Dossier Nicaragua

SANDINISMO E RIVOLUZIONE AL BIVIO


I recenti accordi di Esquipulas per la "pace di Centroamerica" saranno in grado di offrire una "boccata d'ossigeno" al Nicaragua? Ma, soprattutto, potranno offrirla alla causa della liberazione rivoluzionaria, in Nicaragua e in tutto il Centroamerica? In realtà, il "compromesso" siglato ad Esquipulas, ben lungi dal portare la "pace" nell'area, rende più stretti e drammatici i nodi dello scontro tra rivoluzione e controrivoluzione.


IL NICARAGUA 
DOPO IL COMPROMESSO DI ESQUIPULAS

Indice

Tutti coloro che hanno a cuore la sorte della lotta anti-imperialista non si sono potuti sottrarre alla domanda: qual è la sostanza degli accordi firmati ad Esquipulas?, quale la loro incidenza sui futuri destini della lotta rivoluzionaria di liberazione, del Nicaragua e di tutto il Centroamerica?

È la domanda cui ha tentato cercato di rispondere argomentatamente il collettivo che pubblica "Quetzal". Partiremo qui da tali risposte, opponendovi le nostre contro-deduzioni, non per un gusto della polemica, ma nella considerazione dell'importanza vitale che una corretta impostazione dei problemi ha per la causa rivoluzionaria cui tanto noi che i compagni di "Quetzal" ci richiamiamo, con finalità comuni e percorsi teorico-programmatici e politici diversi (che, ovviamente, diversamente incidono sulle finalità "comuni" stesse).

Successo, compromesso vincente, compromesso a rischio…

I compagni di "Quetzal" propongono in effetti non una, ma più valutazioni sul valore degli accordi. Si parte in tono trionfalistico: "Nel giro di pochi giorni vi è stato un rovesciamento della situazione politico-diplomatica. (…) Per il Nicaragua si tratta di un importante successo." Ci sia lecito dubitare di "rovesciamenti" immediati ("nel giro di pochi giorni") realizzatisi in forza di una divina provvidenza nella "situazione politico-diplomatica" che vede protagonisti imperialismo, stati borghesi, classi sociali ben definite ed entro una ben definita cornice di rapporti reciproci, rovesciabili solo attraverso un lungo processo rivoluzionario.

Il discorso si fa, in seguito, molto più cauto e sfumato: "La disponibilità nicaraguense a siglare questo accordo diplomatico ha vanificato la manovra reaganiana e ciò concede al governo di Managua una boccata d'ossigeno, nel senso che l'accordo renderebbe più difficile una diretta aggressione USA, "intervento che non solo non era mai stato escluso da Washington, ma che proprio il fallimento strategico della Contra poteva rendere di drammatica attualità". "Non vi sarebbe nulla di più sciocco", però, che adagiarsi in un'attesa passiva, delegando degli accordi nel senso auspicato da Managua o auspicabile per noi. Si tratta pur sempre di "un compromesso tra forze contrapposte, con interessi ed esigenze antagoniste"; un compromesso che "rimane utile e necessario", ma pieno di incognite e contro-indicazioni, se è vero, ad esempio, che "sul piano politico immediato uno dei limiti più evidenti dell'accordo, un prezzo forse obbligato alle contropartite positive che esso offre, è il tipo di legittimazione democratica di cui vengono investiti, e da cui escono rafforzati, regimi come quello guatemalteco di Cerezo o quello costaricano di Arias", per tacere di quello di Duarte. (E siamo ad una prima contraddizione fondamentale: il successo "condizionato" di una rivoluzione pagato col successo - quanto altrettanto condizionato? - della controrivoluzione in tutti gli altri paesi dell'area, quasi che le due cose potessero marciare di pari passo, senza dover metter capo, "alla distanza" almeno, alla "scelta" tra loro unificazione rivoluzionaria, o controrivoluzionaria, su tutto il fronte). Per concludere: "Una prova difficile", "un compromesso tattico" da "non assumere come proprio orizzonte strategico". E su questo, in linea di principio, potremmo anche starci.

Ma prima di decidere se e come il "compromesso tattico" possa essere finalizzato ad un disegno strategico rivoluzionario occorrerà considerare come "forze contrapposte, con interessi ed esigenze antagoniste" abbiamo potuto, non casualmente, attraverso insondabili "rovesciamenti" politicodiplomatici determinatisi "nel giro di pochi giorni", cercare e trovare la via di un accordo "comune" da cui ognuna verosimilmente cerca di trarre un proprio particolare vantaggio tattico e strategico. Perché, insomma, Esquipulas non appartiene al regno dei misteri, ma a quello della concreta, determinata storia dei conflitti di classi, stati e sistemi sociali di cui sopra.

"Le Monde Diplomatique", con la consueta precisione, ha messo in chiaro le condizioni che oggi hanno permesso di giungere ad un accordo che stava in una logica presente da lunga pezza: è indubitabile che queste condizioni risiedono nella contemporanea debolezza in cui sono venute a trovarsi tanto l'amministrazione Reagan che la rivoluzione nicaraguegna, come bene argomenta la rivista francese. La riscossa democratica, tanto al Senato che alla Camera USA, la tormenta finanziaria ed economica del paese, i riflessi negativi dell'affaire Irangate, l'impegno nel Golfo Persico, la delegittimazione della Contra etc. etc. sono altrettanti fattori che "non autorizzano il governo USA ad aprire un secondo fronte" (anche ammesso - ciò su cui siamo sempre stati scettici – che un intervento diretto in Nicaragua fosse tra le opzioni immediate di Reagan). D'altra parte, il Nicaragua soffre di "un vero e proprio caos economico", in buona parte frutto del boicottaggio e della pressione militare USA, via contras, ma non esclusivamente riducibile a tali fattori, pesando piuttosto su di esso - questo lo aggiungiamo noi - l'incapacità del sandinismo di svincolarsi dalla struttura di dipendenza dall'imperialismo del paese (problema che nessuna "terza via" potrebbe mai risolvere, neppur se perseguita "sino in fondo", e la riproduzione, su questa base, di tutte le classiche stimmate dell'anarchia connessa al modo di produzione capitalista). "La penuria di ogni tipo - mentre l'inflazione raggiungerà quest'anno il 1000% - rafforza il malcontento della popolazione", il regime di stato d'assedio vi risponde rafforzando l'apparato repressivo (con un accresciuto numero di prigionieri politici: 6000 circa, contras a parte) sicché "l'immagine della rivoluzione sandinista non cessa di degradarsi".

E strano il modo in cui "Quetzal", nel cercare i motivi che hanno predisposto agli accordi di Esquipulas, tiri in ballo "la crisi economica e politica di tutti i regimi centroamericani più o meno legati agli Stati Uniti; crisi che li spinge a vedere con angoscia crescente per la propria stabilità l'acutizzarsi dello scontro tra imperialismo da una parte e rivoluzione centroamericana dall'altra" e la crisi dell'establishment reaganiano, che spingerebbe settori rilevanti della borghesia USA "a muoversi, anche per ragioni elettorali, se non con una politica alternativa, almeno con proposte e ipotesi concorrenziali e condizionanti rispetto all'amministrazione Reagan." Nel primo caso bisogna coerentemente riconoscere che i regimi più o meno dipendenti dagli USA sono andati all'accordo per difendere la propria stabilità contro la prospettiva, a giusto titolo angosciante, di una autentica rivoluzione centroamericana, ciò che sposta non di poco l'ottica Il managuense" con cui "Quetzal" si dà a considerare la sostanza dell'accordo stesso. Nel secondo caso, resta da stabilire, fuor di ogni perifrasi, in che relazione stiano le "proposte e ipotesi concorrenziali e condizionanti" di un settore dell'imperialismo USA con la causa della rivoluzione centroamericana.

Se non si vuol far credere alla favola dei democratici "buoni" o che, magari per motivi "anche elettorali", lasciano comunque aperto uno spazio alla rivoluzione anti-imperialista nel "patio di casa", si deve arrivare alla conclusione che da parte dei settori imperialisti (o no?) USA rappresentati dai democratici si può mirare sì ad una "diversa" politica di rapporti con Centroamerica che inglobi gli accordi di Esquipulas in funzione strettamente ed esclusivamente controrivoluzionaria. L'imperialismo non lascia improvvidamente spazi vuoti che possano essere colmati dalla nostra rivoluzione giocando sulla sbadataggine dell'avversario.

In entrambi i casi, si torna al punto di partenza: Esquipulas rappresenta un compromesso tra istanze diverse e contrapposte; per sua natura si tratta, quindi, di un compromesso provvisorio, che solo lo scontro decisivo tra rivoluzione e controrivoluzione può sciogliere stabilmente.

L'indipendenza del Centroamerica: la prospettiva borghese e quella proletaria

Abbiamo detto, sommariamente, dei motivi che hanno reso possibile la firma dell'accordo. Ma la questione fondamentale è: cos'è che bussava da tempo a questa porta perché essa si aprisse? La risposta è in quanto lo stesso "Quetzal" scriveva: la ricerca di una propria stabilità da parte delle borghesie centroamericane strette tra l'incudine dell'imperialismo e il martello della sollevazione rivoluzionaria delle classi popolari. Nella politica dei gruppi di Contadora e d' "appoggio" non v'è altra preoccupazione al di fuori di questa, perfettamente controrivoluzionaria, come anche i compagni di "Quetzal" vorranno ammettere.

E il Nicaragua, allora? In Nicaragua c'è stata, noi diciamo (e non da oggi, ma sin dall'apparire del "Che Fare") una vera rivoluzione, pur entro, i limiti di una direzione piccolo-borghese, per sua natura "inconseguente" (giudizio non morale, ma politico, basato su tutta l'analisi dell'imperialismo e della lotta di classe contro di esso, come chi ha sicuramente letto Trotzkij ben saprà). In che cosa, allora, e perché un Ortega può trovarsi assieme ad un Arias o ad un Duarte?

Proprio nel fatto che anche il sandinismo si sente stretto tra imperialismo e rivoluzione anti-imperialista "sino in fondo" e cerca di dar stabilità al proprio regime cercando di evitare l'un e l'altro scoglio, per esso fatale.

Il regime fondato sull'eroica sollevazione anti-Somoza, di cui sono state protagoniste indiscusse le masse popolari, non ha, certamente, in cuore il ripristino delle condizioni quo ante, dopo averle gettate nella spazzatura della storia; ma, contemporaneamente, esso né può né sa andar oltre un livello di "indipendenza" formale dall'imperialismo che si traduce, in realtà, in contrattazione con esso per patti "migliori" di semi-dipendenza sostanziale. Perché? Per un ragionato calcolo di svendita della rivoluzione? No, semplicemente perché quella rivoluzione, condotta "sino in fondo", significherebbe il venir meno delle stesse basi economiche e sociali su cui il sandinismo si fonda. Che i sandinisti non siano i rappresentanti del proletariato rivoluzionario, cioè dei marxisti, è un dato facilmente ammesso dai gesuiti di "Civiltà Cattolica", pur non teneri con essi; solo dei terzomondisti superficialmente verniciati da marxisti possono pretendere il contrario onde attribuire al sandinismo caratteri e compiti non suoi (o, per meglio dire, per togliere in anticipo al partito marxista ed al proletariato ciò che ad essi ed essi soli compete).

Se teniamo fissi questi dati - che in nessun modo significano "svalutare" o "diffamare" la rivoluzione nicaraguegna, come ci verrà imputato da certuni, ma esattamente il contrario -, comprenderemo cosa realmente ha spinto agli accordi di Esquipulas e quanto da esso può derivarcene.

Il cemento comune che lega un Ortega ad un Arias e persino ad un Duarte sta nel fatto che, come nota "Le Monde Diplomatique", i paesi dell'America Latina "sono oggi alla ricerca di soluzioni politiche proprie" e "non accettano più tanto facilmente, sulle questioni che concernono il subcontinente, il buonvolere di Washington." Tutti questi paesi, al di là delle profonde differenze esistenti tra essi, sono "comunemente" interessati a stabilire compromessi reciproci tra loro in vista di una più favorevole ricontrattazione dei propri spazi e della propria stabilità borghese con l'imperialismo USA, in ciò incoraggiati attivamente dai settori di punta dell'imperialismo europeo, Italia non ultima. All'occorrenza, lo stesso potenziale rivoluzionario delle masse sfruttate può essere utilizzato allo scopo, sempre che esso non esploda contro i rispettivi regimi o, come nel caso del Nicaragua, non continui "pericolosamente" la "rivoluzione in permanenza" oltre la linea di sbarramento fissata dalla direzione piccolo-borghese della rivoluzione.

Stiamo bene attenti a non concludere da ciò che nulla di ciò che avviene, anche al tavolo delle trattative interstatali, ci riguardi o vada semplicemente catalogato nell'indistinto delle "manovre controrivoluzionarie". In realtà, dietro questa spinta di borghesie e di stati c'è un dato oggettivamente rivoluzionario di prim'ordine. Se, paradossalmente, è la stessa rivolta sociale degli oppressi che permette oggi (a misura che essa resta tuttora debole e frammentata) di venir recuperata dalle borghesie locali quale arma di ricontrattazione con l'imperialismo USA, è altrettanto vero che nessuna reale, stabile soluzione del problema dell'autodeterminazione nazionale" può esser contemplata nello stretto ambito di una tale politica. Che i governi della regione trovino la forza di impuntarsi (quanto timidamente!, e, nel caso di Managua, quanto procedendo a ritroso sui propri passi!), va letto come il preannunzio di una ben diversa lotta di affrancamento dall'imperialismo, i cui destini oggettivamente dovranno passare nelle mani delle masse oppresse unite dell'intera area.

L' "operazione Esquipulas" ha spostato l'asse dello scontro sociale al limite estremo dopo il quale esso non potrà esser oltre contenuto nella cornice delle manovre borghesi e statuali. Questo il risultato più "ghiotto" sancito dagli accordi di Esquipulas per la nostra prospettiva rivoluzionaria.

Il sandinismo "salva" la rivoluzione bloccandone ed invertendone il corso

I sandinisti sono andati alla trattativa ed all'accordo nella lodevole intenzione di "salvare la rivoluzione", di guadagnare ad essa una "boccata d'ossigeno" etc. etc.; solo che ci sono andati portandosi dietro la propria impostazione del problema, in connessione con quella che è la loro natura sociale e politica. Sotto quest'aspetto possono anche vantarsi di aver guadagnato "tatticamente" dei punti rispetto a Washington. Ma a che prezzo?

Al prezzo di una duplice svendita della rivoluzione avviata in Nicaragua: all'interno (a scala dei rapporti economici, politici e sociali tra le classi nazionali); all'esterno (a scala dei rapporti che la rivoluzione nicaraguegna aveva "naturalmente" stabilito col processo rivoluzionario dell'intiera regione). "Nicaragua libre" val bene una messa, si dirà; purché, invece di una messa, non si tratti di un'estrema unzione, perché - nello scontro senza confini in atto tra imperialismo ed antiimperialismo - nessuna stabilità della "rivoluzione cinti-imperialista" può immaginarsi come conseguibile "a metà strada", per mutuo patto tra gli antagonisti ed ogni rivoluzione bloccata e deviata apre fatalmente le porte alla controrivoluzione (non sempre e non necessariamente sulla punta delle baionette nemiche, come dimostra la stessa esperienza sovietica, nata ed inizialmente sviluppatasi su indefettibili basi marxiste e su un effettivo potere sovietico a differenza della rivoluzione "popolare" in Nicaragua, e per tacere ogni altra considerazione di spazi e tempo in gioco).

Il dramma di paesi come il Nicaragua oggi, sul finire del secolo, è che alla scala di un paese solo non è ipotizzabile non diciamo il socialismo, ma neppure la "semplice" vittoria dell'istanza di una conseguente emancipazione nazionale dall'imperialismo. Non vi sono per essi che due alternative: o la "rivoluzione in permanenza", politicamente oltre lo stadio espresso dalle direzioni piccolo-borghesi ed oltre la camicia di forza degli angusti confini nazionali, o una provvisoria stabilizzazione reazionaria della situazione ad esclusivo vantaggio della borghesia "nazionale" semi-dipendente. Esquipulas può, dunque, ben rappresentare il preannunzio di un incendio attizzato dalle stesse borghesie locali centroamericane per i propri fini: ma ciò presuppone che sia spezzato l'intero quadro che ha presieduto alla "contrattazione".

Su quale dei due piani si pone Ortega? "Quetzal" rigira la questione in questi termini: "Di fronte alle esigenze di concretizzazione dell'accordo di Città del Guatemala la direzione sandinista si trova di fronte ad una prova difficile: quella di rendere compatibile la manovra diplomatica dello Stato che essa dirige con un orientamento di partito, il FSNL, sull'accordo stesso e sulla natura dei governi con cui è stato stipulato, che non si appiattisca semplicemente su queste esigenze statuali difensive, ma che salvaguardi e mantenga il proprio incondizionato sostegno - nelle forme possibili (forme e "compatibilità" su cui prudentemente si tace, n.) - alle prospettive della rivoluzione centroamericana e quindi alle organizzazioni e ai movimenti che continuano a battersi negli altri Paesi".

Perfetto. Poche osservazioni. "Forse" non si tratta di un problema che appartenga di diritto alla "direzione sandinista" (promossa sul campo ad unica depositaria della rivoluzione), bensì di un problema delle masse rivoluzionarie e del partito comunista in cui esse devono costituirsi in quanto classe. "Forse" l'appoggio "incondizionato" nelle… condizionatissime "forme possibili" ai movimenti rivoluzionari "esterni" è in relazione diretta con la prosecuzione del processo rivoluzionario all'interno stesso del Nicaragua - ciò che, precisamente, è messo teoricamente e praticamente in discussione dalla "direzione sandinista", partito e Stato -.

I compagni di "Quetzal" sono ricorsi, senza dubbio, all'esempio di Brest Litowsk. Solo che i "soggetti" cui essi si riferiscono non sono gli stessi di Lenin e diverse ne sono le conseguenze.

Brest Litowks = Esquipulas? I conti non tornano

Nessun rivoluzionario potrebbe opporsi in linea di principio ai compromessi, anche i più pesanti, quando siano necessari a salvare la rivoluzione. La polemica su Brest Litowsk tra i bolscevichi non riguardò il "principio" del compromesso, ma la validità o meno di quel dato compromesso per le sorti ulteriori della rivoluzione. Il problema va, oggi, posto allo stesso modo e noi non esiteremmo un attimo a schierarci con Ortega come "più leninista" dei suoi critici (quali il MAP) ove il compromesso da egli siglato avesse realmente il valore di "salvare la rivoluzione" (e diciamo rivoluzione senza pretendere di aggiungerci "proletaria"). Ma è davvero così?

Con Brest Litowsk i bolscevichi proclamavano: come stato rivoluzionario siamo costretti a firmare un trattato "estremamente duro e umiliante", date la nostra debolezza attuale e "la necessità di sfruttare qualsiasi, anche minima, possibilità di tregua prima che l'imperialismo scateni l'offensiva contro la Repubblica socialista sovietica"; non è la "pace", non è la "stabilizzazione", perché l'offensiva imperialista è "storicamente inevitabile" nell' "attuale periodo che segna l'inizio dell'èra della rivoluzione socialista"; compito nostro, compito del proletariato d'avanguardia è approfittare della tregua concessaci "per creare dappertutto organizzazioni di massa vigorosamente unite da un'unica ferrea volontà" di fronte agli inevitabili attacchi dell'imperialismo; ciò comporterà un ulteriore approfondimento della rivoluzione all'interno, con l'eliminazione di tutte le quinte colonne controrivoluzionarie; "la più sicura garanzia che la rivoluzione socialista, vittoriosa in Russia, possa consolidarsi è solo la sua trasformazione in rivoluzione operaia internazionale"; è "dal punto di vista degli interessi della rivoluzione internazionale, dato il rapporto di forze attualmente esistente in campo mondiale, che il passo compiuto dal potere dei soviet era inevitabile e necessario."

C'è qualche differenza con l'Esquipulas sandinista?

Non "qualcosa", ma tutto vi è diversamente impostato.

Ortega vanta gli accordi come una "vittoria" (non di breve respiro, e neppure soltanto tattica). Fa degli altri governi firmatari dei cooperatori e garanti possibili di questa "vittoria", se solo gli accordi siglati saranno "bilateralmente" rispettati. L'obiettivo strategico perseguito non è, neppur verbalmente, la rivoluzione nell'area contro lo "storicamente inevitabile" attacco dell'imperialismo, ma "la pace in Centroamerica". In nome di essa ci si impegna, "unilateralmente" se occorre, alla rifondazione dell' "unità nazionale", chiamando i controrivoluzionari a entrare a farvi parte ("Contras, il Nicaragua ha bisogno anche di voi"). Questo sul fronte politico armato. Su quello economico, sociale e politico ("disarmato"?) dell'interno si procede allo stesso modo: tutte le libertà siano garantite ai borghesi "riconciliati", da quella di parola e di stampa a quella di proprietà e profitti (mai smantellata e neppure intaccata decisamente). Quanto alla rivoluzione cinti-imperialista, il Nicaragua si impegna al… disimpegno, avendola "compiuta" in casa propria ed altro non chiedendo che di gestire pacificamente i frutti, mentre attribuisce riconoscimenti di legittimità rappresentativa ai cofirmatari di Esquipulas (Arias, Duarte… ).

Gli "atti distensivi" dei sandinisti, esaltati quale prova di buona volontà, non significano "solo" concessioni ai controrivoluzionari: a misura che queste implicano obiettivamente spazi di potere in ogni campo (da quello della "libera opinione" a quello degli ingranaggi economici), esse vanno a colpire direttamente gli interessi vitali delle masse sfruttate. Il proprietario industriale o terriero, bene ammanicato con gli USA, sollecitato a riprendere il posto che "legittimamente" gli compete nel Nicaragua "libero e pacifico", lavorerà a smantellare i diritti che le masse sfruttate si erano conquistate, dalla fabbrica o dai campi, su su, sino ad arrivare alle istituzioni statali poste a difesa dell'ordine (ri)costituito. "Radio Cattolica" non si accontenterà di far sentire la sua voce accanto alle altre, ma, com'è logico, la userà per mettere a tacere la voce della "chiesa del popolo", ingenua ma sincera espressione, a livello popolare, di un processo di distacco dalla politica vaticana usando le "provvidenziali" riserve in dollari di cui dispone per corrompere settori interi del gregge affamato. Giuristi e brasseurs d'affaires, giornalisti ed ex-scherani della controrivoluzione riverginati, consiglieri economici e militari venuti a far da ponte tra "Nicaragua libre" ed imperialismo, tutto questo arsenale controrivoluzionario, già precedentemente sfiorato appena dall' "epurazione rivoluzionaria", getterà sul paese tutto il suo peso ideologico ed economico di cui può disporre per "democraticamente convincere" le masse popolari dell'opportunità di un buon ritorno all'ordine (non somozista, dio ne scampi!) contro gli "eccessi" del sandinismo eroico e i "suoi deleteri effetti". Potrà anche mantenere in parte le sue promesse di "risanamento" della situazione economica, offrendo, in cambio della completa normalizzazione controrivoluzionaria, degli immediati vantaggi alle masse povere (e dio solo sa quanto un semplice piatto di carne ed un vestito da nulla possano pesare nella situazione attuale di indigenza estrema che il Nicaragua rivoluzionario è costretto a vivere!).

Che farà il potere sandinista? Dopo aver spalancato le porte alla controrivoluzione - e quella "non in armi" è la più pericolosa! -, tornerà a richiuderle… a metà? Oppure, dovrà farsi garante, in nome della "normalizzazione" per "salvare il paese" e la sua "indipendenza", del "nuovo corso", indirizzando la forza di cui dispone contro ogni "pericolosa" manifestazione di "radicalismo" da parte degli sfruttati?

Non inganni, a questo proposito, la relativa tolleranza dimostrata sin qui dal sandinismo rispetto all'opposizione classista. Essa ha corrisposto, e non senza controtendenze rilevanti, ad un fase di effervescenza rivoluzionaria che direttamente sconsigliava i regolamenti di conti all'interno dell' "unitario campo della rivoluzione". Ma che accadrà, una volta imboccata la via del Termidoro? Per quel che ci compete, non aspetteremo di dover verificare post festum - se disgraziatamente dovesse imporsi la linea termidoriana - per prender posizione. Le premesse di ciò sono già oggi drammaticamente presenti. Ognuno al suo posto di battaglia!

Quanto alla proiezione esterna del "compromesso" di Esquipulas, basterà leggere il documento del Fronte di liberazione salvadoregno pubblicato su "Quetzal" per registrare l'impatto smobilitante giocato dal "nuovo corso" sandinista nell'area: bloccata la prospettiva stessa di un allargamento e di un'unificazione del processo rivoluzionario avviato in Nicaragua, il FMLN prontamente ripiega su posizioni conciliazioniste (nonostante che la lotta armata resti per forza di cose in piedi). "Il FMLN - recita la chiusa del documento - chiama i popoli d'America Latina e del Mondo, tutti i governi, le forze politiche e gli organismi internazionali che desiderano la pace a comprendere la reale situazione del nostro paese e ad esercitare pressioni sul governo degli Stati Uniti perché cessi la sua politica di escalation guerrafondaia in El Salvador e sul governo Duarte perché accetti di riprendere il processo di dialogo e negoziato e sostenga la sua partecipazione fino al raggiungimento degli accordi che portino la giusta pace che il popolo salvadoregno anela, domanda e merita." È una parola di disarmo politico e morale della rivoluzione, anche se le armi continuano a crepitare; ed è un disarmo cui è tutt'altro che estraneo il "successo" sandinista di Esquipulas. L'Internazionale socialdemocratica dei Piccoli si è fatto ambasciatore in Nicaragua, possono davvero brindare ai punti da esse segnati! Per parte sua, Mister Gorbacev ha ben dimostrato di saper usare la carta della "distensione" in Centroamerica a favore della distensione di cui l'URSS ha bisogno con l'Occidente.

Il cappio si fa più stretto attorno al collo della rivoluzione centroamericana. Più insopportabile anche, questo è certo. Ma a chi chiederemo di lavorare a spezzarlo?

Questo il quesito non fantascientifico che lanciamo ai compagni di "Quetzal".

L'accordo di "pace" e i rivoluzionari

La nostra risposta è: potranno lavorarci solo le forze sociali e politiche coscienti di non aver nulla da guadagnare dalla strada imboccata e decise ad invertirne la linea d'indirizzo.

La forza sociale delle masse sfruttate, la forza politica del partito marxista rivoluzionario.

Poco importa che le prime si riconoscano tuttora, maggioritariamente, nel sandinismo, vuoi attivamente vuoi per via di consenso passivo. Quel che importa è che, ove passi la prospettiva attuale di "pacificazione" interna, queste masse saranno costrette a divaricarsi crescentemente rispetto ad un sandinismo chiamato a svolgere il suo ruolo di garante del "nuovo ordine" costituito. Poco importa (ci si capisca!) che ancora non si possa parlare in Nicaragua di un vero e proprio partito marxista capace di dirigere il processo rivoluzionario (e, forse, non solo per i ridotti effettivi di cui gli attuali "marxisti-leninisti" locali possono disporre). Quel che importa è che suo è l'avvenire, e sin dall'inizio come partito non angustamente "nazionale". Ci si chiederà a questo punto: ma quale, allora, dovrebbe essere, sin d'ora, la posizione dei marxisti rivoluzionari di fronte agli accordi di Esquipulas? Il problema è delicatissimo. Per quel che possiamo giudicare, i compagni del MAP - se ne vedano qui i documenti essenziali - l' hanno affrontato dal giusto verso.

I rivoluzionari marxisti non partono, per far politica, da giudizi astratti e moralistici (repetita juvant!). Non si tratta di "giudicare" a questa stregua ciò che hanno fatto e fanno i sandinisti, ma l'oggettività del processo rivoluzionario e lo stato soggettivo delle masse chiamate a compierlo. Sotto quest'aspetto, due sono i dati di fatto salienti della situazione nicaraguegna. Primo: le masse sfruttate che hanno fatto la rivoluzione (un pezzo di rivoluzione, se vogliamo) si riconoscono nelle quasi totalità nel sandinismo quale rappresentante e garante di questa loro rivoluzione. Il processo di decantazione non si è ancora visibilmente avviato o, quanch'anche lo fosse, ha più prodotto disaffezione "a destra" rispetto al sandinismo perché "rivoluzionario" che incremento di energie a sinistra per il riconoscimento del sandinismo quale strumento di blocco e deviazione della rivoluzione. A queste masse combattive, che anche ridotte alla fame sentono in sé crescere più prepotente l'odio per l'imperialismo anziché il risentimento per il preteso "malgoverno" sandinista e sanno affermare: "meglio oggi - da liberi - che ieri, magari meglio nutriti, - da schiavi", a queste masse ci si deve incrollabilmente riferire per preservare il presente e il futuro della rivoluzione. In secondo luogo: è altrettanto certo che il sentimento popolare ha vissuto e vive gli accordi di Esquipulas come una garanzia di pace, o perlomeno di tregua, capace di rafforzare (grazie al respiro che la pace potrebbe dare alla riorganizzazione economica) la rivoluzione. Anche da un simile sentimento è impossibile prescindere, per quanto sia altrettanto obbligatorio per dei marxisti metterne in luce l'illusorietà e l'inconsistenza.

Non si tratterà, pertanto, di proclamare un astratto no agli accordi, ma di capire, capitalizzare, organizzare i sentimenti e le potenzialità rivoluzionarie delle masse perché non passi la liquidazione delle conquiste della rivoluzione stessa, com'è nella logica di questi accordi se lealmente "rispettati". La parola d'ordine "le strade sono nostre" esprime efficacemente questa esigenza: no al reinserimento "pacifico" della borghesia controrivoluzionaria ai posti di comando; no all'espropriazione dei diritti conquistati dagli sfruttati sul campo, ma loro estensione e rafforzamento; no alla smobilitazione, ma, al contrario, mobilitazione generale del popolo, controllo sovietico sulla produzione, armamento popolare; solo il potere popolare potrà sbarrare la strada alla reazione interna ed internazionale, solo la fraterna unione tra rivoluzione nicaraguegna e rivoluzione di tutti gli altri paesi del Centroamerica potrà garantire la vittoria contro l'imperialismo.

Quando i compagni del MAP esigono che siano le masse a decidere sovranamente sugli accordi di pace essi non affermano un astratto diritto democratico, ma la concreta necessità di mobilitarsi su obiettivi immediati e politici consoni alla causa rivoluzionaria: a questa scala decisiva i "voti" peseranno da una parte o dall'altra; e potranno pesare dalla nostra parte anche se, "contraddittoriamente", diranno sì agli accordi di pace e sì alla rivoluzione, purché questo secondo sì sia sentito e portato avanti sul serio "sino in fondo". L'essenziale è che gli accordi di pace non leghino pregiudizialmente le mani alla prosecuzione del processo rivoluzionario: impegno non delegabile ad alcuno, se non alle masse.

Che prospettive per il futuro?

Ortega ha offerto ai nemici della rivoluzione tutte le prove possibili di "buona volontà pacificatrice". Ha aperto la via del "reinserimento nella vita sociale" non solo dei contras disposti ad accettare le nuove regole del gioco, ma alle stesse guardie somoziste. Ha eletto a "mediatore le parti" proprio quell'Obando y Bravo, agente del Vaticano e della CIA, distintosi anche in Italia per la propaganda controrivoluzionaria, sponsorizzato dagli "ultras" cattolici di "Civiltà Cristiana" (un gruppo che - tanto per gradire - fa risalire tutti i mali della società presente al Risorgimento, alla Rivoluzione Francese, all'Illuminismo, al… Rinascimento). Ha sacrificato sull'altare della "pacificazione" la stessa "chiesa del popolo" e, come si diceva, uno dei due organi quotidiani pro-regime. Si è dimostrato disposto al "dialogo" con qualsiasi impresa reimportatrice e riesportatrice di capitali e con la stessa amministrazione USA "se" appena questa saprà apprezzare i passi compiuti. Basta? Basterà?

Alla scala del Nicaragua e dell'area, la risposta è negativa. Ogni cedimento della rivoluzione è sfruttato dall'imperialismo per alzare il prezzo. I contras continuano a massacrare, foraggiati più che mai da Washington, senza che nessun democratico se ne scandalizzi oltre misura, e pretendono al proprio pieno riconoscimento politico quale "controparte". D'altra parte, il "dialogo" sollecitato dalla guerriglia in El Salvador urta contro l'impossibilità di accedervi da parte dei regimi dominanti. La crisi s'incancrenisce, avvicinandosi non al punto di soluzione sollecitato da Esquipulas, ma a quello di un'ulteriore, insanabile frattura. Il delitto che imputiamo al sandinismo è di farvi arrivare le masse più disarmate (moralmente e materialmente) che prima.

È pensabile una reinversione di questo corso catastrofico, all'immediato, per la rivoluzione? Non faremo degli oroscopi. Al pari dei compagni di "Quetzal" - in questo caso - calchiamo l'accento sui doveri del proletariato metropolitano perché la questione Nicaragua e quella, più vasta, della rivoluzione centroamericana non sia dimenticata; perché la solidarietà con le masse sfruttate di questi paesi diventi motivo di mobilitazione unitaria nella lotta anticapitalista. Un compito difficile, cui nulla giovano la mancanza di chiarezza ed i contorsionismi terzomondistici, sia detto di sfuggita.

Non traiamo auspici, ma ci sia lecito, almeno, sottolineare come la lotta rivoluzionaria in Nicaragua abbia già cominciato a smuovere le acque nella metropoli USA, che attualmente fornisce il maggior numero di "disertori della propria patria" presenti in pianta stabile nel "patio di casa" di Washington ad aiutare la rivoluzione (il numero di questi "disertori" si calcola attorno alle 1700 unità) e che ha già visto sul proprio suolo significative manifestazioni di massa (fatte tutte le debite proporzioni) a favore della causa nicaraguegna. Proseguendo su questa strada, l'avanguardia marxista presente in Nicaragua non potrà che esserne rafforzata, in stretto collegamento con quella delle metropoli.

Questo è ciò cui possiamo, dobbiamo "ragionevolmente" mirare!