DOSSIER - Lotte operaie

 

PORTI: 2o ATTO

 

Dimezzare il ruolo e l'organico delle compagnie dei portuali, piegandole nel contempo interamente alla logica del profitto, per lasciare mano libera, nei porti, ai pescecani dell'armatoria privata: questo il dell'attacco sferrato dal governo De Mita con il decreto Prandini.

Nonostante la gravissima dissociazione dai lavoratori delle confederazioni  sindacali, la risposta di lotta dei  portuali è stata forte. Rimane ancora da superare, però, l'illusione di poter "salvare il salvabile" con le trattati ve locali invece che con il potenziamento del fronte unitario dei porti.

Due anni fa ci provò D'Alessandro, ma il suo attacco frontale alla Compagnia dei portuali di Genova non ottenne, per la risoluta resistenza dei lavoratori, i risultati che il Governo e gli armatori si erano prefissi. Ora è stato Prandini, ministro della marina mercantile, a sferrare un attacco ancor più duro del precedente, avendo per bersaglio non solo la compagnia genovese, ma tutti i lavoratori portuali e per obiettivo la ristrutturazione di tutta la movimentazione delle merci nei porti.

I decreti "della Befana" del ministro, relativi all'organizzazione del lavoro dei porti, hanno cancellato, di fatto, la gestione dello scarico merci attuata finora dalle CULMV. In base ad essi la garanzia dei lavoro e del salario spetterebbe ai lavoratori delle compagnie solo per "lavori a stiva" (cioè a bordo nave e sulla banchina), mentre per tutta la restante movimentazione delle merci (da banchina a magazzino o viceversa, gestione amministrativa, ecc.) gli armatori potrebbero ricorrere all'utilizzo di manodopera "di loro gradimento". In altri termini il principio ispiratore di cui il ministro si fa interprete è quello di aprire alla gestione privata perché (come sintetizza bene la dichiarazione di un armatore) "deve essere il mercato, la concorrenza, a decidere quali siano le imprese che devono operare negli scali".

Così i porti diventano il banco di prova, il primo bersaglio, per quella privatizzazione dei servizi che avanza a spron battuto, sull'onda lunga della "filosofia" thatcheriana e reaganiana, e che ha nel piano presentato da Schimberni per la ristrutturazione delle Ferrovie un altro polo assai significativo. Insomma, il profitto deve ritornare ad essere la misura dell'efficienza dei servizi pubblici, poco importa ai borghesi se questo comporterà maggior sfruttamento dei lavoratori, prezzi più alti, magari il ritorno nei porti a forme di caporalato.

In questi ultimi, a fronte di una concorrenza internazionale sempre più accentuata, il progetto di ristrutturazione degli scali non può che scontrarsi col ruolo fin qui svolto dalle Compagnie dei portuali. Per gli armatori si tratta di poter disporre di manodopera portuale fissa, alle proprie dipendenze, utilizzabile con la massima flessibilità. In un incontro tra questi "pescecani", affermava significativamente uno di loro: "una volta per caricare e scaricare container mi ci volevano 60 uomini, ora ne impiego esattamente la metà e produco di più... Il problema vero è che ora posso lavorare con i miei uomini, che sono sempre gli stessi, mentre prima un giorno arrivava uno e un giorno l'altro a seconda delle decisioni della compagnia; pensi alla Fiat: come farebbe a raggiungere quei profitti se ogni giorno gli cambiassero capisquadra ed operai... La compagnia, l'autogestione dei lavoro? Tutte cose affascinanti che cozzano, però, contro il profitto."

Più chiaro di così! Ecco precisamente sintetizzati i termini dello scontro che ha infiammato i porti di tutt'Italia: la riduzione degli addetti, la massima flessibilità diventano aspetti che vanno oltre la politica di riduzione dei costi per investire il problema della forza e dell'organizzazione stessa dei lavoratori nei porti.

È giunto il momento, dicono governo e padroni, in cui la permanenza di una struttura operaia che non solo organizza, lavoratori ma gestisce un settore della produzione è incompatibile con le esigenze generali del capitalismo. Ecco allora che l'obbiettivo che essi perseguono nell'attuale fase è quello di ridimensionare il ruolo delle compagnie e piegarle alla logica della riduzione dei costi ed all'aumento della produttività. Le Compagnie, negli anni passati, hanno accettato "volontariamente" dei sacrifici in nome della competività dei porti (principio da esse stesse assunto). Nonostante ciò, oggi sono di intralcio, perché è la loro stessa presenza a difesa delle "rigidità" operaie, è il loro "modello" di organizzazione dei lavoratori a diventare ingombrante e non più tollerabile per i veri padroni del porto. In buona sostanza l'illusione (a lungo coltivata ed alimentata dal PCI) di una "gestione operaia" del capitalismo cozza contro una realtà di crisi e di ristrutturazione che reclama il "superamento" di ogni rigidità posta a difesa dei lavoratori. Non si può essere insieme impresa e impresa "operaia".

Concretamente tutto ciò passa, se ci soffermiamo sul porto di Genova, per un drastico ridimensionamento degli effettivi della Compagnia dai 2100 attuali ai 750 ai quali dovrebbe venir confermata la "riserva di manodopera", cioè il monopolio di carico e scarico ma solo al limite di banchina. Per i restanti, o, l'occupazione presso altre imprese che si occuperebbero delle attività "liberalizzate" o il prepensionamento (600 secondo le previsioni della direzione del Porto).

Non dissimili le conseguenze presso gli altri porti.

Un primo sommario bilancio della lotta

Lo scontro di questi mesi se, per alcuni versi, è sembrato ricalcare quello avvenuto due anni fa a Genova, ha portato, invece, significativi elementi "nuovi" su cui misurare non solo il successivo svolgersi della vertenza-porti, ma la stessa dinamica della ripresa di classe.

Con due anni fa, ma in modo ancor più generalizzato si è riprodotta, a vari livelli, la spaccatura tra la massa dei lavoratori e gli apparati sindacali. Chiamati ad una contrattazione nazionale, non solo Cisl e Uil (da subito schierate con le misure di privatizzazione), ma la stessa Cgil si oppone innanzitutto al blocco dei porti attuato dai lavoratori. La stessa Cgil firma a marzo un accordo che accetta nella sostanza la logica dell'apertura della concorrenzialità nei porti (liberalizzazione di alcune operazioni di movimentazione, trasformazione delle Compagnie in aziende a tutti gli effetti) scatenando una aperta contestazione al suo operato in tutti i porti.

Ma questa volta non è stata solo la gestione verticistica della trattativa ad essere messa in discussione, è stata la stessa trattativa in quanto tale, su un terreno, cioè, scelto dalla controparte.

L'unica risposta possibile ai decreti di Prandini è la lotta, affermano nelle assemblee i portuali a Genova come a Livorno. I portuali, non solo si attestano in posizione di pressione e controllo verso le direzioni sindacali, ma si va oltre, non accettando di fatto lo stesso terreno su cui i vertici intendono portare la vertenza.

E questa una spaccatura tangibile tra massa dei lavoratori e direzione sindacale riformista che, nell'attuale situazione non ha trovato altri sbocchi se non la chiusura nel localismo nella speranza (illusoria) di poter risolvere nei vari porti, con accordi separati, la questione. Ciò nonostante, la determinazione con cui i portuali hanno dimostrato di voler resistere ai piani di ristrutturazione ed alla stessa gestione che di essa voleva dare la Cgil, indicano come la via per la difesa dell'autonomia di classe passa innanzitutto per quella che non delega a nessun burocrate sindacale la direzione della lotta. E un significativo esempio della via che dovrà seguire il proletariato sul cammino della ripresa del movimento di classe.

Lo stesso PCI si trova "imbarazzato" schiacciato com'è tra una base (un'alta percentuale di portuali è iscritta al partito riformista) intransigentemente schierata a difesa della propria organizzazione di lotta e di lavoro, ed una sostanziale apertura, invece, da parte dei suoi vertici alla soluzione di ristrutturazione e di ammodernamento. Significativa, a tal riguardo, è la vivace opposizione nelle fila della CULMV di Genova alla proposta del PCI ligure di trovare una soluzione alla vertenza operando per la trasformazione della compagnia in una azienda privata con l'ingresso in essa della Lega delle cooperative. Così, come e più di due anni fa, il contesto generale in cui avviene la ristrutturazione dei porti, coi ristretti margini di manovra che la lotta di concorrenza internazionale lascia per soluzioni "soft", rende sempre più difficoltoso un rapporto (tra PCI e lavoratori del porto) che sembrava granitico.

Certo, non sono mancati attestati di solidarietà, rincorse dell'apparato riformista per non trovarsi sbalzato dal movimento di lotta, ma tutto ciò è sembrato, più che mai, superficiale. Dietro le quinte, stà maturando, seppur lentamente e tra mille contraddizioni, quel processo di separazione tra massa e direzioni riformiste che è alla base di ogni reale processo di lotta per la trasformazione della società.

Ma nella lotta dei portuali di questi ultimi 4 mesi vi sono altri elementi significativi da considerare.

Questa volta l'attacco di governo ed armatori è stato generalizzato coinvolgendo tutti gli scali della penisola. La risposta iniziale, pur tra mille difficoltà e con modalità di lotta assai diverse, è stata generalizzata. Dopo la firma dell'accordo di marzo da parte dei vertici sindacali, questo primo abbozzo di "fronte del porto" si è spezzato. Malgrado il NO a questo accordo sia stato pressoché unanime, la maggior parte delle compagnie ha cercato con la contrattazione locale di strappare quanto più poteva alla controparte armatoriale.

In realtà la maggior parte degli accordi locali firmati (solo Genova continua a respingere integralmente la logica che vuole lo scompaginamento delle compagnie) accettano, di fatto, il piano Prandini, concedendo "liberalizzazioni" nella movimentazione merci e cedendo alle pressioni per abbassare le tariffe. Anche la magnifica lotta di resistenza che stanno conducendo i portuali di Genova può risultare difficile da portare a termine con positivi risultati senza un ampiamento del fronte di lotta e la ricerca dell'unità con gli altri lavoratori del porto.

Più che mai l'unità e la generalizzazione della lotta sono necessari considerando la determinazione con cui il fronte avversario è passato all'attacco. In questi mesi, nelle città portuali, ma non solo lì, è montata una aperta campagna contro i portuali fino ad una vera e propria mobilitazione reazionaria contro di essi. In primo luogo sono intervenuti il governo e lo Stato coi suoi apparati con intimidazioni e minacce: il commissariamento della compagnia di Livorno, le cariche dei CC nella stessa città, le 50 denunce alla magistratura a Genova, sono solo le misure più eclatanti intraprese. ma la borghesia, questa volta, non si è limitata a ricorrere ai soli strumenti istituzionali, è scesa direttamente in campo ricorrendo prima alla serrata, poi chiamando alla mobilitazione contro i lavoratori tutta la canea reazionaria. Il livello di scontro sociale si è alzato e proprio per questo è più che mai necessario per i portuali uscire dall'isolamento delle proprie condizioni locali ricercando, innanzitutto, una stabilità di quel fronte dei porti che pur ha mosso i primi passi in questi mesi.

Il secondo capitolo dell'offensiva borghese sul versante del trasporto navale si sta chiudendo con una serie di compromessi che, pur non smobilitando del tutto le compagnie (come voleva il ministro), lasciano spazi alle successive manovre armatoriali per privatizzare alcune operazioni portuali. Le singole compagnie sempre più difficilmente potranno da sole affrontare i successivi passaggi dell'attacco borghese per raggiungere ciò che oggi non hanno ottenuto. Solo un effettivo collegamento tra esse e la costituzione di organismi unitari che si battano su obbiettivi comuni possono creare le migliori condizioni per prepararsi ad affrontare questi ulteriori, annunciati, attacchi.