CONTRATTAZIONE INTEGRATIVA:
UN BILANCIO NECESSARIO

Migliaia di accordi aziendali (a bassa conflittualità): i dirigenti sindacali li vantano come prova della incisività dell'azione sindacale. Certo, essi hanno fatto refluire verso la classe operaia una (piccolissima) quota degli enormi profitti lucrati dai padroni, ma attraverso di essi si è realizzata, con l'attiva complicità delle direzioni sindacali, un'operazione particolarmente pericolosa per gli operai: la generalizzazione del cosiddetto "salario variabile", ovvero la sottomissione di principio dei salari allo stato di salute delle imprese.


Questa tornata di contrattazione integrativa è sostanzialmente conclusa ed è ormai alle porte la stagione dei rinnovi dei contratti nazionali di categoria.

Molte "novità" hanno movimentato il dibattito sindacale e un bilancio si impone per tutte le avanguardie operaie.

Secondo le aspettative operaie queste vertenze dovevano rappresentare un'occasione per recuperare parte del salario perso negli ultimi anni a fronte di profitti accresciuti notevolmente, e per migliorare le condizioni di lavoro.

Per i padroni, invece, l'obiettivo era quello di contenere le richieste salariali, di sancire contrattualmente l'aggancio tra salario e produttività e di ottenere ulteriore flessibilità.

Un po' dovunque le aziende hanno puntato alla massima flessibilità nell'utilizzo della forza lavoro. Spesso si è "contrattata" una diversa organizzazione del lavoro incentrata sulle "ragioni" della competitività e del mercato, il cui unico risultato è stato l'allungamento dei turni di lavoro di notte al sabato e alla domenica, la possibilità di una diversa distribuzione dell'orario settimanale, l'utilizzo oltre che dei contratti di formazione anche di assunzioni a tempo parziale (giovani che lavorano solo il sabato e la domenica!) e a tempo determinato.

Ma la Confindustria ha puntato decisamente anche alla "flessibilizzazione" del salario ancorandolo alla produttività e più in generale all'andamento dell'azienda.

Ed è stata proprio l'iniziativa padronale per "regolamentare quote di salario variabile" a caratterizzare questa contrattazione integrativa.

Di fronte a tale offensiva c'è stata da parte operaia un'iniziale opposizione e chiusura: valga per tutti la posizione dei delegati del Coordinamento nazionale FIOM del gruppo Fiat contro l'ipotesi d'accordo e la successiva conseguente scelta della direzione FIOM di non firmare l'accordo separato del luglio '88.

Ma ben poco poteva reggere questa posizione se non veniva rilanciata una generale battaglia in difesa degli interessi operai programmaticamente sganciato dallo "stato di salute" e dalle "necessità" delle singole imprese, ciò che richiedeva una direzione politica della lotta all'altezza dello scontro. Tale non è la direzione della CGIL che ha finito per superare anche le (deboli!) perplessità (imposte dalla base) a firmare contratti di quel tipo.

Significativamente nella sua prima intervista rilasciata da segretario, Trentin ha dichiarato che lui avrebbe "firmato un accordo con la Fiat anche su quella bruttissima gratifica di bilancio". E cosa un ulteriore passo verso la SUBORDINAZIONE degli interessi proletari alla competitività e al profitto è stato compiuto.

L'accordo separato alla Fiat segnerà la strada per gli integrativi successivi; da quel momento in poi anche la CGIL apporrà la sua firma ad accordi che prevedono forme di "salario variabile".

I criteri e i parametri, spesso la stessa quantità di salario da erogare nella gran parte degli accordi firmati nell'ultimo anno sono stati definiti dalle imprese; il ruolo dei sindacati è stato sostanzialmente quello di ratificare le proposte che le aziende avanzavano. D'altronde le direzioni sindacali si sono ben guardate dal promuovere una vera lotta; il livello di conflittualità operaia è stato decisamente basso: solo nel 6% degli accordi firmati in Lombardia si sono effettuate più di 20 ore di sciopero.

Ciononostante la classe operaia ha tentato di minimizzare l'offensiva della controparte (pur subendone l'impostazione) e questo ha portato in vari casi ad accordi separati, in cui CISL e UIL appoggiavano senza riserve le richieste aziendali e la CGIL - pur tra mille contraddizioni - doveva tener conto della pressione dei delegati.

Imposta a livello generale (a partire dalla vicenda Fiat e con l'accordo Olivetti) la variabilità di parte della retribuzione salariale, il meccanismo per poi rapportare il salario all'andamento aziendale si è diversificato su 3 indicatori (spesso integrantisi tra loro):

a) !a presenza: spesso vengono penalizzate le assenze per malattia (anche quelle lunghe e gli infortuni), la gravidanza e il puerperio (Zanussi, Italcementi);

b) il raggiungimento di obiettivi produttivi: aumento della produttività aziendale, della competitività, della qualità, della capacità di risposta alle esigenze di mercato (Cantieri navali, Ansaldo, ecc,);

c) indicatori globali di mercato: redditività dell'impresa, fatturato, investimenti, ecc. (Olivetti, Fiat).

I padroni possono segnare così un nuovo punto a loro favore nella strategia di "controllo" del salario, avendo reso variabile ed incerta una quota di esso. Il salario si trasforma sempre più in variabile dipendente dalla produttività e dallo stato di salute dell'impresa. Il problema non è solo "economico" ma innanzitutto "politico": si punta ad un coinvolgimento nei fatti dei lavoratori alle sorti dell'azienda.

Questa strada è estremamente pericolosa per le classe operaia!

Se è vero che la parte variabile, per ora, rappresenta ancora una percentuale modesta dell'intera retribuzione (la media in Italia è del 10%, contro il 20% in Germania e il 48% in Giappone), ciononostante sta passando il principio della "non certezza" di parte del salario, si apre la strada per una più decisa sottomissione del salario ai profitti.

Dove porti una politica di subordinazione degli interessi operai alle "necessità" aziendali è sotto gli occhi di tutti: le condizioni di lavoro in termini di carichi e ritmi, di sicurezza, di ambiente sono molto peggiorate; si estendono i turni domenicali e notturni, si smembrano le ferie, cresce un'occupazione precaria e fortemente ricattata; si attaccano i diritti sindacali e politici.

Ma c'è anche un aspetto tragico di tutta questa impostazione: secondo i dati ufficiali INAIL (sottostimati!), nell'88 ci sono stati 3.026 morti sul lavoro, una media di 8 morti al giorno, ben il 50% in più dell'87! Solo un caso? No! La causa principale degli incidenti sta nell'assillante ricerca di competitività e di produttività da parte delle aziende, che subordinano al profitto la sicurezza degli impianti e quindi la salute e la vita stessa degli operai.

NON ESISTONO INTERESSI COMUNI TRA OPERAI E PADRONI! O si affermano gli uni o si affermano gli altri.

Per questo è perdente - per gli interessi dei lavoratori - la logica che sta passando (in particolar modo da un anno, a partire dagli integrativi Fiat, Olivetti...) per cui è l'impresa e sono i suoi successi sul mercato la variabile a cui subordinare gli aumenti salariali e le condizioni di lavoro.

Questa logica va ribaltata a partire dai prossimi contratti nazionali di categoria: i padroni già si preparano per contenere gli aumenti e subordinare il salario alle compatibilità aziendali, per ottenere ulteriore flessibilità da parte dei lavoratori.

La classe operaia, se vuole fermare l'offensiva capitalistica, deve riprendere l'iniziativa su un terreno e su un programma di coerente difesa degli interessi di classe.

Il rinnovo dei contratti rappresenta un appuntamento centrale per la classe operaia e può essere un'occasione per rilanciare con più forza la generale battaglia contro la politica governativa (ticket, sanità, finanziaria '90), la lotta sulla questione fiscale (tutt'ora aperta) come quella sui "diritti negati".