"Mai fermarsi alle apparenze, Watson", raccomanda Sherlock Holmes al proprio aiutante. Questo precetto, in tutto e per tutto scientifico, è basilare anche per chi intenda comprendere in che direzione si sta muovendo l'economia mondiale.

Per i capitalisti d'Occidente il momento appare aureo, tanto più se rapportato alla "grande paura" dell'ottobre '87. Ma quali sono le caratterisitche di questo presunto "miracolo economico" universale?

Una parte crescente del mondo sprofonda nella crisi

La prima, tanto per cominciare, è che non è affatto universale, ma al contrario è ben localizzato in Europa, in Giappone e negli USA, con l'appendice di quei paesi dell'Asia che dipendono dalle esportazioni verso il nord-America. In totale: meno del 20% della popolazione mondiale. Per l'America Latina e l'Africa la corsa verso il precipizio non si è arrestata, anzi per paesi di primario peso quali il Brasile ha fatto un salto in avanti (un 1000% circa d'inflazione annua!). L'insieme del Medio-Oriente e del mondo arabo è alle prese con crescenti difficoltà economico-sociali (Iran ed Iraq sono allo stremo delle forze). La Cina, che pure aveva preso un certo slancio produttivo sta venendo a trovarsi, in modo brusco, davanti alle conseguenze dei suoi propri eccessi. Infine, addirittura la Russia, e non più soltanto la Polonia e la Jugoslavia, dichiara apertamente lo stato di crisi che travalica di molto le croniche insufficienze della sua agricoltura.

Questa geografia è troppo precisa per essere casuale. Si osservi con attenzione il grafico che "la Repubblica" ha estratto da un rapporto della Banca Mondiale: l'apertura crescente della forbice tra paesi imperialisti e paesi dominanti o controllati dall'imperialismo caratterizza tutti gli anni '80. È, a sua volta, incubata nel decennio precedente e così via risalendo. Con il seguente particolare: mentre per una gran parte del dopoguerra, fin quando è durato il vero ciclo di sviluppo, il divario tra gli Stati "usurai" e tutto il resto del mondo si è ampliato (è raddoppiato) in termini relativi, negli "indimenticabili anni '80", invece, ha preso ad allargarsi in termini assoluti. E si è passati da un assai squilibrato "sviluppo del sottosviluppo" (sempre e comunque sotto il pugno di ferro del capitale finanziario, che solo le rivoluzioni "antiimperialiste" hanno saputo, entro certi limiti, contrastare) ad un vero e proprio regresso del "sottosviluppo", a rapidi passi indietro perfino di paesi considerevolmente progrediti (l'Argentina, la Jugoslavia, etc.).

Non si creda a maledizioni del tempo, della natura, della sorte. È niente altro che il risultato del progressivo esaurirsi della spinta propulsiva del ciclo post-bellico e del sopravvenire della fase di avvio di una crisi generale e storica del sistema capitalistico. I costi più pesanti di questo cambiamento del corso complessivo dell'economia mondiale sono stati scaricati, dal capitale metropolitano, sulle masse sterminate degli sfruttati dei paesi "periferici". Di indici di misurazione ce n'è quanti ne volete: l'incremento della produzione, il reddito pro-capite, il livello di indebitamento, la diffusione della fame, la ragione di scambio dei paesi dominati, il grado di agonia dell'agricoltura. Il risultato non cambia. Il sistema capitalistico mondiale, che funziona di regola, nello stadio imperialista, seguendo la legge dello "sviluppo diseguale e combinato", rafforza la combinazione tra le sue parti ed esaspera le diseguaglianze proprio quando si trova a dover far fronte alla crisi. Con il petrolio a costo zero la più ricca e torbida tra le Borse del mondo, quella di Tokio, si erge sempre più in alto sulle spalle sempre più denutrite dell'Algeria, del Messico, dell'Indonesia.

Che non si parli, perciò, di "boom" internazionale, poiché la tenuta della produzione e dei profitti è ristretta alle metropoli e poco altro.

Anche la metropoli è sempre più polarizzata

Seconda caratteristica: anche dentro il perimetro metropolitano il processo di centralizzazione del capitale in atto divide sempre più la società. La cosa è piuttosto difficile da nascondere, trattandosi di esperienza palpabile di masse. Sicché compare perfino nella statistica la più matematica e insieme la più ideologica delle "scienze sociali".

Ecco un altro importante elemento di differenza tra questa "ripresa" e quella post-bellica. Nel ciclo postbellico, per pre-condizioni strutturali profondamente diverse (anzitutto: un retroterra di enormi distruzioni belliche, una forza-lavoro dal prezzo bassissimo, un mercato mondiale "pronto" ad un'accellerata espansione), si realizzò un effettivo e prolungato corso ascendente dell'accumulazione capitalistica, da cui derivarono "durevoli vantaggi reali" per la classe operaia e molto alimento politico per il riformismo. Dall'inizio alla fine di questo permanentemente incerto "rinascimento reaganiano", invece, vi è una compressione crescente, materiale e politica, tanto sul proletariato quanto sul riformismo. Il capitale imperialista riesce a risalire un pò la china solo funzionando sempre più imperialisticamente e capitalisticamente. Cioè: sfruttando sempre più a fondo il proletariato.

C'è chi la mette in termini di ricchi e poveri. Naturalmente, la povertà si sta estendendo su entrambe le sponde dell'Atlantico e si sta anche approfondendo. E con essa l'emarginazione, la discriminazione razziale, e così via. C'è davvero, in pieno vantato "boom" il cronicizzarsi di quella che Negt ha chiamato "crisi corrosiva" di una parte non piccolissima della società. Ma, attenzione: non è un fenomeno a sè stante, è soltanto l'altra faccia dell'intensificato sfruttamento del lavoro operaio.

La spremitura della classe operaia di fabbrica a livelli prossimi ai limiti di tollerabilità è il corpo dell'iceberg; la distruzione fisica e psichica di una parte degli sfruttati, per lo più composta da giovani, ne è la punta affiorante in superficie.

C'è, sotto questo aspetto, una differenza tra gli USA e l'Europa. Negli USA è caduto soprattutto il potere di acquisto del salario; in Europa - di fronte ad una relativa tenuta di questo per la parte di classe operaia che ha cosnervato il suo posto di lavoro - è salito soprattutto il grado di intensità del lavoro. E, però, una differenza soltanto di forme della polarizzazione, o di forme prevalenti di essa. Nessuna diversità, invece, quanto al processo sociale di fondo.

Anche qui gli indicatori sono molteplici: concentrazioni e fusioni di società; accentramento del potere politico; concentrazione dei "patrimoni"; distribuzione del reddito; incremento della produttività del lavoro; tasso di disoccupazione (che nell'insieme dei paesi OCSE, dopo oltre 6 anni di ripresa non escende sotto l' l 1 %: perché?); allungamento dell'orario lavorativo medio; riduzione della spesa sociale; politiche fiscali sempre più capitalistiche (negli USA le tasse sui profitti rappresentavano, nel 1960, il 25% delle entrate statali; nel 1985 appena il 6% ed oggi anche meno); politiche antisindacali ed anti-sciopero.

L'ammissione più schietta di questa crescente separazione della società ci viene da oltre Oceano. Probabilmente perché il pericolo proletario è visto come molto remoto e, ad un tempo perché l'America si sorprende nello soprirsi così divisa da "società di classi medie" quale ha preteso di essere a lungo. Sul "Washington Post", esattamente un mese fa, il 28 dicembre, si poteva leggere: "Il divario tra ricchi e poveri (non è il nostro criterio preferito, ma accontentiamoci -n.) è il più alto degli ultimi quaranta anni: il 40% delle famiglie più ricche ha il reddito più alto e il 40% di quelle più povere ha il reddito più basso del dopoguerra".

L'attuale bassa conflittualità del proletariato metropolitano non dipende certo da una sorta di strisciante e progressiva "integrazione" materiale delle classi sfruttate resa possibile da uno sviluppo tale da garantire un certo miglioramento di condizioni per "tutte" le classi. È il prodotto di un provvisorio spostamento di forze a favore del capitalismo, raggiunto con mezzi essenzialmente coercitivi, ai quali i lavoratori hanno avuto ed hanno difficoltà a contrapporsi in modo efficace per ragioni non soltanto contingenti.

Questa sorta di "New Deal alla rovescia" ha fatto breccia, partendo dalla Casa Bianca, fin molto dentro le mura del sindacalismo riformista e delle socialdemocrazie. Perché? Non erano soliti i borghesi lamentarsi, qualche tempo fa, che un certo riformismo "spendaccione" e concessivo verso gli operai aveva fatto presa perfino negli ambienti più conservatori?

Le contraddizioni di fondo sono irrisolte

Pur così dimensionata, ci si obietterà, la tenuta della produzione e dei profitti c'è. Ed è talmente "sana" da aver resistito al crollo di borsa.

Un attimo. La "ripresa reaganiana" si è certamente prolungata oltre le nostre stesse attese; ma in virtù di quali fattori? Il suo primo momento di caduta fu alla metà dell'85, ed è stato superato, per l'essenziale, grazie alla "manna" del crollo del prezzo del petrolio. Il suo secondo momento di caduta si colloca tra la primavera e l'autunno dell'87. E qui che, sotto l'impulso del crak di Wall Street, giunto al punto del più acuto pericolo strutturale dalla fine della guerra, il sistema capitalistico ha reagito con il massimo di concentrazione e di intensità delle proprie forze. Più che di buona salute è di reattività alla malattia che si deve parlare. Gli Stati dell'Occidente hanno allargato icordoni del credito tramite politiche monetarie espansive. La recessione è stata nell'immediato tamponata, ma a patto di rimettere in moto una tendenza inflazionistica per frenare la quale già s'avviano prime misure restrittive. È davvero un "boom" assai particolare, all'insegna dell'insicurezza permanente.

Si guardi anche alla specifica natura del provvisorio recupero di profittabilità in atto e se ne avrà un'altra conferma. La sua principale leva, nel processo produttivo, è l'incremento della produttività del lavoro invece che, come nel dopoguerra, il "prolungamento della giornata lavorativa" sociale, ossia l'aumento dell'occupazione industriale. In esso ha un peso enormemente maggiore la manovra finanziaria. Si dà su un mercato mondiale che ritorna metodicamente alla stagnazione dopo brevi sussulti di espansione, invece che su un mercato mondiale in costante espansione. Si scontra con un consumo delle stesse masse lavoratrici metropolitane che è fermo, se non in regresso.

Non pare affatto che si sia messo in moto un "circolo virtuoso" tra produzione e consumo (delle masse), tale da garantire da un lato la continuità della ripresa, dall'altro la stabilità sociale. Il motore del rilancio è stato dall'inizio e rimane l'incremento della spesa bellica e l'indebitamento stellare degli USA. In fin dei conti, anche dopo il lunedì nero, i due mega-deficit americani si sono ridotti in proporzioni assai modeste. Taglio della spesa militare da parte di Washington? Reagan ha lasciato indicazioni in senso contrario. L'amministrazione Bush, ad onta del battage sulla rinuncia parziale al progetto SDI (che era avvenuta, nei fatti, già da qualche tempo), preme con maniere assai spicce sul Giappone e sull'Europa perché accrescano  le spese belliche, ovvero finanzino il complesso industriale più importante degli USA, quello militare. Il Giappone ha già dato una risposta positiva (v. riquadro) e gli Stati europei stanno "contrattando". L'Italia ha già fatto il suo: + 10% della spesa bellica nell'88. Con una battuta di pretta impronta materialista, il democristiano Woerner, segretario generale della NATO, ha affermato: "non possiamo costruire la nostra difesa su una persona e sulle sue intenzioni" (riferendosi a Gorbacev).

Infatti. Sono ben altri processi oggettivi che dettano alle massime potenze imperialiste d'Occidente, nonostante la politica di rinunce di Gorbacev, di proseguire nella corsa alle armi. La ragione di fondo è che essendosi esaurite il ciclo post-bellico e con esso la possibilità di una convivenza "pacifica" delle società multinazionali e dei rispettivi stati sul mercato mondiale, si è aperta una fase di crescenti tensioni nei vertici stessi della piramide imperialista. Il periodo post-bellico di sviluppo era stato "garantito" dalla "pax americana", dal predominio incontrastanto in Occidente (nel "Terzo Mondo" i "popoli" di Cina, Vietnam, Cuba e così via ebbero qualcosa da ridìre... a fucilate) dello "zio Sam". Quel tempo è passato. I rapporti di forza si sono modificati, e di parecchio, a sfavore degli USA. L'equilibrio intra-occidentale ed inter-imperialista è sempre meno stabile. La possibilità di una "concertazione" tra eguali è soltanto una di quelle favolette che piacciono agli eterni bambini tipo Ingrao. La realtà del capitalismo imperialista "difende" il suo potere di sfruttmaento interno ed "esterno" attrezzandosi alla Woerner.

Se la sovrapproduzione non appare affatto superata; se si è cronicizzata l'instabilità del sistema monetario internazionale; se, in campo finanziario, 1'88 è stato "l'anno dei raider" alla faccia di chi prevedeva che la febbre speculativa si sarebbe sedata; se il declino degli USA non è invertito; se - anche per il concorrente indebolimento dell'URSS - l'ordine di Jalta scricchiola come non mai; se, mentre l'intervento imperialista coordinato (in questo sì!) riesce a spegnere dei "focolai" locali, s'avvolge dentro contrasti al proprio interno sempre più acuti: non è certo arbitrario concludere che le contraddizioni di fondo del sistema capitalista rimangono irrisolte. Non solo in senso storico, ma in riferimento a questo determinato passaggio storico.

L'apertura dell'URSS è un fattore di respiro, ma non inverte il corso del capitalismo

L'accellerazione dell'"apertura" russa all'Occidente, però, sta alimentando la speranza, specie tra i riformisti (in campo padronale c'è più realismo), che una nuova era di prosperità sia, nonostante tutto, alle porte. In effetti l'Occidente incamera oggi vantaggi plurimi. Un vasto mercato si apre alle sue merci ed ai suoi capitali eccedenti. Un formidabile alleato è stato guadagnato nell'opera di soffocamento della rivoluzione anti-imperialista e nella prevenzione dei contrasti di classe in Europa.

Ma non è oro tutto quel che luce. L'URSS si apre perché la sua economia è in crisi, neppure più in stagnazione. L'accresciuta concorrenza internazionale e la sempre più ridotta riserva di sovraprofitti cui può attingere ne hanno affrettato la "confessione": per andare avanti nel suo capitalismo, l'URSS deve ristrutturarsi, chiudendo un lungo periodo storico di sfruttamento "temperato" e di relativo egualitarismo sociale, per aprire la sua vera fase imeprialista fatta di plusvalore relativo spinto al massimo grado, di maggiore composizione organica del capitale, di maggiore centralizzazione, di smantellamento del "socialismo" a pro di una dittatura borghese con meno orpelli, e perciò "democratica". Per la massa del suo proletariato, la perestrojka - che non a caso piace tanto ai grandi, medi e piccolo borghesi d'Occidente - sarà un'amara medicina. Il "segreto" dei grandi successi (non tutti reali) del gorbacevismo in "politica estera" e dei suoi grami risultati in "politica interna" è qui: si tratta di classi diverse. La borghesia monopolistica dell'Ovest se ne attende benefici a cascata. Il proletariato della Russia e dell'Est non pare avere le medesime attese. Puer robustus, sed malitiosus!

L'URSS, perciò, può assicurare alcuni grossi affari del momento in termini di vendite, ma non può mettere a disposizione il proprio proletariato alla maniera dei Mubarak, dei "democratici" brasiliani, delle Acquino, e così via. Il Martelli, che se n'intende, data "l'amicizia" con Siad Barre, ha colto la differenza: la Russia non è la Somalia. Già Imporle le "nostre" condizioni non sarà facile. Ed una pressione esagerata tesa a strappare subito il massimo delle concessioni possibili potrebbe produrre una inversione o almeno una correzione di rotta dello stesso gorbacevismo (si pensi agli zig-zag dell'"apertura" cinese), se non qualcosa di ancor più radicale.

È questione di grande importanza su cui torneremo. Una "stabilizzazione" della perestrokjha, comunque, posto che deve aggredire rapporti sociali e politici tra le classi consolidatisi nel corso di decenni, ben difficilmente potrà avere quel passo travolgente che l'Occidente, in astratto, potrebbe augurarsi. È certo, invece, che il corso discendente del capitalismo mondiale, avviato - dalle sue stesse leggi di funzionamento - ad un nuovo periodo di "crisi devastanti, guerre e rivoluzioni", non ne sarà comunque invertito.

Un altro rinvio, questo sì, è possibile. Venga. Non ci traumatizza. Anzi, può dare tempo anche al proletariato esempio di prepararsi meglio, di ritessere i difficili rapporti con i propri compagni di classe dell'Est, di maturare il proprio sostegno agli sfruttati della "periferia". Del resto: non si può far le nozze coi fichi secchi.