LAVORANDO OGGI IN URSS

qualche domanda ad un trasfertista

La domanda sovietica di importazione di strutture e tecnologie occidentali ha portato alla moltiplicazione nell'installazione e consegna di stabilimenti ex-novo "chiavi in mano". L'Italia occupa nel settore un'invidiabile posizione di privilegio (cui guarda gelosa la concorrenza, giapponese ad esempio). Ciò significa, contemporaneamente, esportazione "a termine" di lavoro italiano in URSS.

Ne parliamo con un proletario nostro connazionale (assolutamente estraneo alla nostra organizzazione, come si avrà facilmente modo di sentire).

 

D. Dove lavoravi? In quanti eravate?Cosa ci puoi dire, in generale, del tuo lavoro in URSS?

R. Lavoravo a Leningrado, per la messa in opera di un impianto metalmeccanico. Complessivamente eravamo in 800 circa sul territorio (comprendendo, cioè, non solo l'impianto in questione, ma il complesso in cui s'inseriva). Naturalmente, non eravamo tutti operai di una stessa azienda. Anzi. Le cose funzionano così: una grossa impresa (piglia la Danieli, ad esempio) acquisisce una commessa, poi provvede ai sub-appalti (nel mio caso, avevamo otto piccole imprese in subappalto). Ci sono anche delle forme di appalto per la ricerca della manodopera aggiuntiva straordinaria, visto che gli organici delle aziende interessate non sono in grado di coprire il fabbisogno e che, in ogni caso, si preferisce scovare manodopera non qualificata, flessibile, disponibile a mettersi a comando ed accettare condizioni di lavoro e salariali in grado di contenere i costi sia per il committente che per il concessionario. La gran parte dei lavoratori italiani in URSS viene reclutata in questo modo.

È difficile che un operaio in forza stabile in un'azienda italiana accetti di trasferirsi provvisoriamente in URSS, dato che le condizioni di lavoro sono troppo pesanti rispetto alle norme abituali e il soprassalario che viene offerto non compensa questa fatica aggiuntiva. Nel nostro caso, ad esempio, si lavorava 11 ore al giorno sull'arco delle sei giornate feriali, con la riserva distar disponibili anche il mattino della domenica. Fa' un po' i conti: 66 ore minime settimanali. Ma ci sono aziende che arrivano anche a tetti di 13 ore al giorno (me l'ha detto uno della Cogolo). Poi magari, dopo tre mesi di lavoro ti danno un mese di ferie, ma ci arrivi già distrutto. Anche perché le condizioni di alloggio e di alimentazione che ci sono in URSS non fanno per noi e poi, magari, perdi altro tempo per il tragitto alloggio-impianto-alloggio e non ti resta proprio neanche da respirare quasi. Io ho lavorato in molte altre parti del mondo (Africa, Medio Oriente...), ma non mi sono mai trovato così male.

 

D. I rapporti con la gente?

R. In pratica non c'è il tempo e ci sono anche poche maniere di far conoscenza. I russi ci guardano, ci osservano quasi di nascosto. Sembra che non capiscano bene chi siamo, cosa siamo venuti a fare. Inoltre, hanno paura di entrare in contatto con noi perché c'è molta sorveglianza sul territorio e in fabbrica. C'è una specie di polizia volontaria del partito, di cui fanno parte gli attivisti che vogliono fare carriera, e questi stanno bene attenti a impedire un contatto troppo stretto tra noi e i russi, anche se se non ci sarebbe niente di male in tutto questo ed anzi ci aiuterebbe a rendere più tollerabile la nostra presenza lì. D'altra parte, i burocrati, i tecnici, gli operai di livello più alto ci studiano, cioè studiano come noi si lavora, com'è organizzato il nostro lavoro, per imparare a fare altrettanto. Perché, oggi come oggi, lì va tutto a rilento, in modo confuso, con sprechi enormi. Certo, se noi lavoriamo 11 ore al giorno e lavoriamo bene, questo serve ai capi russi per dare una lezione ai propri operai, per dire ad essi che bisogna fare di più e meglio. Ho l'impressione che, a questo riguardo, ci sia una diffidenza nei nostri confronti da parte dei lavoratori russi. Probabilmente sono preoccupati che noi alziamo tempi e ritmi. Però sanno anche che noi guadagniamo moltissimo più di loro, e c'è più di qualcuno, penso, che si adatterebbe a maggiori sacrifici pur di avere soldi in più e poterli spendere. Dico poterli spendere, perché lì non trovi niente che valga veramente la pena, o devi metterti in coda o sganciare mance sottobanco a una trafila di intermediari.

Sono i più giovani che fanno tela con noi, specie le ragazze se sganci qualcosa che loro non hanno (non tanto quattrini, ma merci che mancano lì, vestiario, profumi, dischi...). C'è una forte invidia per l'Occidente, anche se tutti hanno un'aria di orgoglio per essere russi. È contraddittorio, ma è così.

 

D. Una tua impressione sul sistema sociale sovietico nel suo complesso.

R. Sai, mio padre, come il tuo, era comunista. Si parlava in casa sempre del socialismo, di Stalin. Adesso qui nessuno ne parla più. Vedendo la Russia capisco il perché. Anche lì si comincia a vedere che il socialismo così com'è non funziona. E' un socialismo troppo di stato, sembra un capitalismo, una dittatura, ma anche peggio, perché non c'è iniziativa, non c'è libertà. Si lavora poco, si mangia poco, ci si veste male. Sì, è vero, dicono che il lavoro è assicurato, che non corri il rischio di restare sul lastrico, ma tanti di loro preferirebbero anche correre questi rischi pur di potere uscire da questa situazione. Io vedrei bene che si mantenessero certe garanzie, diciamo così, che ci sono lì, ma che lo Stato non ficcasse il naso dappertutto. Comunque, ti assicuro che nessuno di noi è ritornato con la speranza che anche qui vada a finire come in Russia.

 

D. E Gorbacev? Se ne parla? Come?

R. Da quel poco che ho potuto capire, Gorbacev è molto popolare perché parla di cambiare le cose come vuole la gente, anche se poi, finora, non credo ci siano stati tanti risultati. La gente si aspetta da lui qualcosa, anche molto, non so, ma sta sempre in attesa, non partecipa. Non saprebbe nemmeno come fare a partecipare, visto come funzionano le cose lì. Può darsi che se poi i cambiamenti non vengano si demoralizzi, o si ribelli, non so, non posso giudicare. Certo che la gente è stufa di andare avanti così, anche perché comincia a sapere e vedere come vanno le cose in Occidente attraverso la televisione, certi giornali, la radio.

 

Non aggiungiamo troppi commenti al testo di questa "intervista". Che le nostre analisi e prospettive siano diverse da quelle che il nostro interlocutore ha ricavato dall'immediatezza della sua situazione è fin troppo evidente, ma crediamo, al tempo stesso, che una politica rivoluzionaria non possa prescindere dal farsi carico (in questo come in ogni altro caso) delle esperienze, dei sentimenti e delle conclusioni "politiche" che da questa immediatezza derivano.

Abbiamo parlato anche con altri "emigrati a part-time" in URSS, e sostanzialmente il registro è lo stesso: l'impatto con la realtà sovietica, sin qui coperta dall'insegna "socialista", induce ad un ancor maggior senso di "identificazione" (per critica e battagliata che sia) col "nostro" sistema di "libero mercato" (di cose, uomini ed idee). Sottoriformismo, se si vuole, con l'avvallo dei partiti "comunista" e "socialista" nostrani (il secondo, alla fin fine, più credibile del primo...).

E cosa direbbero, se li si potesse avvicinare e far parlare, i lavoratori sovietici (camionisti, in prevalenza), che vengono qui in Italia a "ritirare la merce", intimati e messi in condizione di non avere alcun contatto con i proletari locali? Sicuramente essi confermerebbero le cose dette dal nostro "intervistato".

Fallimento del socialismo, del marxismo? Allontanamento della nostra prospettiva? Al contrario: inizio d'esaurimento di false prospettive "socialiste", inizio di un contatto reale - finalmente! - tra due diverse sezioni del proletariato mondiale, omologazione capitalista ed omologazione proletaria, di converso. Solo che per arrivare all'autostrada occorrerà fare un bel pezzo di ciottolato a curve e in salita. Grave? Per noi lo era la strada precedente, più comoda, ma in senso inverso.