Medio oriente

L'INTIFADA PALESTINESE È TUTTORA VIVA ED IL MEDIO ORIENTE È PIÙ CHE MAI UNA POLVERIERA .

Indice

E intanto nel "bastione" Israele.....

Malgrado la pesante azione stabilizzatrice delle borghesie imperialiste, di Israele e dei paesi arabi, e nonostante il freno della direzione dell'OLP, l'Intifada palestinese rimane in piedi, in una regione nella quale altre Intifade si sono accese, dall'Algeria alla Giordania, dall'Egitto al Sudan, ad esprimere l'odio e la volontà di lotta degli sfruttati contro le proprie borghesie affamatrici ed infeudate all'Occidente imperialista. La crisi sociale e politica marcia, nell'area, con l'alimento della crisi economica e sempre più, davanti alla clamorosa impotenza dell'"anti-imperialismo" borghese e piccolo-borghese, reclama l'unità di tutti gli sfruttati ed una direzione rivoluzionaria capace di guidare fino alla meta la grande guerra di liberazione nazionale e sociale di cui la regione è gravida.

Mentre scriviamo, dai suoi altoparlanti in video, audio e carta stampata, il "Grande Fratello" ci fa sapere che "è ripresa l'iniziativa diplomatica per la soluzione della questione palestinese con la presentazione del piano predisposto dal presidente egiziano Mubarak". E noi traduciamo nella nostra lingua: la diplomazia nord-americana (l'autonomia della diplomazia egiziana è, infatti, pari all'autonomia alimentare dell'Egitto dalla farina yankee: 72 ore!) ha predisposto un nuovo cappio da stringere intorno al collo dei fratelli palestinesi e della loro magnifica sollevazione.

Sforzi convergenti per porre fine all'Intifada

Prevenuti? Il "piano", che guarda caso - "è stato trasmesso a Gerusalemme lo scorso luglio dal membro del Congresso USA (!), William Gray" ("Italia Oggi", 15.9.'89; sarebbe sfizioso sapere chi lo ha trasmesso a... Mubarak, ma non per noi che già lo sappiamo), non fa menzione alcuna del diritto dei palestinesi ad avere un proprio Stato, della questione di Gerusalemme, della stessa OLP, rinviando ad "una soluzione finale" (infausta espressione: che sia un lapsus freudiano?) posta in termini di "diritti politici dei palestinesi"

In breve: è espressione della politica dell'amministrazione Bush che tende nell'immediato ad arrestare l'Intifada ed in prospettiva a declassare la "questione palestinese", come da risoluzioni dell'ONU accettate ahinoi! - anche da quell'OLP che per vent'anni le aveva respinte a questione di "profughi", ai quali, forse, col tempo e se sapranno superare una serie di prove, si potrà "concedere" una qualche forma di "autonomia".

Dalla proposta scompare ogni riferimento a quella "Conferenza internazionale di pace" a gran voce reclamata dagli europei mesi addietro, che viene sostituita da una supervisione degli USA e della loro provincia Egitto.

Elezioni amministrative locali contro Intifada: ecco l'ennesimo "scambio diseguale" che gli USA e Israele pretendono di imporre alle masse palestinesi. Su questa medesima lunghezza d'onda sono sintonizzate tutte le borghesie imperialiste, pur nella reciproca concorrenza. Tutte tramano per "pacificare" l'area ed il secondo passo in questa direzione, dopo la resa dell'Iran khomeinista, dovrebbe essere appunto la fine di quella sollevazione a Gaza e nella Cisgiordania che ha costituito oggettivamente un punto di svolta non solo della lotta rivoluzionaria dei palestinesi, ma della lotta di tutti gli sfruttati del Medio Oriente.

Il timore comune è che, se non ci si affretta a spegnere l'incendio di Gaza e Cisgiordania, le cui fiamme già minacciano Israele da più lati entro casa, sarà sempre più arduo impedire ch'esso si congiunga agli altri "fuochi" che, a scadenze più ravvicinate che nei primi anni '80, vanno accendendosi nel mondo "arabo-islamico"

Così, mentre continuano a sostenere nei fatti incondizionatamente lo Stato di Israele (vedi la recente approvazione da parte del Parlamento europeo di tre protocolli di cooperazione commerciale e di aiuto finanziario ad Israele) anche se cercano di frenarne le punte estreme di intransigenza per timore che agevolino l'allargamento delle lotte, USA ed Europa convergono, senza alcun intralcio da parte di Mosca, nel far pressione sulla direzione della lotta palestinese perché eserciti sino in fondo l'azione di freno del movimento in cambio del piatto di lenticchie di eiezioni sganciate dalla stessa prospettiva di un "mini-stato".

Una catena di sollevazioni

A metter fretta ai padroni dell'Occidente sono una serie di segnali davvero sinistri, per toro.

Dall'Egitto: dove nel settembre dell'88 a Mahalla al Kubra, uno dei principali nuclei industriali vicino al Cairo (vi si ammassano circa 120.000 operai), alcune decine di migliaia di lavoratori della più grande fabbrica tessile del paese, la "Misr", diedero vita ad un fortissimo sciopero ed a violente dimostrazioni di piazza contro il taglio di alcune indennità deciso dal governo, e dove nei mesi successivi è salito il numero degli scioperi.

Dall'Algeria: che è stata prima scossa della più forte ondata di scioperi operai dal momento dell'indipendenza (anzitutto nella cintura industriale di Algeri) fino ad arrivare alla vigilia del primo sciopero generale dell'industria dal '62 e poi squassata della sollevazione popolare di inizio ottobre partita da Algeri e propagatasi come il fulmine ad altre grandi città, finita con un terribile bagno di sangue.

Dal Sudan, in cui lo sciopero generale indetto dalla Federazione dei sindacati dei lavoratori sudanesi a partire dal 29 dicembre scorso ha costretto il governo in carica a revocare il rincaro dei generi alimentari deciso in seguito all'immancabile ordine del FMI.

Dalla Giordania, il paese "stabile" per definizione (vi vige la legge marziale dal '67...) e superforaggiato da tutta "la reazione araba ed internazionale", dove sono stati i beduini delle città del sud, storicamente fedelissimi al regno hashemita, suoi decisivi alleati nell'eccidio anti-palestinese del "settembre nero", che costituiscono il nerbo delle forze armate giordane, a dare il via ad una sollevazione contro il carovita e contro il governo che si è estesa a tutta la nazione, autodefinendosi "L'Intifada giordana".

Dal Libano: in cui l'iniziativa della "guerra di liberazione" pro-francese e pro-imperialista del genere cristiano Aoun e le collegate provocazioni militari di Francia, Israele e Stati Uniti hanno avuto l'effetto di rimettere in moto la mobilitazione anti-imperialista.

Dalle masse dei mostazafin iraniani che hanno nuovamente confermato, anche in occasione dei funerali di Khomeini, pur se ancora succubi della direzione borghese islamica, la propria "fanatica" disponibilità a riprendere la lotta. .

Dalla stessa Israele che percorsa da contrasti sociali e politici sempre più accesi, al punto da far gridare Shamir al pericolo della "guerra civile".

Al di sotto di queste esplosive tensioni sociali c'è la profonda crisi economica che ha investito tutto la regione negli anni '80, causata dal crollo del prezzo del petrolio e, più in generale, dal deterioramento delle ragioni di scambio delle materie prime. Un "impoverimento improvviso" si è abbattuto su molti di questi paesi, obbligandoli ad indebitarsi con l'estero, a bloccare o abbandonare ogni piano di ulteriore industrializzazione (è il caso dell'Algeria), ad adottare drastici tagli ai già miseri consumi interni per concentrarsi ancor più di prima sulle esportazioni.

A venire al dunque è l'incapacità delle borghesie arabe nel loro complesso di sganciarsi, sia pure parzialmente, dalla vecchia divisione internazionale del lavoro imposta dal colonialismo pre-imperialista e rafforzata dall'imperialismo. "Un rapporto che è stato costituito in epoca coloniale e che, a torto o a ragione, i gruppi dirigenti del dopo indipendenza non hanno ritenuto di modificare o di perfezionare (!), obbliga il Maghreb a gravitare verso l'Europa - scrive Calchi Novati su "Il Manifesto" del 23 luglio. Nello stesso tempo, la crescente autosufficienza del mercato europeo e certe scoperte tendenze protezionistiche, penalizzano le nazioni arabe proprio nel momento in cui si accentuano le lusinghe dell'integrazione nel mercato capitalista". Perciò, pur essendo estremamente limitati i rapporti economici tra le nazioni arabe, l'intero Medio Oriente ha subito unitariamente il contraccolpo della crisi, della crescita della concorrenza sul mercato internazionale e del rafforzamento delle cittadelle imperialiste ai danni dei paesi dominati.

L'impotenza delle borghesie arabe

Strette tra un capitale finanziario sempre più centralizzato e usuraio e la minaccia di una enorme Intifada sociale nella regione, le borghesie arabe, anche quelle che in passato avevano "tuonato" contro gli oppressori delle masse arabe, anche quelle che hanno al proprio attivo intere o mezze rivoluzioni nazionali, e, naturalmente, a maggior ragione quei paesi che da sempre si sono posti all'ombra dell'Occidente, vanno assumendo un atteggiamento sempre più "moderato" e "collaborativo" verso il sistema imperialista.

Lo si è ben visto nel vertice arabo di Casablanca che, presenti anche Libia e Siria, ha salutato il ritorno dell'Egitto nella Lega Araba, non come figliuol prodigo ma come paladino di una scelta di "apertura" all'occidente condivisa, in vario grado e con varie tattiche e referenti, da tutti. Lo si vede nella richiesta, che assomiglia molto a un'implorazione, di diversi paesi arabi (a cominciare dal Marocco) di essere ammessi nella... Cee. Lo si vede nei primi passi dei diversi organismi inter-nazionali che vanno sorgendo nel mondo arabo i quali paiono più impegnati a cooperare nella prevenzione o nel soffocamento dei "focolai di crisi", più occupati a stilare ennesime dichiarazioni di principio (si pensi che in 44 anni di Lega Araba sono fallite una trentina di unioni interarabe), che a muoversi realmente nella direzione, per lo meno, di una "contrattazione concertata" con il sistema bancario creditore, con gli organismi della CEE o con gli USA, e meno ancora verso un minimo di effettiva integrazione economica nell'area che ne contrasti il contemporaneo e combinato processo di drastico impoverimento e di totale dipendenza dall'imperialismo.

Di questa impotenza - che è qualcosa di diverso dalla inconseguenza del nasserismo, del FNL algerino, del Baathismo irakeno degli anni '50 e '60, benché abbia la medesima natura di classe - è quasi un emblema la linea di progressivo cedimento ai ricatti occidentali assunta dalla direzione arafattiana. Si fascia oggi un bilancio della "offensiva diplomatica" lanciata dall'OLP un anno fa. Quale sbocco essa ha non diciamo assicurato, ma semplicemente avvicinato, per la lotta rivoluzionaria palestinese? La stessa proclamazione dello Stato di Palestina non è stata, forse, via via svuotata di ogni significato di rottura dalla accettazione delle risoluzioni n. 242 e 338 dell'ONU che non ne prevedevano la costituzione; dalla sottoscrizione di formule quanto mai ambigue sui "profughi" che significavano di fatto la rinuncia a quel "diritto al ritorno in Palestina" sempre rivendicato e ribadito dall'Intifada per tutti i palestinesi; dalle reiterate ampie garanzie, oltre che della esistenza, anche della "sicurezza" di Israele, ossia del suo "diritto" a tenersi comunque parti della regione di Gaza e della Cisgiordania; dalla proclamazione del rifiuto e della condanna del "terrorismo" (parola che non sta affatto a designare quel che pare designare) in tutte le sue forme, pur in presenza di un feroce e metodico terrorismo di stato adoperato da Israele; e finanche, in questi giorni, dagli occhieggiamenti se non dall'avallo indiretto al "piano Mubarak" che dello Stato palestinese nulla dice e di cui, quindi, nega di fatto la "legittimità" storica e politica? E in materia di "unità delle masse arabe" e della "rivoluzione araba", che un tempo fu - in termini sempre nazionalistici, ma convinti e combattivi - un cavallo di battaglia dell'OLP, non è forse vero che la direzione arafattiana è precipitata ormai, attraverso una serie di marce indietro, alla attiva collaborazione nel mantenimento e nel consolidamento, contro le masse sfruttate arabe, della "pace" nella regione e specialmente di quei regimi "reazionari" (gli Hussein, i Mubarak, addirittura i borghesi cristiano-maroniti libanesi che hanno dato il via alla guerra civile nel loro paese con lo slogan "fino all'ultimo palestinese") fino a ieri l'altro bollati a fuoco? Non è stata, forse, una pugnalata alla stessa Intifada palestinese impedire il sostegno militante alla Intifada giordana, spenderne l'enorme prestigio a sostegno dei Chadli all'indomani del massacro di Algeri o dei Mubarak all'indomani degli arresti di centinaia di operai in lotta?

I polmoni della borghesia palestinese respirerebbero meglio nel mercato arabo se avessero proprie "bombole di ossigeno", ma, come abbiamo ripetutamente scritto sul nostro giornale, sono disposti a rimanere asfittici davanti allo "scomodo inconveniente" che presenta la lotta rivoluzionaria delle masse palestinesi condotta sino in fondo: quello di minacciare gli interessi capitalistici in Medio oriente e, perciò, anche quelli dei borghesi palestinesi e di mettere in questione la stessa direzione borghese del "movimento nazionale palestinese". Da qui una politica che sta frenando e disperdendo la forza accumulata dall'Intifada dei proletari e degli sfruttati palestinesi, la sta isolando dai suoi naturali alleati nell'area e nelle metropoli imperialiste, la sta - di fatto - esponendo sempre più ai colpi incessanti della repressione israeliana e alle manovre strangolatorie dell'Occidente.

(Crediamo non sia necessario ripetere qui che l'assenza dalla scena della politica internazionale del proletariato europeo pesa tutta e solo in negativo sulla lotta dei palestinesi e perciò anche, ad altro livello, sulla "capacità di contrattazione" della stessa borghesia palestinese, la cui inconsistenza, però, mai potrà essere presa a scusante per la solidarietà-zero delle metropoli).

L'unità di tutti gli sfruttati, chiave di volta della liberazione nazionale e sociale

L'istanza anti-imperialista, che deperisce nelle classi dominanti del mondo arabo, rinasce invece di continuo, come una materiale necessità, dagli sfruttati e tra gli sfruttati arabi. Lo si vede sia a scala regionale (in cui sempre più la pur debole classe operaia araba gioca un ruolo di avanguardia), che nello stesso strisciante attrito tra l'Intifada palestinese e la direzione dell'OLP. "Dall'interno" di Gaza e della Cisgiordania, infatti, si richiede una politica meno accomodante verso Israele e gli USA, si reclama un sostegno più deciso alla lotta, si respinge ogni tentativo di sospendere la sollevazione, si guarda con crescente sfiducia alla "via diplomatica" che è stata ed è vuota di risultati per le masse, si propugna la necessità di "rispondere colpo su colpo" alla repressione israeliana anche con l'azione armata, si stigmatizzano gli ambigui legami che le "personalità" palestinesi continuano a mantenere con il governo nemico, si bocciano i "piani" sfornati dai panifici imperialisti, si torna instancabilmente ad affermare - come fa il comunicato n. 43 del Comando unitario della rivolta - "la necessità di mantenere viva l'Intifada sociale", nonostante il prezzo pesantissimo che prima di tutto e soprattutto gli operai e gli sfruttati palestinesi stanno pagando per la prosecuzione dell'Intifada.

Il rinascere "dal basso", dal vivo della esperienza del doppio e triplo sfruttamento capitalistico e della oppressione dei più elementari "diritti", della lotta anti-imperialista esige, davanti alla bancarotta che sta coinvolgendo l'una dopo l'altra tutte le borghesie arabe, una nuova direzione politica all'altezza del compito centrale: l'unificazione del fronte degli sfruttati del Medio Oriente e il suo collegamento con il proletariato occidentale.

La crescente presa dell'islamismo in Palestina e in tutta l'area ed in particolare tra gli strati più poveri e diseredati della popolazione esprime esattamente questo bisogno di maggiore radicalità nella contrapposizione all'Occidente sfruttatore e di unità delle masse arabe ed "islamiche". Non è un passo indietro dalla "laicità" dei movimenti nazionalisti borghesi alla "religiosità fanatica" dei movimenti "anti-imperialisti islamici", né da fantomatiche organizzazioni "comuniste" ad una militanza anti-comunista.

Senza nulla concedere né ieri né oggi al carattere reazionario delle direzioni borghesi-islamiche, i marxisti vedono in questo processo la petizione rivoluzionaria di grandi masse di andare avanti, di coalizzarsi su grande scala contro l'odiato sistema imperialista, di non farsi travolgere e disperdere nella rotta del tradizionale "anti-imperialismo" borghese e, alla coda di questo, delle formazioni staliniste. Chi, non avendo fiducia (o non avendone a sufficienza) nelle determinazioni materiali che causano il movimento delle masse sfruttate, pensa e teme che sarà quella "islamica" la definitiva collocazione degli sfruttati arabi, andrà incontro a inevitabili smentite. Già nella sollevazione algerina, nella conduzione della lotta palestinese, in Libano e più che mai nella "ricostruzione" dell'Iran sotto la guida della fazione-Rafsanjani, le direzioni islamiche sono state e sono messe duramente alla prova: se la lotta all'imperialismo continuerà, e continuerà, gli sfruttati del Medio Oriente dovranno e sapranno, con il concorso infine della classe operaia metropolitana, sbarazzarsene.

Solidarietà?

Più la situazione in Medio Oriente diviene incandescente, più l'Intifada palestinese ha bisogno di aiuto e di vera solidarietà, più si fa evanescente il cosiddetto "movimento di solidarietà con il popolo palestinese".

Cosa si è mosso, qui, in questi 20 mesi, a sostegno dell'Intifada? Cosa hanno fatto le forze che si sono dichiarate "al fianco dei palestinesi"?

Diciamolo senza giri di parole: il PCI ha sostenuto gli sforzi di pacificazione imperialista nell'area, con l'accento di continuo posto sulla necessità di un maggiore interventismo dell'Europa e dell'Italia (in concorrenza con gli USA). La "soluzione negoziale" che il PCI tuttora - e sempre più debolmente - propugna, è quella che prevede anche il micro-stato palestinese. Ma, appunto, che senso ha "sostenere" una tale "soluzione" e insieme affidarla a quelle "democrazie" che, in coerenza con i propri interessi, la ostacolano da sempre? Che senso ha condannare la repressione israeliana e non muovere foglia perché ci sia mobilitazione contro l'immutato sostegno che l'imperialismo italiano dà ad Israele ovvero votare al Parlamento di Strasburgo importanti trattati di cooperazione tra CEE e Israele? E a cosa si riduce il fiancheggiamento della sacrosanta causa palestinese se non appena i lavoratori mettono in cantiere iniziative di boicottaggio contro Israele, li si lascia scoperti o addirittura li si "sconsiglia" dal procedere?

Pungolato dall'OLP e dalla ripresa dell'iniziativa di Craxi, il PCI promette ora di rilanciare la sua azione. Occhetto, seguendo lo stile Wojtyla, prepara una sua apparizione in Medio Oriente. Ma, se si volesse per davvero aiutare la lotta dei palestinesi a sconfiggere Israele e l'Occidente imperialista, è qui che si dovrebbe lavorare con lena a far apparire nelle piazze l'unica "personalità collettiva" capace di effettiva solidarietà agli oppressi del "Sud": la massa del proletariato. Il che, si sa, è previsto dal "nuovo corso" ancor meno di quanto lo fosse dal "vecchio".