Le due guerre del Golfo'

GUERRA IRAN-IRAQ 
GUERRA IMPERIALISTA AI POPOLI OPPRESSI


Non da oggi, ma dallo stesso esplodere della guerra Iran-Iraq, è in atto nel Medio Oriente una guerra "parallela": quella che vede l'imperialismo metropolitano schierato in armi contro i popoli oppressi dell'area. Compito delle masse sfruttate dell'area, compito dei comunisti è assumersi senza esitazioni la bandiera della lotta antimperialista. Si attenuerà o scomparirà, in tal caso, la lotta sociale e politica interna, contro i "propri" regimi reazionari? Al contrario, essa sarà portata al massimo dell'incandescenza, al suo punto risolutivo.

Quanto abbiamo scritto nel numero precedente a proposito della duplice guerra in atto nel Golfo non ha "logicamente" lasciato convinti tutti i nostri lettori. Pubblichiamo qui a lato stralci della lettera di un compagno, attento alla nostra stampa e alla nostra attività, perché in essa si riassumono in modo per così dire emblematico i motivi centrali di un dissenso con le posizioni da noi globalmente difese, di cui la chiusa dell'articolo dell'ultimo numero del "Che fare" non rappresenta un "fulmine a ciel sereno", ma la coerente conclusione. Accettiamo e rilanciamo la discussione, quindi, ben oltre i confini di un passaggio finale d'articolo, all'insieme della questione.

Richiamiamo, innanzitutto, quanto dicevamo: compito degli sfruttati, compito dei comunisti nell'area è e resta il disfattismo rivoluzionario contro i "propri" regimi reazionari; ma ciò non significa in alcun caso quella caricatura e quel rovesciamento di tale disfattismo che sarebbe l'estraniarsi dalla lotta contro l'aggressione imperialista o la pretesa di rinviarla a dopo che i conti con Khomeini e Hussein saranno stati "preliminarmente" regolati.

Argomenta, viceversa, il compagno: ove si accetti di innalzare la bandiera della lotta all'imperialismo USA nel nome del paese oppresso, si fa "logicamente" un tutt'uno sotto la voce "popolo" - di capitalisti industriali, proprietari fondiari, finanzieri, mezze classi, contadini ed operai. Ecco, allora, smantellata la guerra sociale interna. La citazione di Trotskij riportata a lato ci sembra dirima nel modo migliore il problema. Noi non facciamo che riprendere il contenuto fondamentale di quelle posizioni (permanenti, al di là delle ovvie differenze di tempo e di luogo: anzi, più che mai valide per il presente, a misura che, col rafforzarsi del giogo imperialista, si rafforza parallelamente l'esigenza della saldatura tra guerra sociale "interna" e lotta sociale antiimperialista).

La "lotta parallela", contro Khomeini e contro l'imperialismo, appartiene forse ("logicamente") al regno delle favole? Si, per staliniani sulla destra e "comunisti puri" sulla "sinistra". Anche in questo caso restiamo con Trotskij, o con Bordiga (cui si farebbe davvero un bel torto ove si considerasse il suo "tifo" come qualcosa di esterno ai processi rivoluzionari in atto alla scala del paese oppresso e a quella internazionale). All' "insidiosa" domanda: ma, sollevando la bandiera della lotta anti-imperialista, non si finisce per "concorrere" con i vari Khomeini, almeno "oggettivamente", se non nelle "intenzioni"?, così risponde ancora Trotskij per noi nel '39, parlando del

"Se la borghesia indiana si vedrà costretta a fare il benché minimo passo sulla strada della lotta contro la dominazione arbitraria della Gran Bretagna, il proletariato NATURALMENTE appoggerà un simile atteggiamento. Ma lo appoggerà con i SUOI metodi: mobilitazioni di massa, audaci parole d'ordine, scioperi, dimostrazioni e azioni di lotta più decise, a seconda dei rapporti di forza e delle circostanze. Appunto per fare questo il proletariato deve avere le mani libere. L'indipendenza completa nei confronti della borghesia è indispensabile al proletariato al di sopra di tutto per esercitare la sua influenza sui contadini, massa preponderante della popolazione indiana. Solo il proletariato è in grado di avanzare un coraggioso programma rivoluzionario agrario, di sollevare e riunire decine di milioni di uomini e di guidarli nella lotta contro gli oppressori indigeni e contro l'imperialismo britannico".

È precisamente quello che sfugge al compagno allorché scrive: "Una guerra sociale implica sempre la guerra contro l'imperialismo; ma una guerra di una nazione oppressa contro una potente nazione imperialista non implica di per sé una guerra sociale". Al contrario! Una guerra anti-imperialista è sempre guerra sociale, perché pone le classi dinanzi a scelte che ne accentuano la divaricazione e ne acuiscono lo scontro sia pure a partire dal "come" e per quali obiettivi farla. È sempre guerra sociale anche sul piano internazionale, in quanto rovescia tutto il suo potenziale destabilizzante sull'assetto politico, economico e sociale dell'intero imperialismo. Astrarre la "guerra sociale" in Iran, in Iraq o in qualsiasi altra zona, dal suo contesto internazionale, rischia di portare a scivolare pericolosamente verso posizioni da "rivoluzione comunista in un solo paese".

La guerra anti-imperialista è, quindi, guerra sociale due volte. Valgano in proposito i fatti.

'79-'88 (e oltre): rivoluzione "iraniana" e lotta anti-imperialista

La sollevazione del '79 in Iran, di cui le masse oppresse sono state protagonista visibile, si è contestualmente e necessariamente ("di per sé") indirizzata contro un regime di dittatura borghese interna e contro il sistema imperialista. Duplice oppressione, duplice fronte di lotta. A questa hanno partecipato forze borghesi "nazionali" fortemente e vitalmente intrecciate all'imperialismo dominante, unite ad esso più strettamente di quanto lo fossero con le masse operaie e contadine del proprio paese. Per queste forze, l'esigenza del "rigetto del giogo imperialista", posta oggettivamente dalle stesse ragioni di sviluppo interno, non poteva che essere inconseguente, in duplice senso: in quanto esse erano e sono disposte "di per sé" al compromesso (et pour cause!) con l'imperialismo (di cui la "borghesia stracciona" dei paesi dipendenti è figlia legittima, sia pure in vesti di Cenerentola, e non potenziale "altra cosa", come nelle farneticazioni terzomondiste) ed in quanto esse erano e sono disposte alla massima… consequenzialità antiproletaria, antipopolare, anche a costo di fungere da retroguardia dell'imperialismo all'interno del "proprio" paese e, quindi, anche a costo di non veder riconosciute le proprie interne esigenze borghesi nazionali.

Dalla lettera di un nostro lettore di critica all'articolo 
sul golfo
del precedente numero del giornale

"Quello che mi ha lasciato di stucco è la conclusione dell'articolo, dove si parla di "dovere dei rivoluzionari" del Golfo, che "resta quello di sempre: disfattismo rivoluzionario contro i propri regimi". E fin qui tutto bene. Però… "Il che non va confuso, però, con il disfattismo nel caso eventuale di un intervento diretto contro l'Iran da parte dell'imperialismo, perché in questo caso il fronte di guerra si traccerebbe tra imperialismo oppressore e paese oppresso". (…) Chi attacca? L'imperialismo. Chi è attaccato? Il paese oppresso, ovvero, espresso in altri termini, è attaccato l'insieme dato dai capitalisti industriali, dai proprietari fondiari, dalla borghesia finanziaria, dalle "mezze classi", dal proletariato e dalla classe operaia. (…) Ho sottolineato "in questo caso" per evidenziare come in casi diversi, in situazioni diverse, in tempi diversi, la collocazione del fronte diventa diversa. E a questo punto sorge un'altra domanda: se in questo caso il fronte si traccia in tal modo, come era tracciato prima dell'intervento diretto dall'imperialismo? La risposta può essere solo: all'interno del paese oppresso. In questo caso diverso, dunque, il fronte viene a trovarsi all'interno dell'Iran e vede contrapposti borghesia e proletariato. (…)

Tempi diversi, casi diversi, fronti diversi, e qui abbiamo una prima negazione di quanto si diceva all'inizio del periodo. Formalmente si dice che il dovere dei comunisti resta quello di sempre; in realtà, esso non resta quello di sempre. La conclusione è: "In questo caso i comunisti sarebbero contro l'aggressione imperialista, senza cessare per un attimo di condurre una lotta parallela al "proprio" regime, alla "propria "borghesia." (…) Ciò che metto in dubbio - data la stessa impostazione dell'articolo - è la "lotta parallela". Date le premesse, essa è solo una frase, e non potrebbe essere diversamente: perché il disfattismo non sarebbe più applicabile. (…) Nonostante tutte le migliori intenzioni, la conclusione dell'articolo mi parla del passaggio da un fronte interno all'insieme delle classi in Iran (borghesia contro proletariato) ad un fronte esterno all'insieme delle classi in Iran (nazione oppressa contro imperialismo). È il cambiamento di fronte che sancisce la fine della lotta sociale (altro che "lotta parallela"!). Una guerra sociale implica sempre la guerra contro l'imperialismo; ma la guerra di una nazione oppressa contro una potente nazione imperialista non implica di per se una guerra sociale. (…)

Voglio porre due prospettive di fronte ad un eventuale intervento diretto di una potenza imperialista contro l'Iran. 1) Il proletariato è debole e non ha la forza di mettere in discussione il potere della borghesia iraniana. In tal caso subirà l'ordine imperativo di difendere la "sua patria". (…) 2) Il proletariato, per una serie concomitante di fattori - primo fra tutti una grossa crisi politica del regime khomeinista e della borghesia iraniana - viene a trovarsi in una situazione di forza. In questo caso, nonostante la presenza di divisioni americane in territorio iraniano, il suo dovere è quello di distruggere lo Stato, pur sapendo bene che ciò permetterà agli americani di avanzare relativamente indisturbati. A questo punto, dotatisi dei propri organismi di forza, la rivoluzione sociale del proletariato (non "il paese oppresso") si rivolge contro gli americani (e non solo). In ambedue i casi, non vi è alcuna lotta parallela. (…) La "lotta parallela"di cui parla l'articolo (…) può essere al massimo concepita come "critica "(non delle armi) alla borghesia per il fatto che essa non conduce una tale guerra "antimperialista" con maggior determinazione."

La relativa debolezza del proletariato e delle masse sfruttate iraniane, testimoniata dall'inesistenza di un proprio partito di classe, ha permesso al khomeinismo di tenere alto il vessillo del proprio "anti-imperialismo reazionario" (secondo una esatta definizione del PC d'Iran). Un "antimperialismo reazionario", di cui si devono saper cogliere contestualmente le due componenti, sì da non nascondere neppure per un attimo il carattere antiproletario del regime khomeinista e la sua solo fittizia "intransigenza" nella "guerra al Grande Satana", ma sì, anche, da non dimenticare che l'istanza anti-imperialista è ben viva nelle ragioni oggettive dello sviluppo bloccato del capitalismo dipendente iraniano e in quelle soggettive delle masse doppiamente oppresse dal peso del sottosviluppo e dell'ipersviluppo capitalista.

Questa debolezza è "a tutto campo": tanto sul piano della lotta sociale interna che su quello della lotta anti-imperialista, con cui la prima fa un inestricabile tutt'uno. Non la si sana chiamando il proletariato e le masse sfruttate ad occuparsi unicamente della "pura" lotta sociale contro il regime di Khomeini, ma facendo ad esse assumere le proprie ragioni, la propria indipendenza programmatica ed organizzativa, politica, su tutto il fronte.

L'aggressione irakena, strettamente funzionale al gioco imperialista, è valsa a sancire la vittoria del khomeinismo attraverso un ulteriore spostamento dei rapporti di forza sociali e politici. In quella situazione compito del disfattismo di classe sarebbe stato saldare la guerra civile interna alla sua prosecuzione oltre i confini nazionali, contro l'aggressione irakena e il suo retroterra imperialista, in direzione dei fratelli di classe dell'area, chiamati a fraternizzare con la rivoluzione sociale. Disfattismo, dunque, ieri come oggi, non per ritrarsi dal terreno della lotta anti-imperialista, ma per prepararne i migliori coefficienti di successo. Contro Khomeini, ieri come oggi, sapendo (e lavorando di conseguenza) che lottare contro il khomeinismo richiama la lotta contro l'imperialismo. La "doppia oppressione" non si batte a spizzichi, "per tappe" (prima "a Teheran", poi… a Washington), ma globalmente, altrimenti cade la stessa prospettiva della "rivoluzione iraniana" (come non ci siamo mai stancati di dire ai compagni del PCd'Iran, spiegando che l'internazionalismo proletario non è un "dopo", un "a parte", un'opzione ideale, ma l'intrinseca ragion d'essere della rivoluzione "dovunque essa cominci").

Un forte partito comunista non avrebbe semplicemente "rifiutato" il terreno dello scontro interstatale della guerra Iran-Iraq "in quanto tale", ma vi sarebbe entrato facendovi esplodere l'autentica sostanza sociale da esso nascosta e deviata. Vi sarebbe entrato coi SUOI metodi, non delegando la condotta della guerra al khomeinismo, ma mettendola a profitto per rovesciare il regime e, su questa base, lanciando agli sfruttati irakeni e allo stesso proletariato delle metropoli imperialiste un autentico messaggio di fraternizzazione. Fraternizzazione, cioè: non la "pace" tra gli stati, ma la comune "guerra santa" di classe dentro tutti gli stati del capitale.

Questo "miracolo" non si è dato, né si poteva dare, principalmente per il fatto che la controrivoluzione internazionale, di cui lo stalinismo è stato l'espressione in seno al movimento proletario, ha, da un sessantennio, spezzato le forze rivoluzionarie di classe, ha separato e contrapposto i destini della sezione metropolitana del proletariato internazionale rispetto a quelli del proletariato e delle masse oppresse della periferia, ha svalutato e vilipeso il marxismo agli occhi di questa seconda sezione del nostro esercito di classe. Ma, pur compiendo questa orrenda operazione, non ha potuto annullare le ragioni inestirpabili della lotta antimperialista, con tutto quello che essa richiama (programma ed organizzazione di classe, internazionalismo).

Da qui ripartiamo. Da qui muovono le masse già oggi, vitalmente, anche se alla testa della loro lotta contro gli Scià o i Somoza e contro i grandi e i piccoli Satana delle metropoli imperialiste non ci sono già bell'e confezionati un partito bolscevico o un' … OCI, ma i Khomeini e gli Ortega.

Cosa significa una direzione proletaria della lotta anti-imperialista

"La 'lotta parallela' di cui parla l'articolo - ci obietta il compagno - può essere al massimo concepita come una 'critica' (non delle armi) alla borghesia per il fatto che essa non conduce una tale guerra con maggiore determinazione": se c'è una vera rivoluzione sociale "il fronte non si sposta sul piano della guerra fra paese imperialista e paese oppresso"

Che cosa vuol dire? Che non sparisce la lotta sociale, di classe? D'accordissimo: l'aggressione imperialista, come abbiamo ripetutamente scritto (copiando da maggiori di noi), non muta questo dato, anzi lo porta al parossismo all'interno del paese aggredito, separando ulteriormente le strade della "borghesia nazionale" e delle masse oppresse. Ma, esattamente per questo motivo, la separazione avviene non sotto il vuoto spinto del "proprio" paese, ma sul terreno di uno scontro di classe internazionale. La risposta proletaria all'imperialismo comporta non solo una "maggior determinazione", ma un mutamento sostanziale dei rapporti interni tra le classi. Non ripeteremo la citazione di Trotskij.

In questo stesso numero del giornale riportiamo materiali documentari molto precisi sulla situazione in Nicaragua. Un'occhiata ad essi può essere salutare. D'accordo che il Nicaragua non è l'Iran e Ortega non è Khomeini. Il problema, però, nella sostanza, non cambia. Anche qui abbiamo un'aggressione imperialista, anche qui abbiamo uno Stato "anti-imperialista" straccione nelle mani di classi extra ed antiproletarie. E cosa fa questo Stato, cosa fanno queste classi dinanzi all'aggressione imperialista? Patteggiano, mendicano il compromesso, si ritraggono dall'estensione del processo rivoluzionario a misura che questo fa balzare in avanscena gli oppressi, abdicano alla lotta antimperialista conseguente a misura che ispessiscono il cordone sanitario contro le autentiche espressioni rivoluzionarie delle masse oppresse (del paese e dell'intera regione) e non esiterebbero domani, pur di assicurarsi il proprio "potere sovrano" …limitato, a passare col rullo compressore, mano nella mano con la reazione borghese aperta, sopra gli sfruttati. Che diremo allora? "Disfattismo rivoluzionario"? "A Managua" (poi si vedrà… )? C'è chi, impudentemente, lo afferma in nome di una pretesa "sinistra comunista".

La nostra contraria risposta è: la conduzione della lotta anti-imperialista deve passare nelle mani degli sfruttati. Armamento delle masse. Controllo della produzione da parte delle masse. Riforma agraria "sino in fondo". Soviet dei proletari, dei lavoratori poveri, dei soldati. Nessuno spazio alla reazione borghese interna legata all'imperialismo. Guerra sociale, guerra antiimperialista! Collegamento coi movimenti rivoluzionari dell'area alla scala più immediata. Unificazione politica e militare del movimento rivoluzionario di liberazione anti-imperialista.

Tutte queste parole d'ordine si scontrano, in Iran, con la realtà di un regime "antimperialista" ineluttabilmente portato a condurre la lotta al "Grande Satana" approfondendo il solco che lo divide dagli interessi palpabili delle masse su tutta la linea, mentre - in contemporanea - il vantato furore "antisatana" sa ben stemperarsi in un accorto gioco di mediazioni e di intrallazzi con questo o quel settore imperialista e con lo stesso fulcro di esso, gli USA, e mentre, a scala iraniana, le forze economico-sociali e politiche interessate al compromesso con l'imperialismo (concluso sulle spalle delle masse) sono non solo tollerate, ma direttamente alimentate dentro il regime stesso, di cui costituiscono l'ossatura fondamentale. Sappiamo bene quanto un Khomeini da un lato proclami la "guerra santa" di tutto l'Islam e dall'altro badi bene a non attizzarla troppo, perché l'estensione di una tale guerra a paesi come il Kuwait, l'Arabia Saudita, lo stesso Iraq (come movimento che si determina principalmente dall'interno), il Libano, etc., costituirebbe non una semplice estensione del khomeinismo, ma un salto qualitativo del movimento anti-imperialista, una bomba sotto i piedi del khomeinismo stesso. È contro questa necessaria "inconseguenza" (cui fa riscontro un'alta capacità di repressione antiproletaria) che chiamiamo le masse a sollevarsi in nome di un CONSEGUENTE antiimperialismo, dentro cui sta interamente la guerra sociale. Nella realtà i rapporti di forza tra le classi si modificano contestualmente sui due fronti, interno ed "esterno", nella lotta contro la "propria" borghesia e contro l'imperialismo.

è questa una semplice "critica" disarmata? Sono forse semplici "consigli" ad una "maggior determinazione" rivolti ad altri e non alla nostra classe? O, più semplicemente, si crede che la "lotta parallela" (che non è una nostra invenzione) sia "di per se" impraticabile? In questo caso, riconosceremmo che non basta alla rivoluzione la "massima acutizzazione dello scontro di classe" determinata dall'oppressione imperialista. Tanto varrebbe, allora, dichiarare chiusura per fallimento anticipato.

Il "concreto" caso Iran

Non vi è dubbio, per noi, che tra le masse sfruttate iraniane divampi impetuosa la fiamma dell'odio anti-imperialista e che proprio questa fiamma, non essendosi ancora verificate le condizioni oggettive e soggettive di una decisiva separazione ideologica, politica e organizzativa "in seno al popolo", faccia da base di appoggio all' "antimperialismo reazionario" khomeinista. La mobilitazione bellica "popolare" non si può attribuire, stravolgendola, alla semplice costrizione repressiva da parte del regime; tanto meno la si può riconoscere come reale per qualificarla come "rozzo fanatismo", un qualcosa di proprio ad un popolo di "fanatici".

Le ragioni profonde di essa stanno tutte nel giogo imperialista che sovrasta queste masse. La "rozzezza" delle sue forme è egualmente connessa alla storia determinata da questo giogo. Siamo lontani anni luce dalla coscienza e dall'organizzazione comunista? Vada! Ma questo sano odio antiimperialista costituisce nondimeno un formidabile vettore che richiama le ragioni della rivoluzione e del comunismo e, con tutte le contraddizioni insite nel suo essere immediato, contribuisce potentemente a darvi corpo. Non solo e non tanto all'interno dell'Iran isolatamente considerato, quanto in direzione del "civile" proletariato della metropoli.

Anche l'anti-imperialismo delle masse può colorarsi di "alcuni tratti reazionari" che (est modus in rebus) spetta ai comunisti combattere. Nondimeno esso costituisce l'autentico, e non altrimenti suffragabile, lievito della nostra rivoluzione. Bordiga inneggiava alla "zagaglia barbara" della rivolta congolese, ed Engels tosi scriveva nel 1857 della "rozza" rivolta "xenofoba" dei cinesi:

"I Cinesi salgono armati sulle navi mercantili, e durante il viaggio massacrano la ciurma e i passeggeri europei. Si impadroniscono dei vascelli. Rapiscono ed uccidono qualunque straniero capiti vivo nelle loro grinfie. (…) A questa rivolta generale contro lo straniero ha portato la brigantesca politica del governo di Londra… (…) I trafficanti in civiltà, che sparano a palle infuocate contro città indifese, e aggiungono lo stupro all'assassinio, chiamino pure barbari, codardi, questi metodi; ma che importa, ai Cinesi, se essi sono gli unici efficaci? Gli Inglesi, che li considerano barbari, non possono negar loro il diritto di sfruttare i punti di vantaggio della loro barbarie. (…) Insomma, invece di gridare allo scandalo per le crudeltà dei Cinesi (come suol fare la cavalleresca stampa britannica), meglio faremmo a riconoscere che si tratta di una guerra pro aris et focis, di una GUERRA POPOLARE per la sopravvivenza della nazione cinese - con tutti i suoi pregiudizi altezzosi, la sua stupidità, la sua dotta ignoranza, la sua barbarie pedantesca, se volete, ma pur sempre una guerra popolare".

Noi, marxisti del 1988, non commetteremo l'errore (cui vorrebbe spingerci la "cavalleresca" campagna ideologica della borghesia) di rifiutare, per borghesi ragioni di etichetta, lo spirito anti-imperialista che anima le masse sfruttate iraniane, il cui messaggio rivoluzionario sta spargendosi per tutto il mondo arabo non in virtù del "fascino" personale di un Khomeini o della diffusione "religiosa" dello sciismo, ma delle ragioni materiali profonde che imperiosamente chiamano alla lotta. Nessuna concessione al khomeinismo, ma ad un patto: che la nostra delimitazione da esso assuma integralmente la spinta rivoluzionaria reale delle stesse masse oppresse ingannate dal khomeinismo, per dirigerla "conseguentemente" fino in fondo. Se non abbino avuto esitazioni nello schiaffeggiare il filokhomeinismo da ritardati del terzomondismo alla "Lotta continua" (si riveda il "Quaderno Marxista" n. 3); tanto meno ne avremo per piantare la lama della "critica" (disarmata?) del marxismo nel fianco di quelli che, coprendosi dietro la giustificazione dell' "antibarbarismo", fanno nei fatti dell'antikhomeinismo il veicolo di una lotta arcireazionaria contro l'antiimperialismo "rozzo" delle masse oppresse dell'Iran e del mondo arabo (più o meno direttamente in nome dei "valori" della borghesia imperialista metropolitana).

Organizzare la lotta anti-imperialista coi NOSTRI metodi secondo i NOSTRI obiettivi significa, in Iran - come in Nicaragua, come ovunque lo stesso problema si ponga, al di là delle specificità delle singole situazioni -, porsi dal "punto di vista" delle masse sfruttate, affrontando con adeguati programmi ed `audaci parole d'ordine" la corazza protettiva dell'ordine imperialista costituita dalla sua retroguardia interna. Non è difficile intuire cosa questo significhi in termini di rivendicazioni economiche e politiche per gli sfruttati, a garanzia di un fronte di lotta anti-imperialista largo e compatto quale solo "il popolo" può assicurare. Nelle stesse manifestazioni contro l'aggressione imperialista, anche indette dai khomeinisti, i comunisti saranno presenti, e in prima fila, a misura che queste rispondano realmente ad uno spirito ed una mobilitazione di massa per indicare alle masse stesse come il sacrosanto odio anti-imperialista abbia bisogno di obiettivi e metodi propri, incompatibili con quelli perseguiti dall' "antimperialismo reazionario". Rifiutarsi di scendere in piazza su ciò, con la scusa della delimitazione (sempre ultra-necessaria) dal khomeinismo, equivarrebbe ad una tragica beffa. Una tale delimitazione, infatti, non sarebbe rispetto al khomeinismo, ma rispetto alle masse, ed avrebbe l'effetto di rafforzare di fronte ad esse l'autorità morale degli odiati imàm quali unici, "legittimi" e, certamente, incontra stati interpreti della spinta anti-imperiali sta delle masse. (Le parole d'ordine cardine dell'iniziativa dei comunisti sono quelle più sopra indicate).

Kurdistan ed Iraq: frontiere per la rivoluzione

Quanto al Kurdistan, i comunisti iraniani ne esigeranno il pieno diritto all'autodeterminazione, continuando a difenderlo, in armi, contro gli attacchi delle armate - anche se "popolari" - iraniane. Ma si rivolgeranno a queste masse popolari additando ad esse che l'aggressione khomeinista a queste terre (così come a quelle di altre minoranze nazionali) non solo è una violazione dei diritti democratici dei kurdi, ma è un fattore di indebolimento della lotta antiimperialista (a cui il Kurdistan è interessato al pari, se non più, dell'Iran, pena la riduzione della propria autodeterminazione ad un fantasma) e, conseguentemente, un fattore di diversione contro le masse iraniane stesse. I comunisti kurdi dichiarano la propria disponibilità alla comune battaglia antimperialista; ciò necessariamente comporta che la conduzione di essa passi nelle mani delle masse contro la direzione dei mullah ed il tipo di rapporti sociali che essa sottintende.

Ai fratelli dell' "altra parte del fronte", agli sfruttati iracheni, sarà lanciato un appello di fraternizzazione che dica: non vogliamo continuare la carneficina reazionaria tra sfruttati; ma, proprio per mettervi fine, occorre che essa si trasformi in guerra civile. Vi chiamiamo al sollevamento rivoluzionario contro il vostro regime, retroguardia aperta dell'imperialismo. Scavalchiamo le trincee che ci dividono e portiamo risolutamente avanti questa lotta, cui siamo comunemente chiamati. Pace, subito, tra noi, perché sia guerra di classe, subito, contro l'imperialismo!

Cosa, invece, i comunisti iraniani non faranno?

Non praticheranno una guerra "del Kurdistan iraniano" separata dalla rivoluzione iraniana e dalla sua lotta anti-imperialista. Non manovreranno per guadagnarsi ("`indipendenza" di questa porzione di Kurdistan muovendosi tra le pieghe del conflitto statale Iran-Iraq e magari mettendo a profitto la "buona disponibilità" di Baghdad ad incoraggiare la lotta antikhomeinista pro domo sua (e dell'imperialismo). Ove mai potesse nascere da manovre del genere un "mezzo Kurdistan", subirebbe fatalmente, sotto la veste dell'indipendenza formale, una triplice oppressione: quella dell'imperialismo, quella dei padrini e ricattatori di Baghdad (e dei ritorni offensivi di Teheran), quella delle borghesie e delle classi reazionarie interne; costituirebbe un ostacolo allo sviluppo della rivoluzione nell'area; concorrerebbe a rendere diviso e ricattato lo stesso insieme del popolo kurdo, il cui stesso "Risorgimento" borghese richiederebbe quanto meno la conquista della propria unità al di là dei confini statali entro i quali è attualmente diviso.

Non condurranno, i comunisti iraniani, la lotta a Khomeini sotto l'ombrello di Baghdad né sotto quello dei paesi imperialisti "democratici", interessati a ridimensionare la "rivoluzione islamica" non per quello che essa ha di reazionario, ma per quel che, comunque, essa rappresenta di eversivo per il proprio ordine costituito, in quanto, cioè, mobilitazione popolare anti-imperialista che neppure la tutela reazionaria dei mullah riesce a rendere innocua "fino in fondo". Gli "anti-khomeinisti" della specie mujahedin del popolo, Tudeh e genia del genere, in quanto fautori di una ritrovata "democrazia" garantita dalla finanza e dalle cannoniere imperialiste, vanno denunciati come mille volte peggiori del popolano "fanatico" che, se anche crede in Khomeini, non è più disposto a svendere il "proprio paese" all'imperialismo per il piatto di lenticchie che una tale svendita può assicurare alla "propria" borghesia ultradipendente.

Collegare "i più elementari e vitali interessi" del popolo sfruttato alla lotta antiimperialista non è certamente facile, ma altra via non c'è neppure per concretamente sollevare le masse sul terreno delle più "semplici" rivendicazioni immediate. Escludere l'orizzonte anti-imperialista da quest'ultime lotte equivale ad una forma di "economicismo" destinata a fare poca strada. Dal '79 gli sfruttati iraniani, chiedendo la testa dello Scià, hanno mirato alla testa dell'imperialismo. Essi sapranno esigere anche quella dei Khomeini solo se quella mira in alto sarà rispettata e garantita.

Questo il compito dei comunisti iraniani, così com'è nostro compito, di proletari delle metropoli, strapparci di dosso ogni vincolo di "solidarietà" con il "nostro" "democratico" imperialismo in cambio di miserabili briciole: se tanto potrà darsi, saranno abbreviate le doglie del parto della rivoluzione proletaria in Iran e nel mondo intero.