprattutto, pretende di poter prelevare una quota proporzionale alla sua forza economica dei sovrapprofitti lucrati dalla finanza imperialista a spese dei paesi meno sviluppati e del 3° mondo. Un obiettivo per il quale l'imperialismo - che cerca di smettere i vecchi stracci a favore di più moderne vesti - non è ricorso solo alla politica della "voce grossa". Controprova? Inanelliamo alcuni fatti.

1. ruolo di mediazione nei conflitti medio-orientali. A partire dall'intervento di "pace" nel Libano i governi italiani hanno cercato di tenere alta la bandiera della loro volontà di mediazione, giocando spesso "in proprio", senza, cioè, appiattirsi alla politica degli alleati;

2. ambizioni regionali nell'area dei Mediterraneo: minacce alla Libia, accordo con Malta, rapporti privilegiati con Algeria e Tunisia. Sigonella ha dimostrato con quanta fermezza una parte, almeno, della borghesia italiana sia disposta a difendere i propri interessi imperialistici anche in concorrenza con il "padrino" americano;

3. politica di "aiuti" al 3° mondo. L'attività del FAI, organismo fermamente voluto da Pannella, si è andata concentrando nelle ex-colonie italiane (Etiopia, Somalia) e nel Sudan. Dietro il tentativo di penetrare con propri capitali in quelle aree, condizionandone a proprio vantaggio gli assetti politici ed economici. Le polemiche sul FAI in seguito al rapimento di due tecnici italiani in Etiopia, dove il FAI stava predisponendo le strutture per la deportazione di centinaia di migliaia di persone altrimenti scomode per la giunta Menghistu, hanno prodotto un nuovo parto: la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo, sorta con legge del 1.3.87, e dotata di circa 4.000 miliardi all'anno, a fronte dei 1.900 (in 18 mesi) del FAI;

4. una politica estera "attiva" ha bisogno non solo di consumati diplomatici, ma anche del sostegno delle cannoniere. Che la borghesia stia dedicando attenzione e finanziamenti ad una ristrutturazione dell'intero apparato militare è cosa che tutti i giorni ci ricordano l'attivismo del ministro della difesa, le prese di posizione dei capi militari, i servizi e le indagini della stampa. Chiaro è anche l'obiettivo di questa ristrutturazione: un apparato militare più efficiente, più moderno, capace di garantire una maggiore autonomia nella difesa e, soprattutto, dotato di mezzi e capacità di intervento in un'area vasta almeno come tutto il Mediterraneo.

Il proletariato italiano non ha nulla da guadagnare dal rafforzamento dell'economia e della politica italiana: esso è ottenuto, anzi, al prezzo di un peggioramento delle sue condizioni di vita e di lavoro. Un peggioramento che non conosce limiti: i padroni stanno predisponendo di già un nuovo attacco per ottenere maggiori livelli di produttività e di flessibilità in fabbrica, per abbattere gli ultimi ostacoli alla completa liberalizzazione del mercato del lavoro, eliminare la Cassa Integrazione, ecc.

Ancora meno da guadagnare hanno i popoli e le masse del 3° mondo, cui la affettata politica di "aiuti" italiani prepara una più dura sottomissione allo sfruttamento imperialistico. Sotto l'ombra di esso si va delineando una nuova spartizione dei mondo. Per ora essa viene decisa, per lo più, con un'accorta partita di scacchi diplomatica, ma che contiene in sé i prodromi - divenuti già in più di un caso fatti militari concreti - di una nuova guerra mondiale. La borghesia italiana dà il proprio contributo, muove i suoi scacchi, aumentati rispetto alla diretta concorrenza in decadenza.

Tocca al proletariato cominciare a muovere i suoi: lotta in difesa delle sue condizioni di vita e di lavoro, sostegno incondizionato alla lotta anti-imperialista dei popoli oppressi, sia pure, oggi, solo dalle messi di "aiuti" interessanti.


ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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