Le lezioni dello sciopero generale del 14 dicembre in Spagna

LA "PACE SOCIALE" HA SUBITO UNA SCOSSA: È IL PREANNUNZIO DEL VERO TERREMOTO A  VENIRE

Il primo sciopero generale in Spagna da quello "rivoluzionario" del '34. Una partecipazione massiccia, attorno al 75%, con punte del 90-100% nelle città e nei settori produttivi principali. Non sono bruscolini. Il quesito su cui s'interrogano, da parti opposte, borghesi e lavoratori è il seguente: dopo questa prova si torna "tutti a casa" oppure il conflitto sociale andrà avanti, "esasperandosi" ulteriormente?

 

Nel trarre le necessarie lezioni dallo sciopero generale del 14 dicembre occorre rifuggire dalle semplificazioni. Diciamo subito, a scanso di equivoci, che ci guardiamo bene dal mitizzare questa azione come l'immediata premessa di uno scontro di classe generalizzato o addirittura "rivoluzionario". Nonostante la sua eccezionalità, essa si colloca appena all'inizio di un processo tutt'altro che lineare, "progressivamente" e "spontaneamente" in salita. La classe operaia spagnola non rappresenta, sotto questo aspetto, un felice caso "a sé" di fronte a quella "semi-immobile" degli altri paesi della CEE. Gli sbarramenti materiali ed ideologici che essa deve abbattere costituiscono, qui come altrove, altrettanti macigni di cui è impossibile sbaraccarsi d'un tratto. Ma uri inizio c'è stato, e come!, ed esso, con tutte le contraddizioni e le debolezze che su di esso ancora gravano, va attentamente valutato.

La Spagna post-franchista (Franco ancora vivente, ma già trapassato politicamente) e poi la Spagna "socialista", hanno conosciuto un lungo periodo di relativo "boom". La rottura del semi-isolamento autarchico proprio del periodo precedente e l'integrazione nella CEE hanno impresso all'economia spagnola alti ritmi di sviluppo per tutta una prima fase, grazie, soprattutto, all'impiego di una forza-lavoro "concorrenziale" per il suo prezzo con quella dei nuovi partner. Al tempo stesso, però, quest'integrazione ha anche provocato nel paese fenomeni accelerati di sperequazione e conflitti sociali. In quanto paese che arrivava alquanto in ritardo sulla scena della CEE, esso ha potuto sì usufruire di ampi margini per il proprio sviluppo, ma a patto di portare al parossismo i processi di concentrazione e centralizzazione capitalistici ed i fenomeni di putrefazione finanziaria tipici della fase imperialista del capitalismo, senza poter, contestualmente, mettere in atto quegli ammortizzatori sociali di cui tuttora dispongono i paesi imperialisti di vecchia data, dotati di una più solida struttura economica di base e di riserve accumulate ad abundantiam nei periodi precedenti. Conseguentemente, anche gli alti indici di sviluppo, man mano che l'integrazione andava avanti, livellando e riassorbendo gli elementi "differenziali" di competitività del sistema produttivo spagnolo, sono venuti infiacchendosi, con un'inversione netta nei ritmi di crescita a partire dall'87.

Ciò spiega come la Spagna, oggi, possa considerarsi un paese "pienamente europeo", se è vero com'è vero che "trenta famiglie" ne dominano di fatto l'economia ("Repubblica", 22 dicembre '88), che le grandi fortune finanziarie ed i relativi giochi speculativi celebrano qui i loro fasti. Ma si tratta, nel contempo, di un paese che si porta dietro il peso della precedente arretratezza, che si trasmette integralmente sulle spalle della classe operaia: 2.700.000 senza-lavoro censiti (e qui le statistiche sono oltremodo truffaldine!), pari ad un 20% ufficiale della forza-lavoro nell'88 (chissà come, la "Repubblica" sopra citata la fa passare, in contraddizione con quanto da essa stessa ammesso sei giorni prima, al 5%!). Ed è una disoccupazione in primo luogo giovanile e squilibratissima tra regione e regione.

Nel frattempo, i salari, che avevano conosciuto risicatissimi tassi di crescita negli anni di "boom" e che erano stati poi legati ai bassi livelli d'inflazione previsti dal "piano", sono andati letteralmente cadendo con la ripresa vigorosa dell'inflazione. Riduzione reale del salario individuale e, a maggior titolo, riduzione della massa salariale globale (nella quale va computata la schiera dei disoccupati, dei quali -si badi bene!- solo 400.000 usufruiscono di una miseria "sovvenzione").

La protesta operaia, dal basso e dall'alto

C'era, com'è agevole vedere, abbondante materia per smuovere la protesta della classe operaia. Così è stato.

La cosa che più ha stupito i commentatori borghesi è che a "promuovere" la protesta sia stato proprio il sindacato socialista, l'UGT, con cui le Comisiones Obreras "comuniste" hanno potuto condurre unitariamente un'azione che, da soli, non sarebbero state in grado di promuovere (perlomeno a questi livelli di partecipazione di massa). Alvaro Espina, segretario generale dell'occupazione ed autore di un piano per l'occupazione che prevede il sottoimpiego  come "apprendistato" per i giovani sino a 25 anni -gli altri ne sono programmaticamente fuori in quanto "non riassorbibili" dal mercato del lavoro- con iniezione di forti sgravi fiscali per i "generosi" datori di lavoro, si è così espresso: "Uno sciopero generale, come dimostra la storia, è un'arma contundente e nessuno che non sia un frivolo (!) può utilizzarla per motivi futili (!) o semplicemente per far rumore attorno a sé." (dalla rivista spagnola "Cambio", 19 dicembre '88). Francamente speravo, ha aggiunto, che il "nostro" sindacato avesse capito che le leggi dello sviluppo capitalistico non ci concedono altra via che quella della più severa ristrutturazione e della compressione salariale e, quanto al piano d'occupazione giovanile, essa è stata fatta, e non poteva essere altrimenti, secondo i piani di rigore degli altri paesi con cui ci troviamo a competere. Giustissimo: nessun governo "socialista" del capitale può sfuggire a questa morsa obbligata, pena la perdita di competitività, ed è fin troppo facile aggiungere che, in questo quadro, la ricaduta sarebbe negativa "anche" per la "propria" classe operaia...

Il discorso è capitalisticamente logico. Solo che i motivi per cui si muovono i lavoratori non sono, per essi, futili e frivoli e se è perfettamente logico, dal punto di vista borghese, che un sindacato legato al capitale deve subordinarsi agli imperativi di esso, è altrettanto vero che persino un tal sindacato, in quanto ha da rispondere ad una classe operaia in carne ed ossa, e non solo alle ineccepibili ragioni di bilancio dell'"impresa nazionale", non può sottrarsi indefinitamente alla concreta pressione della propria base, pena il suo annullamento (con un dislocamento dello scontro sociale più in avanti, il che non sarebbe poi un bel risultato per la stessa contabilità capitalista!).

Se l'UGT ha preso in mano la protesta non è, dunque, per "frivolezza", ma in considerazione di un problema non di poco conto: conciliare gli interessi operai e quelli del capitale entro i limiti delle "compatibilità". Permettete a noi sindacalisti, si dice in sostanza, di considerare gli interessi del capitale dal punto di vista operaio, che è insopprimibile in quanto tale. Una quadratura del cerchio, alla distanza. Ma questa quadratura deve essere comunque tentata, oggi, per evitare il peggio. Persino uno sciopero generale -a condizione che esso sia guidato da un sindacato "responsabile" e contenuto entro le compatibilità del sistema - può essere un buon... investimento per il sistema.

Il leader delle Comisiones, Antonio Gutierrez, ha spiegato al meglio in che consista la "complicazione" sindacale: "L'azione sindacale non ha nulla a che vedere con la politica. In politica, posso fare grandi discorsi e disattenderli il giorno seguente e disporre di altri quattro anni prima di tornare a confrontarmi con gli elettori. In campo sindacale, il confronto si verifica il giorno dopo, collettivamente, per quel che riguarda i processi di riconversione etc."

Troppo giusto...

Può sembrare contraddittorio con il quadro che stiamo tracciando il fatto che, sulla carta, i sindacati spagnoli non sono particolarmente forti e rappresentativi, dal momento che raggruppano in sé un 10-12% appena della forza-lavoro ed a questo già scarso dato numerico corrisponde un'ancor più debole tasso di militanza politica (la "sinistra" conta, secondo le cifre di "Cambio", non più di 332.000 militanti politici -dai 200.000 del PSOE ai 14.000 dei "carrillani" od i 10.000 del PASOC-, mentre nelle stesse Comisiones, stando a Gutierrez, il 93 % degli iscritti non milita in alcun partito politico e la maggioranza vota PSOE). Se le cose stanno così, è l'argomento, ad esempio, di A. Espina, perché mai l'UGT ha voluto andar "oltre i limiti" della propria rappresentanza?

Un tale argomento vale a contrario. Un debole tasso di sindacalizzazione e di militanza politica, in paesi percorsi da forti tensioni sociali, implica uno sforzo moltiplicato da parte delle organizzazioni ufficiali del movimento operaio per prestare voce e dar rappresentanza alla massa, in quanto ogni protesta su questioni nodali, se non "rappresentata" ed incanalata a tempo, rischia di produrre pericolosi scavalcamenti "anarchici" (un analogo problema, in qualche misura, affiora anche in Francia, e non a caso in questi due paesi si è avuta da ultimo una "radicalizzazione" sindacale di un certo tipo). Ed è anche regola di una borghesia intelligente lavorare sì a ridurre il peso indipendente di un sindacato (attraverso il gioco dell'istituzionalizzazione e l'erosione della sua area di effettiva militanza), ma sino ad un certo punto e per mantenersi un "partner" non fittizio attraverso il quale stendere i propri fili verso la massa.

In conclusione: sciopero generale indetto dall'alto, addirittura dalla "longa manus" sindacale del governo, ma sotto dettatura della massa.

La classe operaia dopo lo sciopero

La stampa borghese e riformista tiene a rassicurarci che lo sciopero non intacca l'adesione del proletariato spagnolo al governo "di sinistra". La massa non è contro il governo, ha sentenziato la "Repubblica"; i suoi traguardi sono tutto sommato limitati: "Vorrebbe aumenti salariali un po' più consistenti, servizi sociali meno scassati", ma, per il resto, stia pure ben saldo Gonzales al potere. Tant'è che quest'ultimo non ha mostrato "nessun cedimento sulle questioni di sostanza, nessun allontanamento dalla linea moderata e liberista, qua e là thatcheriana, con cui il socialismo spagnolo gestisce la crescita economica del paese."

Sarà proprio così?

È vero che il proletariato spagnolo vive tuttora del ricordo sciagurato del franchismo -che lo tiene in qualche modo legato al PSOE in nome delle ritrovate "libertà democratiche"- e, per sovrappiù, delle aspettative e dei materiali vantaggi conseguiti nel corso del "boom" che sta alle sue spalle. È anche vero che nessuna sponda alternativa esso ha trovato nei partiti "comunisti" e che le condizioni oggettive, interne ed esterne, non sono state in grado di provocare salti in avanti, sulla via di una prospettiva rivoluzionaria.

L'ordine del giorno,, infatti, non è quello della rivoluzione. Ma, intanto, lo sciopero generale ha segnato soggettivamente  una rottura prodottasi nell'oggettività dei rapporti di classe che sta irrimediabilmente minando le basi del vecchio "blocco sociale".

Meno borghesemente ottimista dei portafoglisti di "Repubblica", "Cambio" si è posto degli interrogativi ed ha abbozzato delle risposte non banali: "Una distaccata (!) teorica socialdemocratica tedesca, Rosa Luxemburg, parlava degli scioperi come scuola di educazione politica delle masse. Occorre sapere che cosa avranno imparato le masse in quest'occasione". Di certo è che "la sinistra spagnola non sarà la stessa dopo lo sciopero del 14. Sei anni di unanimità socialista cementata dall'esercizio del potere si sono esauriti" ed oggi sono in gioco "due forme di concepire il programma della sinistra al governo e i compiti del sindacato nella società" ed il sindacato ha mostrato di essere "qualcosa di più che un ornamento esotico del partito."

Perfetto.

Il proletariato spagnolo ha saggiato le proprie forze e sa oggi di ciò di cui può disporre per l'affermazione dei propri interessi (limitati?; può darsi, non tanto, però, da evitare che contro di essi si rizzino i vari Gonzales, "qua e là thatcheriani"). Le sue attese nell'UGT e compari e nella "disponibilità" del governo andranno deluse? Questo è sicuro. Ma un gigante che ha cominciato a muovere i suoi primi passi non tornerà disciplinatamente a sedere. Tenendo ferma la vera conquista che esso ha oggi realizzato (la coscienza sperimentata sul campo della propria forza), esso proseguirà nel suo cammino.

Tanto ci basta, non per sognare la rivoluzione domani, ma per vederne i primi, ancor incerti, passi. I sintomi palpabili di un tale percorso consisteranno indubitabilmente dentro i confini del riformismo e della generica "sinistra", in un più reciso rifiuto della mediazione a svendere e della delega. Una cosa è certamente esclusa: che dalla scuola di guerra dello sciopero generale i proletari abbiano appreso l'arte di cedere spontaneamente le armi!