Dossier Pci

 


CHE SUCCEDE NEL PCI?

Andiamo, allora, a vedere cosa sta succedendo nel PCI sotto questo aspetto.

Già prima delle elezioni si era potuto notare come la "questione operaia" tornasse a bussare alle porte del partitone. Dopo l'ubriacatura dei "giusti sacrifici" e dei compromessi più o meno storici che avrebbero dovuto far avanzare "tutta la società", a vantaggio anche dei proletari, è venuta La realtà di una ristrutturazione "selvaggia", di profitti ("produttivi" e speculativi) senza limiti e di un parallelo peggioramento delle condizioni di vita del proletariato (erosione del salario, norme produttive sempre più strangolatrici, deterioramento a scala dei "diritti politici e sindacali" in fabbrica, licenziamenti, disoccupazione - soprattutto giovanile -, emarginazione crescente etc. etc.). Di fronte a tutto ciò la classe operaia ha ripreso a muoversi, andando a contestare direttamente la politica sindacale (in quanto obiettivo più immediatamente tangibile di verifica). Dopo il referendum sui 4 punti, su cui la classe è stata compatta ed ha potuto avere le "prime" prove della "debolezza" di "certi settori" dirigenti sindacali e di partito, sono venuti i referendum sulle piattaforme contrattuali, a cominciare da quella dei metalmeccanici e da quella aziendale dell'Alfa. Qui i fossati si sono via via approfonditi, perché è diventato chiaro a masse consistenti di lavoratori che per battere l'offensiva padronale occorre fare previamente i conti con le stesse "proprie" dirigenze, o perlomeno con "parte" di esse. La pressione operaia è aumentata ed ha portato a prime fratture in seno alle stesse strutture dirigenti del riformismo, a partire da quelle organicamente più vicine alla base. II "caso Alfa" è stato emblematico in questo senso: di fronte all'arroccamento delle strutture milanesi della CGIL e del PCI in difesa di un accordo presentato - difensivamente - come "buono" per il "rilancio della forza contrattuale del sindacato", dati i rapporti di forza attuali, si è visto a Pomigliano il diretto coinvolgimento delle rispettive strutture locali nel "fronte del rifiuto", e l' "Unità" non ha trovato altro di meglio che affiancare ad articoli "difensivisti" altri articoli di segno opposto, e, dovendo comunque "conciliare" le opposte posizioni, ha imboccato la via di mezzo di una difesa solo "tattica" dell'accordo, con la promessa di una strategia "dilungo periodo", di segno opposto: "L'accordo sull'Alfa Romeo non può certo definirsi una vittoria dei lavoratori. Bisogna però guardare in avanti: si è ricominciato a trattare. La Fiat non deve divenire norma" (14 maggio).

Alla vigilia del voto, un editoriale a firma C. Luporini poteva sbottare in "eresie massimaliste" del genere: "(La rissa elettorale) è una feroce lotta di potere per l'egemonia di un blocco moderato che si è venuto ricostituendo sotto l'egida del pentapartito (…) a spese del lavoro dipendente (…) e in primo luogo della classe operaia. Essa è stata aggredita non solo nel salario, col ricatto sull'occupazione, ma perfino, di nuovo nella salute, cioè nella realtà ambientale dei luoghi di lavoro (le stragi di Ravenna e di Genova sono la punta estrema di una situazione complessiva). L'abbiamo difesa abbastanza? È un problema aperto. La classe operaia non è "rinunciataria", ho letto in un'inchiesta giornalistica non nostra. Lo credo anch'io. II problema però che ci si apre davanti comunque, per il dopo elezioni, nella lotta politica (anche interna al partito) è di rifarne una forza trainante (…) per tutti gli strati sociali e le generazioni di età colpiti dalla ristrutturazione selvaggia del sistema produttivo, con le aggravate disuguaglianze ed emarginazioni sociali e culturali. (…) Credo che non ci sia molto tempo da perdere. II blocco moderato ha bisogno di consolidarsi nel momento in cui la congiuntura economica Internazionale (…) comincia a farne scricchiolare le basi, e mentre fermenti e movimenti nella società si riaccendono. Di qui la sua tendenza alla concertazione del potere politico, a nuove forme striscianti di autoritarismo, che spiega molti aspetti dell'attuale crisi e di ciò che l' ha preparata. II discorso delle riforme istituzionali, certo non trascurabile, ne è spesso la maschera fin troppo apparente."

Sarebbe banale davvero vedere dietro affermazioni del genere solo una concertazione demagogica per sopire presunti "bollenti spiriti" di un proletariato sul piede dell'armi e non, invece, l'esplodere dell'antagonismo sociale oggettivo e il suo riflesso (e reagente) soggettivo tra le punte avanzate della classe e dentro lo stesso partito riformista. "Fino ad un certo punto", è vero, in quest'ultimo caso; ma non tanto da non dover dichiarare (e scusate se è poco!) che una lotta politica si è aperta "anche interna al partito".

All'indomani della batosta elettorale, il comitato centrale del PCI dì fine giugno ha rappresentato la prima corposa occasione di verifica delle contraddizioni e delle prospettive in via di divaricazione tra le varie "anime" del partito riformista. Non "in vitro", ma in relazione strettissima con la più diffusa e profonda (anche se più difficile da cristallizzarsi in concrete linee d'indirizzo generali) agitazione vissuta alla base del partito e tra la massa operaia gravitante attorno ad esso. Si tratta di livelli diversi, non di "categorie" separate. Nei riquadrini di documentazione che qui affianchiamo ne appare un'immagine nitida (al di là dei filtraggi operati dall' "Unità" - da cui deliberatamente ci siamo "limitati" a trarre i materiali - e al di là dell'assenza, in essi, del movimento di lotta della classe oltre - e spesso in contrapposizione - agli indirizzi ufficiali del partito).

Nel comitato centrale di cui sopra non c'è solo la "novità" evidente di una progressiva divaricazione di indirizzi tra le diverse "correnti" del PCI, a riprova della polarizzazione oggettiva in atto nella società, ma il fatto che, per la prima volta in modo così chiaro, le diverse opzioni agitantisi nel calderone interclassista del PCI sono costrette a superare il livello dei formulari ideologici (perfettamente inservibili nella situazione attuale, dirà Svicher) per riferirsi a diversi e, sempre più - in prospettiva - "incomunicanti", referenti sociali, di classe.

Dicevamo, in passato, che un -opposizione" alla Cossutta di qualche tempo addietro, in quanto limitata alla "questione URSS",. esprimeva un livello non sufficientemente maturo dell'antagonismo sociale incubantesi nelle viscere della società e che la resa dei conti sarebbe venuta, per la classe, per il PCI (per gli stessi suoi "sinistri") quando da questa "lontana" questione "ideologica" si sarebbe dovuti passare a porre sul piatto la "questione operaia", hic et nunc. Questo passaggio si è già in parte preannunziato nel comitato centrale di fine giugno ed in quello del mese successivo.

Che fare della nostra classe operaia, del nostro riformismo, del nostro "socialismo"? Queste le questioni brutalmente poste sul tappeto dall'oggettività della situazione. E qui la premessa dei passi ulteriori se, com'è scontato, esse non potranno mai e comunque trovare una soluzione soddisfacente nell'ambito del partito riformista.

Intanto, però, consideriamo non da poco e tutt'altro che estraneo alla nostra prospettiva di ricostituzione del partito comunista e della rivoluzione socialista che il bubbone stia scoppiando. Costituisce un elemento di forza per questa nostra prospettiva che dentro il partito egemone nella classe operaia si sia potuto chiaramente discernere le basi sociali su cui si fondano le diverse tendenze: da una parte il riferimento senza reticenze a "classi emergenti" da distinguere ed anteporre alla "senescente" classe operaia (come hanno fatto i rappresentanti della Lega delle Cooperative, gli amministratori maneggioni ciel potere locale, confesercenti, confartigiani, "sindacalisti" del lavoro autonomo, piccoli e medi industriali…); dall'altra i difensori di un ruolo centrale della classe operaia nel consolidamento del "blocco sociale progressista" (più in là è proibito andare); in mezzo la palude ultramaggioritaria del centro del partito, tuttora nelle condizioni di "non scegliere" e di riservare una botta alla destra "migliorista" ed una alla sinistra "massimalista" (una palude che sarà ben presto agitata in profondità dall'approfondirsi del processo di polarizzazione sociale, cui dovrà sacrificare la sua "unità" nell'immobilismo).

È estremamente significativo che al CC di fine luglio, dopo che il mese precedente s'era assistito all' "emarginazione della destra" del partito, di fronte alla necessità di varare uno straccio di programma il centro Natta-Occhetto abbia mostrato tutta l'inconsistenza della "virata a sinistra" precedente, abborracciando una pappetta su cui la destra ha potuto facilmente ritrovarsi. In quest'occasione un'opposizione interna, in vario modo collocabile a sinistra (il "movimentista" Ingrao e l' "operaista-terzinternazionalista" Cossutta) è venuta abbastanza nitidamente alla luce, esprimendo col voto contrario alla relazione Natta il senso di contrarietà alla nuova linea di compromesso da parte del proletariato e dei "soggetti sociali antagonisti". Se il PCI si "omologa" definitivamente alla socialdemocrazia, avverte Cossutta, un altro partito comunista sarà inevitabile: l'avvertimento vale come invito a non tirar troppo la corda; per la base militante più cosciente è l'indicazione di un compito obiettivo cui prepararsi sin d'ora.

Questa base sta tuttora dentro il PCI e, in un certo senso, più che mai si "arrocca" attorno ad esso, perché un altro partito non s'improvvisa abbandonando il vecchio, ma predisponendone le condizioni. Conservatorismo? No. Realismo, senso militante (e militare) dell'organizzazione. La classe operaia rifugge dall'avventurismo soggettivista e perciò non diserta dal "suo" esercito. Vi rimane, per ora, e quando si "trasferirà" in un altro partito lo farà conservando e potenziando lo stesso spirito, dopo aver concorso a "costruirlo". Questa è la base proletaria che ha saputo e sa condurre delle sacrosante battaglie in barba ai diktat dei suoi caporioni; che non ha tema di togliere la parola ai "compagni" miglioristi che recriminano sul referendum contro il taglio della scala mobile e s'industriano a disegnare nuovi disegni di "compatibilità" per poter andare finalmente al governo; che ha accolto l'ascesa di Occhetto alla vicesegreteria come cauzione di un taglio definitivo con la destra del partito (ahinoi!, l'inganno è palese: ma l'importante è l'ipoteca che essa ha posto su di essa, con le conseguenze che ne deriveranno di fronte all'evidente ricupero da parte del centro di tutto l'essenziale dell'arsenale della destra).

Con questa parte avanzata della classe (ideologicamente dentro il riformismo, ma in moto di scollamento da esso), non è che noi vogliamo fare il gioco "tattico" di "dialogo" per farci "legittimare" e "guadagnare spazi". No. Noi stiamo effettivamente con essa, a misura che essa è disposta a lottare, al di là di tutti i travestimenti ideologici. Siamo con essa nel movimento reale destinato "ad abolire lo stato di cose presente"; lo siamo per rafforzare il movimento, per spingerlo più in là, per imprimergli la giusta direzione, per mostrare ad esso quello che esso stesso è e quello che dovrà diventare. E lo siamo senza dover rinunziare, neppure per un attimo, alle nostre posizioni di principio, a misura che queste valgono a intervenire nella realtà per modificarla e non per affermare degli articoli di fede. Lo siamo senza dismettere - al contrario! - dalla nostra azione indipendente e in senso opposto a quella del riformismo e dal lavoro di confronto e di organizzazione delle avanguardie che già hanno staccato, in qualche modo, il cordone ombelicale di legame col riformismo. Anzi, tanto più lo siamo in questa circostanza: perché, per noi, il "confronto" tra le avanguardie non esclude, ma postula al massimo grado il rapporto con la parte decisiva delle masse, secondo un percorso segnato non dal l' "isolamento" settario proprio del soggettivismo, ma dalla coscienza dei percorsi obbligati che nella classe si dovranno determinare e che spetta a noi, per quel che ci compete, e per quel che sapremo fare, "dirigere".