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NUCLEARE: A CHE PUNTO SIAMO?


La farsa della conferenza nazionale sull'energia si è chiusa quasi in sordina, con pochi spettatori al botteghino e tutti a correre in altra sede dove il governo Craxi stava recitando il suo ultimo atto. A risollevarne le sorti non è neanche servita l'entrata in scena di quel buffone di corte che è Pannella, la sua recita di antinuclearista pentito aveva un sapore di "già visto" che non ha incantato nessuno.

Poco male! Quello che doveva essere un simposio di illuminati scienziati, di tecnici immacolati e di giudiziosi parlamentari che dovevano in tutta "indipendenza" vagliare i pro e contro dell'uso dell'energia nucleare dopo i rinvii e le polemiche della vigilia, si era definito per quello che era:

1) una passerella di nuclearisti convinti che, dietro le assicurazioni sui criteri di sicurezza adottabili per le centrali e lo snocciolamento di aride cifre in termini di costi e ricavi hanno evidenziato, se ve ne fosse stato ancora bisogno, che l'opzione nucleare non è di carattere tecnico, ma di natura politica, economica e sociale, investe, in sostanza, la stessa logica capitalista;

2) uno dei tanti tavoli (gli altri sono le trattative tra i partiti, all'interno della formazione del prossimo governo, ecc.) sui cui si cerca di conciliare gli interessi economici (non sempre coincidenti) dell'Enel, dell'IRI o della Confindustria con quelli di forze politiche che devono fare i conti elettorali con una popolazione che ha espresso la sua opposizione a questa energia.

Insomma, più che altrove, la stessa borghesia appare incerta, divisa sul problema del nucleare civile e si agita alla ricerca di soluzioni compromissorie che salvino capra e cavoli.

I piani energetici nazionali

In Italia, come in tutti i paesi imperialisti, i piani energetici predisposti per i prossimi anni sono caratterizzati dal raggiungimento di due obiettivi fondamentali:

- garantire la produzione di energia elettrica al minor costo possibile e nelle quantità adeguate al mercato;

- utilizzare fonti energetiche primarie diversificate sia in materiali utilizzati (carbone, petrolio, metano, nucleare, ecc.) che per aree geopolitiche di provenienza.

Che cosa significa ciò? In primo luogo, che l'impiego del combustibile nucleare per la produzione di energia e di una tecnologia le cui conseguenze sull'ambiente e sull'uomo possono essere catastrofiche, non è subordinata che al suo costo ed alla politica di approvvigionamento che ha la sua ragion d'essere solo nei contrasti economici, politici e militari che l'imperialismo genera.

In secondo luogo, significa che, al contrario di quanto pensano oggi vasti settori di antinucleari (verdi, ambientalisti, FGCI), non si può battere il nucleare se non ribaltando la logica dei costi e dei ricavi o dell'indipendenza energetica, unendo questa lotta a quella più generale contro l'imperialismo e l'intero sistema capitalistico.

Vediamo più in dettaglio come stanno le cose per il capitalismo italiano.

Negli ultimi 15 anni il leitmotiv che ministri, portaborse vari, economisti, ecc. hanno instancabilmente ripetuto è quello dell'handicap costituito dal pesante fardello della bolletta energetica. Causa di ciò, oltre agli operai, naturalmente, che pretendono salari troppo alti e poi vogliono anche il riscaldamento, i ritardi con cui il sistema produttivo si è adeguato all'evoluzione internazionale della domanda di energia.

In realtà pesa sul capitalismo italiano, non solo l'assenza sul territorio nazionale di significative fonti di materie prime energetiche, ma la stessa struttura del processo di industrializzazione (legato alla divisione internazionale del lavoro) che è fondato su settori ad alto consumo di energia (petrolchimico, metallurgico).

Prima della cosiddetta "crisi petrolifera" del '73, il 79% della domanda interna di energia era coperta dal petrolio. Il rialzo dei prezzi e l'acutizzarsi dei contrasti politici e militari nell'area medio orientale hanno costretto l'imperialismo italiano a rivedere i suoi piani. Nell'85 la quota di incidenza del petrolio sull'intera domanda era sceso al disotto del 60%, come risultato di: un processo di ristrutturazione della produzione energetica, la politica di aumento dei prezzi, di stagnazione dei consumi (nel 1983 il consumo totale di energia era pari a quello di 10 anni prima), ed, a partire dall'80, di incremento dell'utilizzo di gas naturale in seguito ai contratti stipulati con URSS e Algeria.

Nel 1985, la struttura dei consumi per fonti d'energia in Italia era la seguente:

Combustibili solidi (carbone) 

10%;

petrolio 

58%;

gas naturale 

22%;

energia elettrica 

10%.

Come si vede in tabella, l'energia elettrica (che è una fonte secondaria di energia in quanto derivata da altre fonti, dette primarie) copre il 10% della domanda totale di energia, ma la sua importanza per la struttura produttiva complessiva è, per così dire, strategica quando si pensi che essa costituisce materia prima per la produzione di ogni altro tipo di merce.

Con che fonti essa viene prodotta in Italia? Nell'85 i dati sono i seguenti:

fonti idroelettriche e geotermiche 

26,2%;

petrolio 

40%;

carbone 

15%;

gas naturale 

15%;

nucleare

3,8%.

Su questa base e ritenendo ancora troppo esposto il capitalismo italiano ai contraccolpi di possibili aumenti dei prezzo del petrolio ed alle perturbazioni del mercato delle materie prime, nel 1985 è stato ulteriormente aggiornato il PEN (Piano energetico nazionale) col consenso di tutti i partiti parlamentari ad esclusione di DP e radicali. Gli obiettivi sono: ulteriore riduzione del grado di dipendenza dal petrolio, massima diversificazione, geopolitica e delle fonti, nei riferimenti, e, infine, promozione di fonti nazionali autoctone. Anche nella penisola, la borghesia ha necessità di attrezzarsi sia sul fronte della concorrenza internazionale operando sulla diminuzione dei costi di produzione, sia su quello dei rifornimenti liberandosi dalla dipendenza petrolifera nei confronti di paesi produttori di difficile controllo (Arabia Saudita, Iran, Kuwait) per rivolgersi a quelli dell'arca mediterranea (Nord Africa) non a caso considerato il "giardino di casa" per l'imperialismo italiano. In questo contesto il ricorso al nucleare è considerato dal PEN come fondamentale. Infatti, non solo con l’uso dell’uranio si completa il panorama delle diversificazione delle fonti, ma è definito "fonte nazionale" in quanto sarebbe possibile stoccarne una quantità pressoché illimitata.

In buona sostanza, l'imperialismo italiano, come quello europeo in generale, ma in forma più accentuata data la sua collocazione geopolitica nell'area mediterranea, gioca su più tavoli, combinando le sue scelte energetiche sulla base dei costi e del grado di dipendenza e controllo sui canali di rifornimento. Interessi commerciali ed interessi imperiali si compenetrano ed influenzano le scelte energetiche dei vari paesi rendendo assai flessibile il ricorso a questa o quella fonte primaria. Questo è oggi particolarmente evidente in Italia, il paese meno nuclearizzato d'Europa, in cui la prospettiva di veder rialzare i costi di produzione del nucleare per far fronte ai problemi della "sicurezza" ha già raffreddato più di un entusiasmo su questa energia. Perciò se è azzardato parlare di paesi "nuclearizzati" (la Francia che è al primo posto in questa graduatoria aveva nell'84 una capacità nucleare pari al 21% della quota totale della produzione energetica) è irrealistico e degno di chi legge la realtà con gli occhiali deformati della propria ideologia, affermare come il n. 37 di Autonomia, che il nucleare costituisce il "piano strategico" del capitale da cui dipende la sua stessa sopravvivenza. Insomma un eventuale abbandono del nucleare in Italia costituirebbe una sorta di colpo mortale inflitto al capitalismo. Con questi presupposti non solo si assolutizza il problema del nucleare rendendo la lotta contro di esso strategica e con ciò staccandola dalla più complessiva battaglia del proletariato, ma si affronta la stessa lotta al nucleare con una prospettiva deformata della realtà dello scontro sociale. Ecco allora che di fronte ai contorsionismi del PCI, dei sindacati o di altre forze politiche che progressivamente, con non poche contraddizioni interne, si pongono nel campo antinucleare, i compagni dell'Autonomia non trovano di meglio che affermare che ciò è solo il segno di come "la lobby nucleare si articola e si ripresenta nella forma del compromesso e della moratoria in tutti i partiti e nel sindacato". Con la solita, ed invero ormai stantia, teorizzazione del gioco delle parti si accantonano, in questo modo, le contraddizioni sorte nelle fila della borghesia e del riformismo, senza poterle sfruttare tra le masse come elemento di riflessione, propaganda e mobilitazione.

Senza alcun dubbio il riformismo, così come d'altronde ambientalisti e verdi, è ben attento alle esigenze del capitalismo. In tema di energia , le tesi del XII Congresso del PCI affermano, non diversamente da tutti i borghesi di questo mondo, che "il paese deve dotarsi di una struttura energetica tecnologicamente più avanzata e diversificata, più efficiente e produttiva e perciò anche più affidabile e meno costosa". Allo stesso modo gran parte della battaglia antinucleare dei verdi è stata basata sulla antieconomicità dell'uso dell'atomo. Ma proprio perché in Italia la scelta nucleare non è senza via d'uscita (questo non vuol dire che la sua rinuncia sia indolore per la borghesia) il PCI si può fare portavoce della preoccupazione e del disagio di massa verso un'energia che ha già dato così tragica prova di sé, prospettando l’utilizzo di fonti energetiche diverse (magari il carbone il cui grado di inquinamento è notevole) ed il "superamento graduale" (per carità, nessuno shock da chiusura immediata) dell'uso dell'atomo. Ciò che accomuna tutte le forze ambientaliste e il riformismo è l'attenzione che esse pongono nel non minare la fragile "solidità" dell'economia nazionale e con ciò sono pronte ad ogni sorta di compromesso nei programmi e nei metodi della lotta antinucleare, come dimostrano gli stessi referendum proposti.

Per queste forze l'uscita dal nucleare civile deve essere progressiva e non quella traumatica derivata dalla chiusura immediata; non hanno mai sollevato il problema dell'uso militare delle centrali per creare sorgenti di plutonio necessario per le bombe nucleari, né una parola è stata detta sulle enormi concentrazioni di materiale atomico nelle basi militari.

La lotta contro il nucleare

La nuova Chernobyl aveva portato in piazza migliaia di giovani, studenti, lavoratori: un rilevante settore della popolazione si mobilitava, pur con tutte le contraddizioni che un movimento interclassista si porta appresso, per chiedere l'immediata uscita dell'opzione nucleare. La possibilità che esso potesse svilupparsi era strettamente correlata al superamento della specificità della lotta alle centrali e, quindi, al suo coordinarsi con una più complessiva lotta contro le forze economiche e politiche artefici della scelta nucleare. Solo in questo modo, pur dovendo ancora bruciare non poche illusioni, il movimento antinucleare avrebbe conquistato un terreno di lotta di massa e posto le condizioni, anche utilizzando strumenti consultivi o referendari, per battere il nucleare. L'isolamento sullo specifico delle centrali ha invece portato o all'avanguardismo e al sostituzionismo dei settori antinucleari più combattivi o al dar fiato alle iniziative, surrogatorie alla lotta, che hanno così contribuito a sviarla e cloroformizzarla, di DP, FGCI, Verdi, sul referendum. Su questo settore antinucleare cade tutta la responsabilità dell'arretramento subito dal movimento.

Subordinare tutte le iniziative, anche il simbolico picchettaggio di pochi loro militanti alle centrali, ai referendum abrogativi delle leggi che stabiliscono sovvenzioni per la costruzione delle centrali, non solo ha significato bloccare ogni mobilitazione, ma ha creato le peggiori condizioni per arrivare alla stessa scadenza referendaria.

A partire dall'estate '86, il problema del nucleare è così stato circoscritto o ai tecnici e politicanti borghesi che sui media hanno abbondantemente "avvelenato" con la loro propaganda, pro o contro il nucleare, il proletariato, ovvero circoscritto alle aree in cui operano o sono in costruzione centrali (Caorso, Trino, Montalto).

I più attivi nella lotta sono certamente stati i gruppi legati all'Autonomia operaia che hanno dato vita ad una serie di blocchi delle centrali. Sostenendo la discriminante di lotta dell'azione diretta come "cartina di tornasole", terreno privilegiato di ricomposizione dello schieramento antinucleare, gli autonomi si sono autoproclamati come l'unico movimento contro il nucleare. Non condividiamo affatto né la loro affermazione né come essi hanno condotto la lotta. Anche noi siamo profondamente convinti che solo con l'azione diretta, cioè senza deleghe a persone o meccanismi istituzionali, si possono ottenere successi nella lotta contro il nucleare, ma ciò che i compagni dell'Autonomia ribaltano è il concetto stesso di lotta di massa nel rapporto tra coscienza ed esperienza di lotta e tra avanguardie e movimento. È pur vero che la concezione di "masse" è relativa! Ma la relatività del concetto non si misura in rapporto alla capacità delle avanguardie politiche di mobilitare, ma rispetto ai rapporti di forza tra le classi, ai settori interessati alla lotta, al livello di coscienza che essi hanno. Attestarsi su delle forme precostituite (in cui l'azione diretta viene tra l'altro circoscritta al blocco fisico delle centrali) stante il grado di coscienza del movimento antinucleare, non poteva che portare ad isolarsi in un testardo e donchisciottesco testa a testa contro l'Enel e le forze di repressione, lasciando al riformismo il campo libero per controllare il grosso del movimento.

Cosa fare allora? La lotta al nucleare non si deve ghettizzare attorno alle centrali, ma si deve estendere per coinvolgere in primo luogo il proletariato. Se la loro immediata chiusura è un obiettivo irrinunciabile da imporre con l'azione diretta di massa, il blocco delle centrali nucleari non è che uno dei terreni su cui si deve agire. Gli altri sono quelli relativi all'assunzione da parte del proletariato, e degli operai in primo luogo, del carico della lotta al nucleare.

Innanzitutto ciò significa coinvolgere i lavoratori delle centrali che sono sottoposti dai padroni al pesante ricatto del posto di lavoro rivendicando per essi il salario garantito.

In secondo luogo demistificare e combattere la propaganda borghese nei confronti del proletariato sulla possibilità del nucleare di creare posti di lavoro e ridurre, per i proletari, il costo dell'energia.

In terzo luogo la lotta al nucleare civile non può essere disgiunta dalla lotta contro il nucleare militare e con ciò dalla lotta contro il militarismo ed i preparativi di guerra a cominciare da quelli della propria borghesia.

Darsi, infine, la prospettiva di collegamento internazionale con i movimenti antinucleari della Germania, Francia, Inghilterra e così via.

E su questa prospettiva che va battuto nel movimento antinucleare l'opportunismo di quelle forze pronte ad accettare ogni compromesso.


ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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