FIAT: DOPO L'ACCORDO INTEGRATIVO,
A CHE PUNTO SIAMO?

Ai primi di luglio, quasi alla chetichella e con una celerissima tornata di trattative, sindacati e Fiat hanno raggiunto l'accordo sulla vertenza integrativa. A differenza di quello dell'88 che, dopo 11 anni di sospensione, aveva visto gli operai della Fiat ridiscendere in lotta per 4 mesi, l'integrativo dell'89 non ha comportato nemmeno un'ora di sciopero, scarsissime, per non dire del tutto assenti, le assemblee nei reparti e negli stabilimenti.

Cosa è successo? E ancora: perché quei contenuti dell'accordo che erano stati duramente contestati un anno fa, oggi sono stati accettati dai delegati e dagli operai della Fiat?

Che ciò non sia il segno di un ulteriore arretramento ed indebolimento della classe operaia impiegata alla Fiat, è testimoniato dai significativi risultati degli scioperi generali in primavera contro le misure di aumento delle tariffe e dei ticket ed i tagli alla spesa pubblica dell'allora governo De Mita. In quell'occasione, anche negli stabilimenti più deboli, come a Mirafiori, la percentuale degli scioperanti raggiunse livelli dimenticati da almeno 5 anni.

Quali sono, allora, le cause dell'apparente rassegnazione, quando non dell'indifferenza, con cui è stato accettato un accordo i cui caratteri peculiari sono quelli che nel luglio '88 scatenarono la reazione dei delegati della Fiom che in quell'occasione si rifiutarono di firmarlo?

Non può esserci risposta a questa domanda se non comprendiamo il contesto generale (politico e sindacale) che ha influenzato in questi mesi lo stato d'animo, l'atteggiamento, il dibattito tra le fila operaie ed innanzitutto tra le sue avanguardie. In particolar modo come, con quali reazioni, attese, fiducie ritrovate, stà influenzando l'attuale condizione della classe il "nuovo corso" di quel riformismo politico e sindacale che continua ad essere il polo organizzativo a cui guardano le masse proletarie.

Al centro di tutto, sempre più, produttività e profitti

Ma veniamo all'accordo Fiat. Il suo contenuto non solo ricalca il precedente integrativo firmato da Fim e Uilm, ma anche quelli successivamente firmati in molte aziende negli ultimi 12 mesi (Olivetti, Zanussi, Ansaldo, ecc.). La "filosofia" che ispira l'accordo è quella di legare gli aumenti salariali a degli indicatori (fatturato, investimenti, patrimonio netto, qualità del prodotto) dell'andamento aziendale. Dal 1990, con il cosiddetto "premio performance di gruppo", una parte dell'aumento salariale, che per la Fiat corrisponde a circa il 30%, è vincolato all'andamento di mercato dell'azienda ed ai suoi indici economici e produttivi. Una parte del salario viene così reso dipendente dai risultati dell'azienda.

Con questo meccanismo, in primo luogo viene ribaltato il concetto di classe per cui la determinazione del salario ed il suo aumento sono da effettuarsi in base alle reali esigenze di vita dei lavoratori e non dell'azienda. In secondo luogo, e come diretta conseguenza di quanto sopra, l'istituzione della flessibilità del salario comporta il passaggio alla fase dell'incertezza del salario, legato com'è agli esiti della produzione. In questo modo l'operaio, già privato dagli attuali rapporti di produzione della proprietà degli strumenti di lavoro e del prodotto che ne scaturisce, si priva anche dell'unica certezza lasciatagli dal capitalismo: un salario conforme al prezzo della sua forza lavoro. Non diventa (né lo può finché permangono questi rapporti di produzione) partecipe della proprietà del capitale, ma si accolla "volontariamente" i rischi (i cosiddetti rischi di impresa) di esserlo! In terzo luogo, ciò che il padrone ottiene, col beneplacito dei vertici sindacali, è di porre al centro dell'attenzione delle "relazioni industriali" la produttività dell'azienda subordinando ad essa non solo il salario, ma anche l'orario, le ferie, etc. in una spirale di intensificazione del lavoro di cui è facile vedere sin d'ora gli effetti.

Ricordavamo come in modo ancora più articolato e preciso quest'accordo fa il verso a quello dello scorso anno e da cui si dissociò apertamente la Fiom. Eppure, non solo i vertici della Fiom firmano il 4 luglio questo pateracchio, ma il giorno dopo gli stessi delegati che un anno fa avevano quasi imposto ai vertici l'astensione della firma, ne accettano tranquillamente la riedizione.

Nei giorni successivi alla firma alcuni delegati affermavano, quasi con rassegnazione, che la conclusione della trattativa e l'accordo erano già implicitamente preventivati dopo che nell'autunno dell'88 la Fiom aveva deciso di gestire ugualmente l'accordo separato dell'estate prima.

A ben vedere l'argomentazione non coglie nel segno o perlomeno non permette di cogliere tutti gli aspetti che hanno inciso da quel momento ad oggi, nella conclusione della vicenda. All'indomani dell'ignobile accordo siglato da Fim e Uilm, i delegati della Fiom si trovarono nella situazione di dover riprendere le fila dell'organizzazione e della lotta in fabbrica in presenza di un accordo che comunque era stato accettato da una considerevole parte degli operai. Non c'era la forza per rilanciare su altre basi la lotta integrativa ed in questa situazione era del tutto ovvio che ci si attestasse sulla gestione dell'accordo. Il problema era semmai come gestirlo. In buona sostanza, non era scontato che gestione dell'accordo significasse accettazione della logica che vi presiedeva. Ciò che si poteva fare, e che la stessa maggioranza dei delegati si impegnò a fare, era rilanciare la discussione, la mobilitazione, ed in prospettiva la lotta, contro le conseguenze che esso avrebbe comportato: aumento dei ritmi e dei carichi di lavoro, condizione di sicurezza degli impianti, flessibilità dell'orario, delle ferie e degli straordinari. In questa ottica non era scontato neppure che si arrivasse a luglio con un accordo preconfezionato, anzi, una effettiva messa in atto delle buone intenzioni iniziali avrebbe comportato maggior attenzione, mobilitazione e forza nell'affrontare la contrattazione integrativa.

Secondo noi altri fattori hanno inciso sull'esito della vertenza.

Perché la CGIL è tornata indietro

In un commento sulla "Repubblica" del 6 luglio, Guido Bolaffi, a proposito dell'accordo Fiat, si chiede quali siano state le novità del "diverso atteggiamento" della CGIL rispetto all'anno prima. Egli le individua:

a) "il diverso clima sindacale seguito al rinnovamento programmatico della CGIL e della sua dirigenza"; un rinnovamento, ricorda il nostro, che ha accantonato le "vecchie nostalgie operaiste" (leggi difesa delle condizioni operaie al di fuori di ogni subalternità ai profitti) per essere più attento ai "settori nuovi del mondo del lavoro" (quali? - ndr);

b) il nuovo corso del PCI che pone al centro della sua iniziativa la "democratizzazione dell'economia e dei rapporti di lavoro" abbandonando le "ultime (ahimè, quanto ultime e residue! - ndr) suggestioni marxiste-leniniste (sic!)";

c) le conseguenze nei "rapporti industriali" dello scontro sui diritti negati e violati.

Bene! Pur da un fronte completamente opposto e con una visuale dei riflessi avuti da questi tre accadimenti differente, nel senso che noi mettiamo al centro della riflessione la classe operaia e non una banda di burocrati incalliti, ci sembra che Bolaffi colga nel segno. Le tre identificate sopra, il loro impatto con le condizioni materiali e ideologiche della classe operaia, sono effettivamente le cause che spiegano l'apparente arretramento della classe sulla strada dell'acquisizione di una sua più autonoma collocazione sul fronte della lotta di classe. Esaminiamone alcuni aspetti.

Sono state certamente la resistenza e financo la contrapposizione operaia alla linea sindacale (basta ricordare gli ultimi contratti e la stessa vicenda della contrattazione integrativa alla Fiat nell'88), così come le lotte contro la subordinazione alle compatibilità capitalistiche di alcuni settori di lavoratori (portuali, ferrovieri, aeroportuali) a porre le basi oggettive per l'apertura della crisi alla direzione nazionale della CGIL nell'autunno scorso. Come essa si dipanò, al di fuori non solo della partecipazione, ma della stessa comprensione da parte delle avanguardie operaie è cosa nota (vedi "Che fare" n. 15).

Le conclusioni del dibattito e la nomina di Trentin alla segreteria sancivano la chiusura a "destra" di una crisi nata, invece, "a sinistra". Con essa, come fin dal suo primo appello fu evidente, si ponevano le basi per una decisa ripresa dei temi dell'unità sindacale con CISL e UIL ed una ulteriore accelerazione della presa in carico da parte del sindacato delle esigenze aziendali e nazionali. Tutto ciò, a livello di indirizzo della politica sindacale della CGIL si è puntualmente verificato e, prima di sfociare nella sigla dell'accordo Fiat, è passato (come ricorda lo stesso Bolaffi nell'articolo citato) attraverso gli accordi all'Alfa Lancia di Pomigliano e sulla ristrutturazione dei porti, con conseguente sconfessione delle decise lotte intraprese contro di essi dagli operai napoletani e dai portuali genovesi.

Al livello della massa operaia (bruciate nel breve volgere delle discussioni di quel mese le speranze di alcune sparute avanguardie di rimettere al più presto al centro della politica sindacale gli interessi operai) e della stragrande maggioranza dei delegati, non restava che attestarsi sulla ricucitura dello strappo prodottosi con le altre organizzazioni sindacali (visto come strappo all'unità operaia) e che la nuova direzione CGIL caldeggiava, come condizione per riprendere fiato e forza. Momentaneamente bruciate le possibilità di lanciare una lotta generalizzata in difesa degli interessi operai (non solo per le debolezze accumulate in questi anni dalla classe, ma anche per i "particolarismi" che hanno caratterizzato le stesse lotte più avanzate di questi ultimi mesi, portuali, ferrovieri, Alfa), sotto l'incalzare di una propaganda anticomunista e antiproletaria senza tregua del nemico di classe, gli operai (e ciò non ci stupisce affatto) hanno ripiegato, attestandosi su una posizione di attesa e di sospensione di giudizio sulla nuova direzione riformista.

Una situazione contraddittoria

Attesa e anche qualcosa di più, una parziale rinnovata fiducia nella direzione riformista che veniva ulteriormente corroborata dal "nuovo corso" del Pci e dal lancio della compagna sui "diritti negati". Anche su di essa e su come abbia avuto il merito (al di là di come è stata condotta, diretta e gestita) di ridare fiducia e fiato alle aspettative operaie abbiamo già scritto (vedi "Che fare" n. 15 e 16). È indubbio che le iniziative di Occhetto e dei suoi uomini, una in qualche modo (seppur arruffata) "progettualità riformista" (ma quanto lontana ancora dall'avere un respiro globale) hanno ricreato nuove attese nelle fila operaie. Che tutto ciò avvenga con un sostanziale arretramento del PCI, anche da posizioni riformiste, è, al livello della attuale coscienza operaia, una questione del tutto astratta: quello che conta, oggi, è di essere di nuovo in gioco, di poter contare un po' di più che ieri, di incrinare un po' l'immagine della Fiat. Il buon esito degli scioperi generali di primavera e l'accettazione degli accordi integrativi (accordo Fiat compreso) sono le due facce della situazione in cui si trova attualmente la classe operaia. Una condizione che, proprio perché reca in sé degli elementi così oggettivamente contraddittori ed in uno scenario che promette ulteriori attacchi da parte di borghesia e governo, non si può affatto dire cristallizzata. Certo a chi vagheggiava una classe operaia ormai definitivamente sulla via dell'emancipazione dal riformismo (magari alla coda dei COBAS degli ... insegnanti), tanto da spingersi a proporre la generalizzazione di forme autonome di organizzazione sindacale, il risveglio alla realtà dovrà apparire assai brusco.

La ripresa della classe, il suo riorientamento in senso classista e marxista non possono avvenire che attraverso un percorso che brucia tutta una serie di illusioni riformiste al suo interno. Tale processo non è affatto lineare o a senso unico, perché per un lungo tratto continueranno a convivere e coniugarsi, all'interno della classe, spinte ad una difesa più intransigente delle proprie condizioni di vita e lavoro e linea immediatistica del minimo sforzo; un percorso in cui le riacquisizioni sul terreno della prospettiva rivoluzionaria dovranno continuamente fare i conti (all'interno della classe) con le suggestioni (materiali ed ideologiche) e con la forza del capitalismo dominante.

In questa prospettiva non è affatto eccezionale che delegati ed operai combattivi accettino, dodici mesi dopo averne rifiutato un altro uguale, l'accordo alla Fiat. Nuova frenata della ripresa e nuovo arretramento nella lotta di classe? Nemmeno. Finché il proletariato sarà privo di una effettiva ed autonoma prospettiva ideale ed organizzativa (che non si costruisce a tavolino), a fasi di sporadiche e settoriali fiammate potranno sempre seguire ripiegamenti. Spetta semmai ai marxisti ed a chiunque abbia a cuore gli interessi proletari lavorare in questi frangenti perché le acquisizioni e le esperienze maturate in queste lotte siano unificate e generalizzate alla massa, come premessa per la successiva ripresa del movimento di lotta.