DOSSIER - Lotte operaie

"Diritti negati"

UNA CAMPAGNA CONCLUSA SUL TAVOLO DI FORMICA O DA RILANCIARE CON LA MOBILITAZIONE OPERAIA?

La campagna sui "diritti negati" avviata dal PCI è stata sentita come propria dai lavoratori ben al di là dei confini di Arese e delle fabbriche FIAT.

Le denunce che essa ha sollecitato hanno portato in luce che il "modello Romiti" è la regola, non l'eccezione. Il capitalismo... "post-moderno" si fonda più che mai sullo sfruttamento e l'oppressione del lavoro salariato.

Da parte sua, la classe operaia, chiamata in causa, ha fatto intendere di essere pronta a dire "basta" al dispotismo padronale e alla spremitura senza limiti degli anni,'80. Solo che...

 

Sul numero precedente del "Che fare", commentando la campagna intrapresa dal PCI sulla violazione dei diritti, sottolineavamo come essa avesse indiscutibilmente avuto il merito di riportare in primo piano le condizioni di vita e di lavoro degli operai in fabbrica. Improvvisamente, in questi ultimi mesi, è stata la condizione operaia in fabbrica e non i risultati della gestione aziendale, al centro dei dibattiti e dell'attenzione della cosiddetta "opinione pubblica". Più di quanto avessero mai supposto, giornali come l'Unità ed il Manifesto sono stati subissati da centinaia di lettere di denunce di questo o quel caso, mentre gli stessi giornali borghesi non hanno potuto protrarre oltre un certo limite il black-out sulla questione e vi hanno dedicato spazio e commenti. "Candidamente" un giornalista di "Repubblica" sottolineava quale era lo stato d'animo di questi prezzolati della borghesia affermando (forse un pò sconsolato, ma questo non ci è dato di saperlo) che "tutti hanno applaudito alla Fiat ed ai suoi risultati... mi sono meravigliato che diventasse notizia il comportamento verso il personale di quest'azienda".

E si! Improvvisamente sono stati tanti ad accorgersi (ed ancor di più, c'è da giurarlo lo stanno scoprendo in questi giorni in cui le fabbriche sono state paralizzate da scioperi a catena contro i decreti di DeMita) che la classe operaia, da anni marginalizzata nei commenti e negli studi dei sociologhi alla moda, era "reaparecida" ed intendeva ancora far sentire la sua voce.

Ciò che a noi interessa non è comunque ammiccare all'"opinione pubblica", tanto meno alla giornaleria nazional..ista, quanto verificare, in primo luogo, come la risposta operaia, seppur limitata, per ora, alla denuncia verbale è stata generale e tale da suscitare al suo interno una vera e propria azione corroborante rispetto alla "depressione" in cui sembrava caduta negli ultimi mesi.

In secondo luogo, al di là delle stesse intenzioni delle Botteghe oscure, gli sviluppi della campagna sui diritti hanno posto oggettivamente il problema dell'impossibilità di coniugare congiutamente gli interessi dell'azienda e quelli dei lavoratori. Ciò che si è evidenziato nel complesso della vicenda non è stato solo il dispotismo di questo o quel capo o di certi modelli di conduzione aziendale, ma la difficoltà (che sappiamo essere impossibilità) di far procedere contemporaneamente e "serenamente" sviluppo dell'azienda e difesa delle condizioni operaie in fabbrica.

Infine questa campagna (e sottolineiamo che per noi il referente su cui la misuriamo e valutiamo è la classe, come essa l'ha vissuta e di conseguenza gli effetti che potrà avere nel prosieguo della lotta di classe E NON le prospettive politiche - che devono essere demistificate e combattute - del PCI che l'ha promossa) ha avuto l'effetto di predisporre gli operai in posizione di attesa e di tensione per gli ulteriori passi, in termini di organizzazione e di lotta, per tutelare e conquistare quei diritti "violati" o, peggio "negati" .

La condizione operaia

Preso avvio dalla denuncia del "caso Molinaro", la questione dei "diritti" ha coinvolto in un primo tempo, ed innanzitutto, la Fiat. Da Arese a Pomigliano, da Rivalta a Mirafiori, da Chivasso a Termini Imerese, via via a coinvolgere tutti i vari stabilimenti, l'apertura della campagna e la stessa presenza dei commissari dell'Ispettorato del Lavoro in fabbrica diventa occasione, non solo per denunciare singoli fatti (la cronaca di questi mesi è ricca al riguardo), ma per esprimere l'opposizione e la ribellione al dispotismo di Romiti.

Tutto l'arsenale repressivo ed autoritario con cui l'azienda di Corso Marconi ha proceduto alla normalizzazione di Mirafiori e Rivalta e che sta cercando di utilizzare per "pacificare" l'Alfa, viene alla luce e denunciato pubblicamente dai lavoratori in questi mesi.

Inutile qui ritornare sugli svariati metodi di pressione, minaccia, di ricatto, sulle più smaccate violazioni dei diritti dei lavoratori, sulle vere e proprie truffe nei casi di infortunio in fabbrica, perpetrati dalla Fiat soprattutto negli ultimi 5-6 anni (ma ai tempi di Valletta la situazione non era certo migliore). Le pagine dell'Unità hanno pubblicato molte denunce in cui puntigliosamente si elencavano soprusi, ricatti, vere e proprie azioni repressive nei confronti di operai ed impiegati.

Rileviamo, invece, come, malgrado la via scelta dal PCI per denunciare tutto questo (raccolta firme, petizioni, richiesta di intervento degli Ispettorati del lavoro, senza mettere in prospettiva alcuna azione di lotta) fosse la meno mobilitante possibile, l'impatto di questa campagna nella classe ha avuto come effetto:

- negli stabilimenti (Mirafiori, Rivalta, Chivasso) dove la normalizzazione di Agnelli è stata già raggiunta da tempo, ha risollevato quei problemi di difesa dalla repressone aziendale e per il miglioramento della vita in fabbrica a cui sembrava essere stata messa definitivamente la sordina;

- ha ulteriormente rivitalizzato la resistenza all'introduzione del modello repressivo Fiat, là dove essa non si era mai sopita come all'Alfa di Arese e di Pomigliano.

Ma a misura che cresce l'attenzione verso il problema nelle grandi fabbriche abbiamo assistito ad una generalizzazione - avvenuta per impulso "dal basso" - delle denunce che ben presto investono le altre fabbriche e poi le condizioni dei lavoratori delle piccole fabbriche, dei laboratori artigiani, la condizione dei lavoratori immigrati. Insomma si scopre l'acqua calda: cioè che là dove imperano la ricerca della produttività e della profittabilità, il modello di conduzione aziendale (sia quello di Romiti che di qualche altro fesso) non può essere che di costrizione verso gli operai.

Una campagna che nei piani di Occhetto doveva essere imperniata contro il modello Romiti, quasi fosse un modello anomalo di gestione aziendale, si trasforma in un embrione di processo pubblico ai padroni in generale. Le denuncie fioccano sui tavoli dei giornali, creando, come e più che nel caso Fiat, non poco imbarazzo nei dirigenti sindacali (compresi quelli della CGIL). È infatti in questo settore, dove più alto è lo sfruttamento, che la difesa operaia ha avuto sempre maggiori difficoltà ad organizzarsi proprio per le effettive difficoltà materiali (minor peso e forza numerica) quando non psicologiche (il padroncino che lavora a contatto di gomito, una conduzione molte volte paternalistica). Ma è anche in questo settore che più si è risentito di una direzione della politica sindacale che fraziona e spezzetta il fronte proletario in termini di obiettivi e di lotte: i più deboli (questi operai delle piccole fabbriche) hanno pagato più duramente degli altri.

Così, da centinaia di piccole fabbriche, da sempre vere e proprie "zone franche" in cui i padroni hanno avuto mano libera, al di fuori di ogni controllo, piovono denuncie di situazioni paradossali, quando non drammatiche. Negli hinterland delle città dove sono spuntati come funghi centinaia e centinaia di capannoni industriali, dove non giungono quasi mezzi di trasporto pubblici, dove non esistono mense (aziendali o centralizzate), dove l'unico momento collettivo, in molte occasioni, è la partita di pallone giocata in 10 minuti prima del rientro dopo il "pranzo", per la prima volta (da anni) si coglie un interesse ed un'attenzione particolari. In molte di queste aree industriali in Emilia e Lombardia si tengono riunioni, improvvisate assemblee: si pongono, di fatto, le prime basi per una difesa collettiva ed organizzata della propria esistenza.

Si "scopre" così che non esiste solo la violazione dei "diritti dei lavoratori", ma anche chi questi "diritti" non può nemmeno esercitare perché gli sono negati dalla sua situazione. È il caso dei disoccupati, dei lavoratori immigrati, dei giovani assunti con contratto di formazione e lavoro. Eh sì!, "caro" Achille, è pur vero che il proletariato ne ha fatto di strada dalla rivoluzione francese (sempre con metodi "giacobini"), ma il "più" resta sempre da compiere!

Comunque, in pochi mesi, tutto il mondo operaio si è sentito coinvolto, si è, in un certo qual modo, sentito finalmente UNITO nella denuncia del dispotismo padronale.

La denuncia non è ancora mobilitazione (si tranquillizzino i nostri critici da "sinistra": non abbiamo intenzione di sponsorizzare in alcun modo la campagna del PCI), meno che mai lotta; resta il fatto, però, che, anche al di là dei progetti riformisti (come vedremo più avanti), la campagna sui diritti ha coinvolto la classe operaia contribuendo a rivitalizzarne ampi settori.

Interessi inconciliabili

Proprio la generalità che ha assunto la denuncia della condizione operaia in questo frangente ha posto oggettivamente le basi per andare oltre la stessa direzione di marcia impressa dal PCI a tutta la vicenda.

Facendo in marzo un bilancio della campagna, Occhetto rilanciava il tema che era stato al fondo di essa: "il controllo dei lavoratori sulle decisioni e sulle condizioni di lavoro" da rilanciare come sfida sul terreno delle scelte per "l'innovazione dell'impresa". Precisa il segretario del PCI "... la sfida sul governo dei processi di modernizzazione opponendo la tesi innovatrice di chi ipotizza più soggetti nell'impresa alle tesi conservative di chi pensa alla concentrazione delle decisioni e del comando".  Insomma una specie di "democrazia economica" che dovrebbe salvaguardare nei piani, assai empirei per la verità, di questo "nuovo corso" riformista, aziende, cioè profitti, concorrenzialità, ecc. insieme con le condizioni di lavoro degli operai. Occhetto non viene nemmeno sfiorato dal dubbio che proprio la ricerca della competività, della assillante ricerca dei "processi di modernizzazione" sia stata la causa che ha generato una serie innumerevole di attacchi al proletariato.

Solo ribaltando questa logica che vede interessi conciliabili tra azienda e lavoratori, si possono porre le basi per incidere realmente sulle condizioni di lavoro in fabbrica. Di fatto, proprio il generalizzarsi delle denuncie a tutte le situazioni di fabbrica è la migliore smentita della logica riformista. Non è questo o quel padrone, manager o capetto la causa della "centralizzazione del comando", ma è l'azienda capitalistica in quanto tale che, in una fase di acuta concorrenza sul mercato (come l'attuale) reclama una serie di "provvedimenti autoritari" nell'ambito dell'organizzazione della produzione per diminuire i costi, aumentare la produttività, evitare ogni intralcio allo svolgimento dell'attività aziendale.

Ciò che è venuto con più chiarezza alla luce è che l'interesse aziendale non può essere esercitato che con l'oppressione e lo sfruttamento del lavoratore. Può pure affannarsi la dirigenza riformista ad affermare il contrario ed a proporre un fantomatico controllo dei lavoratori sui processi industriali nelle mani dei Romiti, Lucchini o Pininfarina; nella realtà: o esso si afferma contro l'azienda capitalistica ribaltando la logica della produzione per il profitto, oppure non vi può essere che inconciliabilità tra opposti interessi di classe, da una parte quelli della borghesia e delle sue aziende, dall'altra quelli dei lavoratori.

Se non nella coscienza immediata di ogni operaio, nella realtà e nella forza oggettiva dei processi che portano dall'esperienza maturata alla coscienza delle cose, questa inconciliabilità è palese appena guardiamo alla generalità ed alla complessività delle denuncie espresse in questi mesi. Più che un nostro auspicio potrà essere realtà quella di una maggiore difficoltà, negli svolti a venire, da parte della dirigenza riformista (politica e sindacale), condizionare alle necessità aziendali la difesa dei lavoratori. Perlomeno è una significativa controtendenza alla logica che ha presieduto alla stesura degli ultimi contratti aziendali (Fiat, Olivetti) che avevano fatto dell'azienda e dei suoi successi sul mercato le variabili a cui subordinare gli aumenti salariali.

È una controtendenza su cui invitare a meditare gli operai che sono stati così puntuali e precisi a denunciare i soprusi.

Ed ora?

Già nel numero scorso denunciavamo l'inconseguenza ed anzi la deviazione di indirizzo che aveva caratterizzato la campagna dal momento che era stato alle "autorità competenti" - e non alla estensione e organizzazione della mobilitazione della classe - che ci si era rivolti per reclamare "giustizia". E questo è l'altro risvolto della vicenda. Indirizzare agli organi dello Stato la denuncia delle violazioni ha avuto come ovvia conseguenza quella di presentare ai lavoratori questi organismi come soggetti autonomi al di sopra delle parti. Che da parte delle istituzioni di uno Stato che da sempre è garante dei rapporti di produzione e di proprietà capitalistici non potesse arrivare alcuna concreta "giustizia" è aspetto da denunciare apertamente così come l'illusione di chi ha individuato in quel referente il soggetto verso cui indirizzare la "fiducia" operaia. Ma... La petizione alle autorità "competenti", a Formica, a Cossiga, le visite degli ispettori del lavoro alla Fiat, la conclusione interlocutoria dell'inchiesta ministeriale, non hanno però portato finora a nessun risultato tangibile.  Non saranno certo gli auspicati (e per ora incompiuti) "atti riparatori" a mettere la sordina al problema che è, lo ripetiamo per l'ennesima volta, quello dello sfruttamento dei lavoro salariato. Certo la massa degli operai finora si è limitata alla denuncia senza passare a forme più concrete di organizzazione e lotta contro la repressione e la tracotanza padronale, ma il coperchio è stato sollevato e non sarà più possibile accantonare la questione.

Riprendere con vigore in mano la difesa reale dall'autoritarismo padronale, spingere a fondo la denuncia di esso, significa in primo luogo difendere l'organizzazione operaia in fabbrica come condizione per passare poi alla difesa dei propri interessi di classe.

In secondo luogo, la difesa dei diritti dei lavoratori deve passare per la messa al centro delle rivendicazioni sulla condizione operaia in fabbrica ed il suo miglioramento, con la consapevolezza che non esistono interessi comuni tra azienda e lavoratori.

In terzo luogo, non può esistere nessun diritto dei lavoratori se essi non sono messi, nella loro globalità, nelle condizioni di essere uguali, cioè uniti, di fronte ai padroni. Ciò richiama l'urgenza di dare una seria risposta alle necessità di centinaia di migliaia di lavoratori delle piccole e medie aziende, di uscire dall'isolamento in cui una politica sindacale tendente alla settorializzazione ed allo sminuzzamento delle lotte, li ha gettati. Ricercare il collegamento, innanzitutto organizzativo, tra lavoratori delle grandi e delle piccole fabbriche è il primo passo da compiere per porre le basi per la tutela effettiva dei diritti di tutti i lavoratori.

Infine, ogni effettiva difesa dell'organizzazione e delle condizioni di vita e di lavoro degli operai non può essere efficace se non comporta la presa in carico della difesa dei settori più deboli e più sfruttati della propria classe, come i giovani in contratto di formazione-lavoro e gli immigrati.

Insomma, la via della difesa dei "diritti operai" è la via della ripresa del movimento di classe; ed allora sia la benvenuta anche la "campagna sui diritti violati".