I dilemmi del "Congresso straordinario" del PCI

TENER FEDE ALLE TRADIZIONI (ANTIMARXISTE)
O FONDARE UN PARTITO (ANTIMARXISTA) NUOVO?

Indice


L'imminente Congresso straordinario del Pci è davvero, in una certa misura, "straordinario". Esso è chiamato a sancire o meno (in realtà le cose sono già fatte) non solo la messa in causa del sistema del "socialismo realizzato", ma i pretesi "presupposti" di esso, che -stando a sentire quelli delle Botteghe Oscure- starebbero nella teoria e nella prassi del bolscevismo di Lenin e in Marx stesso e, per dirla in una, nella stessa "antistorica" pretesa di definire i lineamenti di una società socialista come concreto disegno, predeterminato nella teoria, per cui battersi contro la presente società borghese. Al tempo stesso, si tratta di ratificare la (già avvenuta) adesione alla linea di revisione del marxismo che, da Bernstein in qua, proclama: "Il fine è nulla, il movimento è tutto", il socialismo è nulla, il capitalismo entro cui ci si muove è tutto.

Una novità non da poco, anche, se perfettamente conseguente alla natura del PCI (e dello stalinismo che, nel '26, ne ha tenuto a battesimo la prima "rifondazione"), partito non marxista, rivoluzionario, ma "operaio"-borghese, riformista (con Togliatti nelle vesti di una "originale" edizione italiana dello stalinismo, con Occhetto -e i suoi "oppositori"- sciolto da ogni residuo stalinista nell'abbraccio coi "valori" dell'Occidente).

Una novità destinata ad esercitare un suo peso sulla situazione ideologica, politica, organizzativa del proletariato italiano, non v'ha dubbio. E questo è quel che da sempre ci interessa. Non siamo di quelli che considerano irrilevante o addirittura indifferente quel che si passa nelle organizzazioni riformiste, dal momento che ad esse continua, sia pure attraverso complicazioni e contraddizioni nuove, a riconoscersi la parte maggioritaria e più avanzata della classe operaia. Da sempre crediamo che la ricostituzione di un partito genuinamente marxista sia imprescindibile dal rapporto tra partito, o partiti riformisti e classe; ovviamente nel senso di una messa in crisi di questo rapporto a cominciare entro l'ambito di questo, o di questi partiti. Per questa stessa ragione da sempre reputiamo che sia indispensabile un "intervento" dei comunisti rivoluzionari, in quanto forza (anche senza... numeri sufficienti) indipendente e da cima a fondo contrapposta al riformismo, nelle vicende che contrassegnano tale rapporto.

Secondo questi criteri "interveniamo" sui temi del presente dibattito precongressuale del Pci, rivolgendoci a quelle punte avanzate della classe (dentro e fuori il partito) che la "svolta" attuale può mettere in grado di cogliere la sostanza controrivoluzionaria di essa, la continuità di "tradizioni" controrivoluzionarie da cui essa si dirama, l'assenza di punti di riorientamento marxista delle "opposizioni" interne e, quindi, la necessità di trarre un bilancio dall'esperienza del Pci non fermandosi a questi ultimi "rigogli" liberal, ma andando alla radice di essi.

Dica pur chi vuole che siamo "settari" e "impolitici". Sì, siamo "settariamente" per il comunismo; sì, la nostra politica non si adatta al "concreto" del terreno di contesa scelto dall'avversario, non lo insegue "tatticamente" alla "sinistra" in vista di "aggiustamenti" progressivi del riformismo.

Non saremo capaci di "incidere"? Se davvero il sistema capitalista fosse destinato all'eternità ed a sempre più "magnifiche sorti e progressive", il trionfo del capitalismo, e con esso del riformismo, sarebbe inattaccabile, in quanto confortato dalla legge della necessità storica. Così non è, così già non è. Questa è la risorsa oggettiva su cui fondiamo la nostra azione presente, certamente non clamorosa e probabilmente destinata a subire ulteriori contraccolpi immediati. Ma, come sempre, noi insistiamo ad investire sulla distanza...


La "rottura" occhettiana

Recita una favola ingraiana e cossuttiana: "Un brutto giorno, Occhetto decise da solo e d'improvviso di cambiare il Pci, anzi di cancellarne l'identità precedente, e tutto questo in nonne di una inafferrabile "cosa" nuova a venire che non si sa cosa sia, con chi e a quali fini si darà. Noi ci opponiamo a questa rottura arbitraria con la nostra tradizione. Proprio perché nuove sfide ci attendono, intendiamo affrontarle forti della nostra storica identità, nella continuità delle posizioni che sono alle nostre spalle e ci hanno coerentemente condotto sin qui."

Una bella favola, non c'è che dire.

Rendiamo ad Occhetto quel che è di Occhetto ed a tutti gli altri la parte che loro spetta.

È vero che certi fatti si verificano "d'improvviso". Ma (è la prima lezione di marxismo che quelli del "no" dovrebbero imparare) ciò non può significare in alcun modo "dal nulla". Le novità, le "rotture" che segnano la storia hanno sempre, dietro di sé, un retroterra di "maturazione" e, quindi, storicamente, di "giustificazione". I "protagonisti" di esse non ne sono che i megafoni. Così non fosse, la loro voce cadrebbe inevitabilmente nel vuoto.

Orbene: ha o no trovato la proposta di Occhetto un terreno atto ad accoglierla? Come no! Un terreno da lunga pezza dissodato e concimato ad hoc. Essa sta in linea di continuità con i congressi precedenti, di cui si limita unicamente a tirare le somme, e pazienza se non se ne accorgono, o se ne scandalizzano, coloro che hanno contribuito a mettere a dimora la "nuova" pianta che ora sta crescendo rigogliosa.

"Eccesso di decisionismo"? Ma questo, in più d'un caso, è oggettivamente un elogio più che un titolo di demerito. O non siete proprio voi, Ingrao e soci, ad elogiare e sostenere quelli che all'Est hanno promosso, o addirittura, imposto "dall'alto" un mutamento "maturo nelle cose" di fronte alla torpidezza della "base" e dei "quadri"? O non siete ancora voi che salutate nel Togliatti della "svolta di Salerno" colui che "da solo", contro tutte le "resistenze conservatrici" di basi e vertici, ha contribuito a fondare il "partito nuovo" cui vi richiamate, conquistando successivamente a detta prospettiva quanti vi riluttavano? Bando a contestazioni del genere, dunque, ed andiamo al sodo, alla sostanza politica della "cosa" in oggetto.

La direzione Occhetto, promossa a tale rango in primo luogo dall'attuale fronte ingraiano del "no", è stata sin dai suoi esordi, e forte di un consenso pressoché plebiscitario nel partito, poco tenera nei confronti di una "tradizione comunista italiana" oramai solo di facciata e perfettamente matura ad essere superata. Berlinguer ancora opponeva, nonostante il famoso "esaurimento della spinta propulsiva" dell'Ottobre, il buono stato di salute, economico e morale, dei "paesi socialisti" alla crisi dell'Occidente e, a parole, manteneva l'obiettivo della "costruzione del socialismo" in Italia quale "fuoriuscita" dalle leggi e dai disvalori del mercato; la nozione di una qualche "centralità operaia" era del pari formalmente conservata. Con la direzione Occhetto le parole vengono messe d'accordo coi fatti: non ha più senso parlare di "fuoriuscita dal capitalismo al socialismo" quando il riformismo vive e si alimenta del primo, che solo dev'essere "corretto" e "guidato"; non ha più senso mantenere la finzione di una presunta "centralità operaia" allorché il Pci per definizione, oltre che nella realtà, è un partito pluriclassista, aperto "trasversalmente" alle istanze di tutte le classi "progressiste", capitani d'industria compresi e in quanto tali. Democrazia politica = distribuzione dei poteri per rappresentatività ("una testa un voto": tutti i "cittadini" sono "eguali" di fronte alle urne); democrazia economica = "eguaglianza" giuridica delle "opportunità", e poi... chi ha filo da tessere tessa, senza dimenticare accanto al proprio interesse privato quello sociale.

Chi mai, degli attuali "antiocchettiani", ha mai trovato da ridire su questa esaltazione dei sacri principi borghesi? In ogni caso, avrebbero dovuto farlo ben prima di Occhetto, che s'è semplicemente limitato a dichiararli per quel che sono nella "tradizione" del Pci da lunga pezza, e certamente dal "togliattismo" di sempre, riconoscendoli in antitesi ai principi del '17.

E chi mai si è scandalizzato prima del ripudio della scissione del '21 ("Turati aveva ragione": lo aveva già detto un Terracini d'annata!) o persino sulla rivalorizzazione di un Saragat '47 (con tanto di omaggio alla sua "lungimiranza" al congresso Psdi, Nicolazzi segretario)?

E quando in URSS ha preso avvio la "perestrojka" tutti i capi storici del Pci l'hanno osannata, unitamente ad Occhetto, come non soltanto una necessaria e salutare "riforma del sistema", ma la premessa del superamento di quel sistema (gabellato per "socialismo storicamente realizzato") in vista della ricongiunzione ai valori dell'Occidente e cioè, dal punto di vista teorico-programmatico e politico, ai valori della socialdemocrazia occidentale, con cui "improvvisamente" si erano troncati i legami nel '17 e nel '21. Solo il povero Cossutta aveva tentato di dimostrare che questo ritorno all'ovile socialdemocratico dimostrava la capacità di "autorigenerarsi" del... bolscevismo (la "spinta propulsiva" grazie alla quale il boomerang torna indietro al punto da cui lo s'è lanciato!). E chi ha scritto le pagine di maggior lirismo socialdemocratico quando il "sistema socialista" ha preteso di difendersi dallo sgretolamento con la forza dei propri eserciti (vedi il caso cinese)? Andatevi a rileggere le pagine di Ingrao sulla "nuova resistenza", democratica ed antitotalitaria, di Piazza Tien An Men.

Ancora: chi mai s'era differenziato prima o si differenzia oggi rispetto all'abbandono non solo del principio dell'antagonismo proletariato-borghesia, ma della stessa "centralità della classe operaia" in vista di una politica "riformatrice" e "di progresso"? (Solo, in parte, il solito Cossutta, rimasto alla definizione togliattiana della classe operaia quale "classe nazionale" che solleva dal fango le bandiere lasciate cadere dalla borghesia!). Tutti -in un modo o nell'altro- d'accordo sul "superamento di una visione 'grettamente' classista", in nome del "pluralismo" di interessi e rappresentatività. Il proletariato? Un "segmento", certo importante (ma questo lo sanno anche i borghesi), della "società civile" in quanto "cittadini"; l'essenziale è che ad essi non sia delegato il compito "utopico" di abbattere questo sistema per sostituirvi l'irrealistica "cosa" chiamata socialismo.

La confusione e l'inconsistenza dei "critici" di Occhetto è...

Che senso ha, allora, inalberarsi per la cancellazione del nome "comunismo" -l'oggetto- quando, assai prima, s'è cancellato quello del proletariato in quanto classe antagonista, levatrice rivoluzionaria del socialismo -il soggetto?

Provate a leggere per intiero la mozione no2. Vi troverete i "deboli", gli "oppressi", le "minoranze", i "nuovi soggetti", la "differenza sessuale", i "cittadini", insomma e tanti "nuovi antagonismi", da quello ambientale a quello dei "saperi"; non vi troverete il proletariato quale asse fondante della lotta anticapitalista; non vi troverete (se non sul piano delle "regole" da stabilire "democraticamente" alla faccenda) l'antagonismo lavoro salariato-capitale.

Che sarà mai, dunque, quell'"orizzonte" del comunismo che andrebbe preservato dai colpi di spugna di Occhetto? Niente di meno che "la critica della 'produzione per la produzione', della prevalenza assoluta dell'accumulazione rispetto alle sue (!) finalità concrete (!), dunque di un sistema sociale unicamente rivolto alla moltiplicazione quantitativa dei beni e dei bisogni".

Un guazzabuglio indescrivibile! Intanto la produzione capitalistica (ma vogliamo chiamarla così, o no?) non è rivolta -giusta Marx- allo sviluppo della "produzione per la produzione", ma a quello del profitto; in ciò non entra per nulla in contraddizione con "sé stessa", ma assolve molto concretamente alle sue finalità; il "male" di essa non sta nella "moltiplicazione dei beni e dei bisogni" (questa è apologia del capitalismo!), ma nell'accumulazione anti-sociale del capitale, nella contraddizione tra il carattere sociale della produzione e quello privato della proprietà.

Comunismo, che sarà mai? "Comunismo vuol dire anche (!), e qui è un (!) suo connotato essenziale... il graduale superamento di una formazione sociale fondata sulla priorità del profitto e del mercato, grazie alla "pratica" e all'azione consapevole di coloro, innanzitutto, che da questo sistema sono sacrificati."

Se desiderate una definizione più "estremista", beccatevi Cossutta: ciò che dev'essere propugnato è "un nuovo modello di società (la parola socialismo è impronunziabile, n.) in cui la struttura del potere reale sia tale da consentire, insieme alla piena libertà dell'individuo, condizioni di pari opportunità e di eguaglianza". tutti gli "individui" eguali al palo di partenza, poi si vedrà...

Interloquiva Totò in situazioni del genere: "Tanto ci voleva?!". Se questo è "comunismo", ci possono stare non solo gli Occhetto, gli Ingrao e i Cossutta, ma anche robuste truppe di CL e, perché no?, un Rauti. Ci sta da sempre l'ideologia socialdemocratica, in alcuni casi distanziandosi "a sinistra" da questa melassa "liberista" (1).

Nessuno scandalo, perciò, se Petruccioli, molto onestamente, afferma: da tempo non siamo più comunisti nel senso storico, marxista, che a questo nome va attribuito ed oggi ci apprestiamo unicamente a sanzionare questo dato di fatto per non trovarci impacciati nell'andare oltre nel senso della nostra tradizione. Non siete d'accordo? Provatevi a cancellare la cosa, non il nome. Che fanno invece Ingrao & C.? Elevano a principio nominalistico il proprio daltonismo; vogliono anch'essi passare col verde, ma si ostinano a dire che è rosso. Non è un granché

...a tutto campo

Le due mozioni del "no" contestano ad Occhetto di trarre dal fallimento del sistema (del "vecchio sistema", corregge Cossutta) dell'Est conclusioni inferenti alla passata tradizione del Pci, mentre quest'ultima ne uscirebbe addirittura rafforzata alla radice.

Qui il guazzabuglio è ancor più totale. Da un lato si dice che "il progetto comunista non solo è rimasto ben lontano ma è stato totalmente contraddetto nei regimi dispotici dell'Est" (dove, di logica conseguenza, s'è messo in atto un sistema contro-comunista); dall'altro si parla di una "ricerca tormentata di un nuovo tipo di società in cui si congiungano socialismo e democrazia" pena "la pura e semplice restaurazione con gravi conseguenze - di meccanismi e valori tipici delle società capitalistiche".

Cerchiamo di capirci qualcosa. Dunque ad Est avremmo un... socialismo "disgiunto" dalla "democrazia" da preservare dalla "restaurazione" etc. etc. Dal "sistema totalmente contraddittorio" passiamo ad un quadro che vede le sovrastrutture politiche in arretrato rispetto a quelle del capitalismo reale al tempo stesso in cui quelle economico-sociali sarebbero andate oltre (ed andrebbero salvate dai rischi dell'"omologazione"). Ovvero: avremmo lì contemporaneamente soggetti più liberi economicamente e socialmente, meno liberi politicamente. Prendendo il fior da fiore dell'una e dell'altra realtà il "progetto" andrà finalmente in porto. Logico che chi è capace così di scindere in due il problema della "libertà" debba poi scrivere che "molti elementi di analisi forniti da Marx o che si sono cristallizzati in correnti marxiste (quali di grazia?, n.) non hanno retto alla prova della realtà". Il fatto è che voi non vi siete mai appoggiati a quegli elementi di analisi (e di battaglia) e della realtà non capite un sacrosantissimo tubo)

Molto più correttamente (diremmo più "marxisticamente" à la bourgeois), Occhetto e i suoi concludono che il fallimento del sistema dell'Est non può essere delimitato ad una parte della questione (la sovrastruttura politica), ma coinvolge il tutto e che la correzione gorbacioviana, se vuole avere un senso, deve implicare un totale mutamento di rotta (potendo a tal fine anche lui appoggiarsi ad una "tradizione" precedente di divaricazione dal comunismo storico per venire al dunque: nihil ex nihilo).

Tanto più -ed è sotto gli occhi di tutti- che la "glasnost"' ad Est marcia di conserva con la "perestrojka" (due facce indissociabili di uno stesso problema): i ritrovati valori politici richiamano quelli economici, e viceversa; tutti e due recitano "Occidente", "socialdemocrazia", ed all'Est le "costituenti" paventate qui da Ingrao & C. si sono già fatte senza eccessivi scrupoli nominalistici.

Se questa è la realtà concreta che si vuol negare lo si dica e ci si appresti allora ad una difesa del sistema "real-socialista", riformabile fin che si vuole, ma sulle proprie basi, consone (e non "contraddittorie") al "progetto comunista" (tra l'altro, non si capisce di che "progetto" si parli quando si dice che il comunismo "è tuttora più un orizzonte che un disegno di società": bello quest'orizzonte che non disegna nulla; pare la storiella del secchio delle monete d'oro dove finisce l'arcobaleno!).

Nessuno, neppure Cossutta, oserebbe arrivare a tanto...

Pci e "socialismo reale", ieri e oggi

La messa a confronto tra "vecchio" Pci e sistema "real-socialista" ha offeso parecchia gente, anche oltre le mura di Botteghe Oscure. Sentite Dp: "Una liquidazione che usa, per giustificarsi, una prima argomentazione paradossale: il paragone con il crollo dei regimi autoritari dell'est europeo. Il Pci, e anche la nuova sinistra Italiana (la lingua batte dove il dente duole!, n.), da almeno vent'anni ha segnato la sua distanza dai modelli statalisti dell'oriente (si noti bene!, n.) sovietico... È quindi surreale che oggi il nuovo segretario (del Pci) si faccia carico, in chiave autolesionista, delle vicende politiche di partiti comunisti con i quali da tempo era stata segnata una distanza e uno "strappo"." (A Sinistra, no11-12, '89).

Nessun surrealismo, nessun masochistico autolesionismo.

Non è che Occhetto "identifichi" il Pci con lo stalinismo tout court per seguirlo nel naufragio. A1 contrario, egli prende contemporaneamente atto dell'"originalità" che ha portato il Pci ad essere via via, nel tempo, quello che è oggi (una parte a pieno titolo della "sinistra occidentale"), e della matrice di partenza che a lungo ne ha vincolato la fisionomia, in un modo o nell'altro, a quel modello... "asiatico" (Natta ed Ingrao stessi parlano di "reticenze ed errori", non superati -come s'è visto- neppure con Berlinguer e, da quel che abbiamo letto qui sopra della mozione 2, neppure coi suddetti estensori e i loro supporters "a sinistra"). È un atto dovuto, perché lo stesso tifo pro-Gorbacev ha un senso se si colora di "socialismo rigenerato" (passibile di ulteriori smentite e delusioni) e ne ha un altro se si connota come appello ai "riformatori" sovietici a smantellare il vecchio modello per raggiungere l'Occidente "come il PCI ha già fatto".

Aggiungeremo qualcosa di nostro. La "prima rifondazione" del Pci (da tutti i picisti ed anche da buona parte della "nuova sinistra italiana" salutata nel Congresso di Lione del '26, col passaggio della direzione del partito dalla Sinistra ai centristi) fu il risultato non di un'"originale" strada intrapresa dai "comunisti italiani", ma della forza di pressione dello stalinismo, affermatosi sulle ceneri del movimento rivoluzionario internazionale. E lo fu (lo ammettono apertamente gli stessi storici ufficiali del Pci) attraverso non solo inaudite pressioni amministrative e "decisionismi" dall'alto (e "dall'esterno", se volessimo stare ai "confini nazionali"), ma anche attraverso il più brutale impiego del broglio elettorale (mettendo nel computo dei voti per il Centro il 90% degli iscritti non potuti consultare: ne prenda nota chi oggi, delle mozioni 2 o 3, parla di "violazione delle regole democratiche" per la democraticissima consultazione in corso nel Pci!).

Ironia delle cose!, Ingrao, Natta, Cossutta, "manifestini", dippini e vario altro sinistrame, non per questo s'indignano (e ne hanno ben ragione dal loro punto di vista) perché è nato, artefice Stalin, il "nuovo partito comunista", "antisettario", democratico e, soprattutto, nazionale.

In secondo luogo: "quel" nuovo Pci è rimasto ancorato per decenni a quel "progetto in contraddizione col comunismo" contro cui oggi si tuona, sporcandovisi le mani sino in fondo (liquidazione degli oppositori in Spagna, eliminazione del Pc polacco, lotta contro il "titofascismo", panegirici dell'intervento sovietico a Berlino nel '53, a Varsavia e Budapest nel '56, "comprensione" per il kadarismo e per Jaruzelski...). L'"originale" matrice nazionale togliattiana si è svincolata da Mosca (svincolandosi assai più dal comunismo) per un fatto assai semplice: che il modello stalinista di "partito nazionale" e di "socialismo in un solo paese" non ha potuto conciliare l'"unità del movimento comunista internazionale" con l'adesione del Pci alle "specifiche condizioni nazionali" italiane di uno sviluppo capitalista sempre più impermeabile alla sovrapposizione del "modello sovietico". Apparente paradosso, è lo stalinismo che nega sé stesso (non nella sua sostanza, da sempre controrivoluzionaria, ma nei suoi progetti di potere).

Ciò che spiega 1'"evoluzione" del Pci è dunque la forza del capitalismo italiano (ed occidentale), assurto a potenza imperialista, combinato col plastico adattamento "nazionale" al suo sviluppo del partito stalinista, e proprio in quanto stalinista. Ancora una volta ha ragione Occhetto: il riscatto dell'"autonomia" del "comunismo italiano" implica l'assunzione definitiva di quest'adesione al proprio capitalismo (all'Occidente), recidendo ogni residuo legame con la tradizione "comunista" ed "internazionalista" di origine.

Non si tratta di stabilire di che cosa c'è da "vergognarsi" per il passato, ma di quale dev'essere il cammino di marcia per il presente e per il futuro. Chi ha qualcosa di diverso da dire alzi la mano.

Perché molti "si" dalla classe operaia?

Fin qui la parte che potremmo definire di teoria e di storia.

Altra potrebbe essere la questione del come la "svolta" di Occhetto è sentita nei suoi riflessi sul movimento di classe attuale (per quanto non si possa elevare alcun muro divisorio tra le due questioni). Ammettiamo di buon grado che fior di militanti proletari possano avvertire nella "svolta", al di là di tutte le "inutili disquisizioni" sopra esposte, il rischio di una ulteriore verticale caduta della stessa conflittualità ed identità operaie (di per sé non incompatibili col riformismo: e chi vuole scostarsi di li?). Ne avrebbero le migliori ragioni.

Una risposta "forte" a questo rischio da parte di settori proletari di avanguardia del Pci non intaccherebbe ancora l'impianto riformista complessivo del partito (cui tutte le "componenti" aderiscono), ma rappresenterebbe senz'altro un primo, salutare elemento di chiarimento, di lotta, di spostamento dei rapporti di forza (oggettivi e soggettivi) di classe.

Sta di fatto, però, che una tale reazione non si configura in alcuna reazione di massa dalla base, ma passa unicamente attraverso gli schieramenti definiti attorno alle tre mozioni. E qui è necessaria un'altra doccia fredda sulle zucche degli "antiliquidazionisti", interni e (semi)esterni: non è affatto vero che le "sinistre" del Pci siano meglio attrezzate da questo -pur limitato- punto di vista rispetto al centro occhettiano.

È assolutamente inesatto dire che il riformismo, anche il più esangue, non voglia o non sappia "mobilitare gli operai". Il problema sta in questo: con quali programmi?, verso quali obiettivi? Se un Bertinotti parla di riaccendere la conflittualità operaia, un Bassolino non vi è da meno ed è anzi pronto a risventolare le bandiere di un riformismo "ultraconflittuale" e quasi quasi "rivoluzionario". Certo rinnovato "radicalismo" bassoliniano non è una semplice "trovata" per fottere quelli del "no" sulla "sinistra", ma s'inserisce perfettamente nella tradizione riformista. Se ne uscirebbe non contendendosi l'esclusiva del quantum di conflittualità (esclusività che non appartiene a nessuno), ma affermando un'alternativa di programma su tutta la linea. Ma chi oserà mai dire nel Pci: intendiamo fare delle vostre lotte lo strumento di una rottura rivoluzionaria che consegni al proletariato tutto il potere per l'instaurazione del socialismo?

Va detto di più. In una situazione in cui questo obiettivo oggettivamente non si pone e soggettivamente nessuno pone come "orizzonte" concreto, il centro occhettiano può farsi forte di fronte agli operai di un discorso del genere: Il Pci da tempo e per sempre -in questo assolutamente unitario- ha rinunziato all'"utopia" rivoluzionaria; non rinunzia però a battersi, nel quadro di un sistema capitalista da piegare al "bisogni sociali", per la difesa e la promozione dei "più deboli", quali voi siete; la strada per arrivarci consiste nel nostro accesso al potere governativo (la stanza dei bottoni delle "scelte macroeconomiche"); le vostre lotte costituiscono un elemento essenziale a tal fine e noi intendiamo promuoverle in tal senso; esse, beninteso, devono sottrarsi ad ogni suggestione "operaistica", "massimalistica", da distruttivo conflitto "classe contro classe" (siamo o no tutti d'accordo?); proprio per questo esse devono servire a stabilire le opportune "alleanze" di cui abbiamo assoluto bisogno con altre forze politiche, altri movimenti, altre classi "di progresso", senza di che l'accesso al governo ci sarebbe precluso. Quindi: noi vi promettiamo esattamente ciò cui voi stessi siete realisticamente interessati.

Il discorso, da Togliatti in qua, non fa riformisticamente una grinza. Dove sono le "divergenze fondamentali" quanto a questo?

Vediamo un po' quel che dicono le varie mozioni.

Programma: "riforma" del sistema che ne cancelli i "tratti" di diseguaglianza ed antisocialità. 1, 2, 3: tutti d'accordo.

Basi sociali: tutte le classi "progressiste", dagli operai ai professionisti, dai disoccupati ai piccoli imprenditori, dagli studenti ai piccoli imprenditori ed ai grandi capitalisti "illuminati", passando per commercianti, artigiani, intellettuali etc. 1, 2, 3... come sopra.

Forze politiche. Mozione 1: la "sinistra europea" precipuamente organizzata dai partiti della Seconda Internazionale (in Italia: con Craxi-Napolitano -o con un ipotetico Psi decraxizzato- Occhetto -), i partiti laici progressisti, i cattolici, i verdi, i radicali.

Mozione 2: la "sinistra europea" (da cui escludiamo l'"attuale" Psi), i partiti laici progressisti, i cattolici, i verdi "di sinistra".

Mozione 3: i soli partiti socialdemocratici "progressisti" europei e non quelli diventati "apertamente reazionari", i cattolici, le "forze di progresso" che stanno trionfando ad Est.

Il piatto è lo stesso, salvo le dosi della salsa, giacché è chiaro che a Napolitano piace di più il gusto del garofano ed a Cossutta la salsa tartara. La differenza sta, semmai, nel fatto che i fautori delle mozioni 2 e 3 sembrano rassegnati a non mettersi mai a tavola: da un lato essi hanno rinunziato all'alternativa comunista e si dibattono come Occhetto nella ricerca delle "alleanze riformatrici", dall'altro restringono la rosa di quest'alleanza entro i confini di una perenne opposizione "salva-anima".

Proprio per quest'ultimo motivo non deve stupire che il "si" abbia abbondantemente mietuto consensi nelle sezioni operaie. Gli operai sono terribilmente realistici e, dal momento che essi continuano ad aderire ad una visione (ed un'organizzazione riformista, non riuscendo a schiodarsene in nulla nell'essenziale, essi esigono almeno una contropartita certa (o che appaia almeno tale). "È ora di cambiare - La classe operaia deve governare". La "linea Occhetto" pare a molti proletari la più consona a tal fine, e di ciò i mozionisti 2 e 3 possono incolpare solo sé stessi.

Lo schieramento "trasversale" a cui guardiamo

Da quanto siamo venuti sin qui dicendo appare chiaro perché, per noi, non c'è alcuno schieramento da "preferire" e tantomeno da "sostenere" dei tre che si affrontano oggi nel Pci. Non per motivi di "indifferentismo" rispetto ad una questione che comunque coinvolge gli interessi e i sentimenti della nostra classe al di là della sua attuale collocazione, ma perché effettivamente nessuno di quei schieramenti è in grado anche solo di rimettere cautamente in moto delle forze attive di ripresa dell'attività e della coscienza proletarie. Il richiamo al pericolo di una gestione moderata del "rinnovamento" da parte della leadership occhettiana agitato da quelli del "no" non si concretizza in alcuna indicazione alternativa capace di mettere in campo la forza decisiva del proletariato. "Eccesso di istituzionalismo"? L'accusa suona un pò ridicola in bocca a chi s'è fatto sin qui artefice di fantaprogetti istituzionali per "riformare le regole del gioco" a suon di "riforme (istituzionali) del sistema politico" (Ingrao). "Cedimento al Psi"? A parte che nel fronte del "si" possono tranquillamente convivere, per ora, fautori di un immediato rapporto di collaborazione con Craxi ed "anticraxiani di ferro" (... cartapestaceo o "cartoonista"), non è poi vero che quelli del "no" sarebbero pronti, per "battere Craxi", a ben altri compromessi con "quel che passa il convento politico italiano", a cominciare dalla stessa Dc ("deforlanizzata"? Ma questa è una chiacchiera)? "Movimentismo incoerente"? Ma -torniamo sempre al punto!- chi oppone al magma informe dei "nuovi soggetti", dei "nuovi bisogni", dei "cittadini" quell'unico elemento di unificazione e direzione di tutte le singole contraddizioni che il capitalismo suscita rappresentato da un programma anticapitalistico generale incentrato sul proletariato? Il signor Nessuno.

Ben lungi dal considerare "privo d'interesse" il dibattito nel Pci, da tempo abbiamo detto che avremmo salutato come evento di prima grandezza l'entrata in gioco di settori almeno dell'avanguardia proletaria militante per riaffermare, come che sia, il "proprio punto di vista". Quest'eventualità non si sta, per ora, e disgraziatamente, realizzando. Due anni fa una ripresa decisiva delle lotte operaie, sull'onda delle promesse fatte balenare alla "Conferenza Nazionale dei lavoratori" del Pci e subito insabbiate (dov'era allora la "sinistra" attuale?), avrebbe potuto produrre un inizio di processo in tal senso. Questa opportunità è andata persa, perché, nelle condizioni date, la disponibilità operaia aveva bisogno di un segnale e di uno stimolo dall'alto, dai "propri" vertici: il primo si è subito spento, il secondo non è mai venuto, da nessuna parte.

Per questi motivi, la base proletaria militante si è presentata all'appuntamento del Congresso "straordinario" in condizioni di particolare debolezza ed anche di prostrazione. Non è un caso che alle assemblee delle sezioni operaie (abbiamo sott'occhio i dati della FIAT e dell'Alfa, e non son bruscolini!) la partecipazione è stata estremamente ridotta (da poco più del 10% al 30% scarso) e priva di alcun apprezzabile contenuto "antagonista". Sarebbe sciocco imputare un tal disastro alla sola politica dei "liquidatori" occhettiani: se davvero una solida tradizione di classe (non parliamo neppure di una tradizione rivoluzionaria!) si fosse sentita minacciata dal pericolo di una reinversione di rotta nata "inopinatamente" dalla testa di qualche dirigente, lo schieramento a difesa di essa sarebbe stato partecipato ed estremamente caldo. Il fatto è che quella tradizione mancava del tutto e gli operai non si sono sentiti sbalzati improvvisamente fuori strada. Da tempo quella è la strada su cui ci si è messi, tutti, a cominciare dagli "oppositori" attuali al "nuovo corso".

Per lo stesso motivo non stupisce che i più attivi tra i militanti operai si siano divisi "trasversalmente" tra il "sì" e il "no", premiando massicciamente addirittura il primo per il mix di "realismo" e (ri)promessa di "sostegno alle lotte" ch'esso ha saputo combinare.

Se proprio dovessimo "scegliere" uno schieramento cui riferirci nel dibattito in corso, diremmo proprio di dover scegliere non tra una delle tre mozioni, ma quel settore "trasversale" di militanti operai che si è diviso nel voto trovandosi unito nel rivendicare dal partito un minimo di attenzione in più alla propria condizione di sfruttati ed ai propri bisogni non omologati né omologabili a quelli dei padroni. Questo è il settore che costituisce in qualche modo l'unica "frazione" che c'interessa. Non tanto per quel che essa sa ed osa oggi esprimere, ma per l'insopprimibile contraddizione antagonista di cui essa è portatrice, foss'anche all'immediato ai più bassi livelli soggettivi di coscienza. Questo è il "nocciolo duro" che non si lascia scalzare e che gli sviluppi succesivi della situazione torneranno oggettivamente a rimettere in primo piano. Ma proprio in vista di ciò è tassativo sin da oggi non sprecare questa chanche affidandola ai maldestri giocatori d'azzardo delle cosidette "sinistre" dei vertici picisti. Esattamente quello che non possono capire coloro che, fuori dal Pci e - a sentir loro - alla sua "sinistra estrema" - hanno preso la "sortita" di Occhetto a pretesto per mettere in piedi un "fronte della salvezza" con Ingrao o Cossutta. "Non toccateci la nostra tradizione! Giù le mani dal nostro Togliatti!". Commoventi rossande! Il re è finalmente nudo? Tutti gridino: che begli abiti indossa!

Il marasma in cui si dibatte attualmente il Pci, e con esso -ahinoi!- il proletariato sta in relazione con un fattore oggettivo che nessuno potrebbe rendere inoffensivo ("neppure noi", lo ammettiamo...): la forza d'urto di un capitalismo imperialista all'attacco su tutta la linea ed in grado di amministrare una certa "pace sociale" anche a colpi di carote. Ma vi concorrono pure potenti fattori soggettivi (non scindibili dal precedente): il fatto, cioè, che dal '26 il proletariato italiano ed internazionale è stato piegato alle ideologie, contrapposte ma congiunte, dei "valori borghesi" veicolati nella classe dalla socialdemocrazia e del "socialismo" in veste staliniana (che il Pci ha saputo "originalmente" trasmettere al proletariato italiano). Se queste due tradizioni oggi s'incontrano lo si deve precisamente al risultato della sconfitta sul campo del movimento rivoluzionario europeo degli anni '20, all'introiettamento soggettivo di quella sconfitta secondo le regole che il, capitalismo suggerisce e impone.

Il fattore oggettivo salterà in aria per conto suo. Quello soggettivo dovrà essere liberato sino in fondo dalle "tradizioni" del passato che si porta addosso. A questa stregua, ogni conservatorismo del tipo Ingrao-Cossutta ritarda e complica ulteriormente la strada verso il "progetto comunista", oltre ad essere praticamente inefficace sul suo stesso piano dichiarato, di "difesa della propria tradizione".

Lo capite perché, mentre siamo lontani anni-luce dal sottoriformismo occhettiano, lo siamo del pari dal sottomassimalismo ingraian-cossuttiano?

Il difficile, per tutti, viene adesso e più verrà in appresso

Il Congresso "straordinario" del Pci è già stato fatto. Esso dovrà solo ratificare una vittoria, quella di Occhetto, già conseguita. I conti cominceranno a farsi dopo.

Vincere la battaglia delle mozioni è stato sin troppo facile. Ed anche troppo facile catalizzare sulla mozione del "sì" una quota maggioritaria di voti degli operai. Più difficile sarà gestire la "cosa nuova" di fronte alle contraddizioni che si vanno incubando; più difficile sarà far quadrare i conti tra un riformismo senza riforme nel venir meno delle prospettive di indefinito "progresso pacifico" del capitale alle quali ci si è dati e l'esigenza proletaria di non fornire altro sangue (in senso anche stretto, stavolta!) alle esigenze del capitalismo in crisi.

Il "nuovo partito" che si sta fucinando a Botteghe Oscure è ancora il punto di riferimento cui guarda la massa operaia, non c'è dubbio, anche perché "a sinistra" di esso le "alternative" sono ancor più inconsistenti (non diciamo, attenti!, a causa di ciò, quasi presupponendo un "vuoto di direzione" a sé stante). È sicuro, quindi, che la ricostituzione di un partito comunista (ché di questo si tratta) avrà molto da "sporcarsi le mani" con processi di messa in crisi del rapporto tra masse (riformiste) e partito (sotto) riformista.

Rispetto agli "scenari" di questi processi c'è oggi una novità nei confronti del passato.

Il Pci di Togliatti era un partito "operaio"-borghese rigidamente centralizzato, forte di una visione unitaria dei problemi e di un programma in qualche modo complessivo di "democrazia progressiva". Il perno di esso era la classe operaia, e non solo "per definizione", ma nei fatti. Così poteva e doveva essere, nell'arco storico in cui s'era andato definendo.

Il Pci di Occhetto, erede diretto di quella tradizione, superata (borghesemente) in avanti, è quello che può e deve essere nell'arco storico attuale. Un partito decentralizzato, con una visione "a bocconi" dei problemi di una società "complessa" e "plurima" sempre più centralizzata e totalitaria al fondo, che non permette spazi intermedi di "riforme" tra l'accettazione integrale dei suoi meccanismi fondamentali e la rottura rivoluzionaria degli stessi. Il proletariato non è più per questo partito l'asse centrale, ma uno degli elementi sociali (senz'altro necessari) su cui s'incardina una complessa rete di interessi tra loro diversi e, oltre un certo limite, collidenti tra loro.

Il vecchio partito traboccava di dirigenti operai (sia detto senza alcuna nostalgia!); quello attuale, sulle orme della "mutazione genetica" che aveva già mutato la faccia del Psi a metà anni 60, seleziona "naturalmente" i propri dirigenti tra una pletora di figure piccolo e non solo piccolo borghesi che nulla hanno più di operaio (lo si vede anche semplicemente ad occhio) e neppure sono più in grado di captare "dall'interno" gli umori profondi del proletariato. Tra la schiera dei funzionari di partito a tutti i livelli (dalla coop al sindacato) e la massa operaia non c'è, perché non può più esserci, il filo diretto del passato. I linguaggi stessi diventano incomunicabili tra loro: un tempo gli operai "migliori" si educavano sulle pagine di "Rinascita" per assurgere al ruolo di "intellettuali di partito"; oggi la stessa testata esclude programmaticamente un tale pubblico per rivolgersi "in esclusiva" ad una cerchia di intellettuali-intellettuali il cui rapporto col partito è gestito "in proprio", "specialisticamente", in quanto "gruppo sociale" specifico.

Alle vecchie sezioni di lavoro, centralmente pianificate, si sostituiscono oggi le "sezioni tematiche" a soggetti indipendenti tra loro, tanto per i problemi delle "diverse classi rappresentate nel partito" quanto per i "diversi temi" che "non hanno diretto riferimento a questioni di collocazione classista" (dall'ecologia al pacifismo, dalla cultura alla questione femminile tanto per dirne alcune) (2).

Questo insieme di modificazioni ha già posto sotto accusa addirittura la "forma-partito" in sé stessa, in quanto residuo, a quel che si dice, di una concezione vecchia, ottocentesca della politica (di cui il leninismo sarebbe stata una perpetuazione "giacobina"). L'assenza di un centro di riferimento (quale solo può essere un comunismo rivoluzionario in grado di "sintetizzare" unitariamente ogni "singolo" aspetto della realtà e dello scontro sociali) porta il tardo-riformismo a frantumare la realtà in mille schegge è il capitalismo stesso ad imprimere una sua ferrea unità.

A questo proposito, va notato (a ulteriore riprova di quel che si è detto sin qui) che proprio la mozione Ingrao è la più "sparata" nel propugnare una tal novità: "È essenziale rompere una struttura tendenzialmente chiusa e verticistica, omogenea a una società fortemente caratterizzata dalle tradizionali stratificazioni di classe (oggi invece..., n.)... Entro questa struttura anche le "nuove culture" di cui abbiamo affermato il ruolo essenziale (l'ambientalista, la cultura delle donne, la non violenza, ecc.) sono venute a convivere con le culture di più antica tradizione del movimento operaio, ma senza che sia stato superato un rapporto di estraneità... Un'effettiva riforma del partito" deve perciò tendere "verso un nuovo assetto fortemente articolato e di tipo policentrico, ancorato a specifiche realtà tematiche e a molteplici centri di iniziativa e competenza...".

In breve: il partito deve saper riprodurre in sè stesso la realtà "complessa" della società presente, non più "tradizionalmente" stratificata in classi (ma non è "apologia di capitalismo"?).

Allo scoccare della crisi, questa struttura "riformata" avrà maggiori difficoltà a dominare le contraddizioni e riportare i separati "segmenti" lasciati sciolti ad unità. In particolare, essa predispone le condizioni per cui la riemergenza operaia avrà minori elementi di continuità e minori "legami di ferro" con una "tradizione riformista". Di fronte ad una rottura "nelle cose" dell'"ordine sociale", il proletariato accelererà straordinariamente il suo spostamento sul fronte dell'antagonismo di classe, procedendo su questa via "per salti" più che per lente dislocazioni progressive. Il corso del capitalismo giunto al suo capolinea storico sarà catastrofico; altrettanto lo sarà quello del riformismo ad esso legato; altrettanto (in senso finalmente salutare) quello del partito di classe (3).

Chi ambisca ad "intervenire" tra il proletariato oggi, in relazione al pre ed al post-congresso del Pci, tenga ben conto di ciò e del fatto che ne consegue: che prima di "saper parlare" ai sani militanti operai che vi si sentono (a ragione) coinvolti occorre sapere "cosa dire" ad essi, nella chiara visione della realtà che il corso del capitalismo predispone tanto per i borghesi e i riformisti quanto per i rivoluzionari.

Per questa somma coerente di motivi noi non abbiamo nulla da spartire con i "tattici" della "difesa delle ultime trincee" di una "tradizione" controrivoluzionaria da cui sognano di rilanciarsi all'attacco "poi" e nelle quali si troveranno, invece, impantanati per sempre.


NOTE

(1) Citiamo da un testo laburista del '56, quindi da quanto più lontano -nell'ambito socialdemocratico- si possa immaginare dalla tradizione marxista: "Oggi la maggioranza, ivi compresi molti che non si professano socialisti, sarebbe pronta ad accettare questa concezione generale dell'uguaglianza. Essi in teoria non rifiuterebbero a nessuno i1 diritto di trarre il massimo dalla propria esistenza. Ma l'attuazione pratica di questo principio implica conseguenze sociali che vengono assai meno prontamente accettate... Ciò che intendiamo si riassume dunque nel noto slogan "uguaglianza di possibilità"? Dipende dal suo significato. Taluni lo interpretano soltanto nel senso che ognuno dovrebbe avere il medesimo inizio nella vita; la società non dovrebbe distribuire né favori né svantaggi al momento della nascita. Tale è stata la concezione liberale dell'uguaglianza..." (Il socialismo nel ventesimo secolo, Roma, 1959). La "critica" all'inegualitarismo capitalista di Occhetto non va -in questo ha ragione Cossutta- molto al di là del livello proprio ad una "concezione liberale". Quanto alle "conseguenze sociali" che dovrebbe implicare l'attuazione del "principio socialista" di "uguaglianza" ed ai modi per renderla possibile, socialdemocratici classici e picisti non sono meno... liberali.

(2) Solo due esempi: giovani e donne. La FGCI rivendica una "reciproca autonomia" giovani-adulti, e quasi s'inventa una "classe giovanile" (Ferravilla aveva già parlato della "classe degli asini") con cui stare assieme "trasversalmente" ai partiti. Al Congresso del Pci ha presentato il "contributo" di una "carta programmatica itinerante" che, vi si legge, "vogliamo arricchire del contributo di tanti", che stiano dentro o fuori il partito od anche in altri partiti, purché "giovani", per "cambiarla" e per "cambiarci". E se questi sono oggi i "giovani comunisti" figuriamoci cosa diventeranno "da grandi"!

L'altro esempio si riferisce alla "lettera" delle cosidette "donne" che -tanto per non sbagliare- esordiscono subito col dichiarare che non si trovano nella forma maschile del partito (o addirittura vedono nella stessa forma-partito il controsoggetto maschile per definizione) e che intendono far parte per sé stesse in forza della "differenza sessuale". Diciamo "cosidette donne" non perché dubitiamo che si tratti di bipedi di genere femminile, ma perché la loro specie non ha niente a che spartire col soggetto femminile storicamente concreto schiavo di una doppia oppressione (in quanto proletarie e in quanto donne) e che in modo storicamente concreto lotta per la propria doppia emancipazione stringendosi attorno al partito... senza sesso della rivoluzione proletaria, bensì appartiene alla specie della piccolo-borghese che mira alla affermazione della "propria persona" privata all'interno della società capitalistica, in cui guazza benissimo e da cui esige soltanto "maggiori soddisfazioni", private per l'appunto. "A tal fine intendiamo continuare la pratica che privilegia l'appartenenza al nostro sesso e dunque la relazione fra di noi e anche con donne non comuniste". Che dire delle vere donne comuniste del passato (la Luxemburg, la Krupskaja, la Kollontaj ), compagne di un'unica battaglia rivoluzionaria? Forse che erano donne "dimezzate". Sembra di essa tornati agli "ultimi giorni di Pompei" di "Lotta Continua" al momento dello scioglimento. Diciamo la verità: mai avremmo creduto che così presto anche il Pci potesse esserne coinvolto e che i vari mozionisti ne coltivassero la mala piante!

(3) Non è qui la sede per tornare sul tema. Vogliamo solo dire che per farsi una pallida idea di quel che sarà il corso futuro del processo di rotture conviene riandare allo studio della storia del movimento operaio tedesco nel primo dopoguerra, cioè del movimento al più alto livello -allora- di sviluppo del capitalismo, con tutto quel che ne deriva. Intruppato disciplinatamente nella socialdemocrazia, il proletariato tedesco ha "realizzato", sia pure a livello di settori d'avanguardia (ma di massa, perdio!), il tradimento della socialdemocrazia quasi d'improvviso, e cioè allorquando il corso della "pacifica e graduale ascesa" cui essa aveva sacrificato il programma marxista è venuto a collidere col trauma della "discesa agli inferi" della guerra e della crisi. Scontando l'assenza o lo scarso peso di una corrente rivoluzionaria agente tra le sue fila quale forza pienamente indipendente, questa massa elaborò "spontaneamente" tutta una serie di esperienze, teoriche e pratiche, di "rottura" con la precedente "tradizione socialdemocratica", in tumultuosa e rapidissima successione. "Spontaneamente", essa è arrivata sin dove poteva arrivare, impossibilitata e rompere davvero alla radice col riformismo (a ciò non era sufficiente la rottura con la socialdemocrazia né lo erano le forme, anche le più... "ultrarivoluzionarie" in quanto al di qua del marxismo).

Nondimeno quell'esperienza ci ha lasciato un'immagine del futuro e, in primo luogo, un insegnamento: che perché l'"auto-attività" delle masse (che negli svolti futuri sarà tanto più accentuata e più, oggettivamente, tesa a ricongiungersi al programma comunista) possa venir "diretta" nel senso della rivoluzione, occorre che sin d'ora i comunisti si pongano nella prospettiva di quel programma e di quegli svolti. Chi pensi di lucrare qualcosa per il comunismo, o per sé stesso, eludendo tali compiti non fa che disperdere le "occasioni" presenti e compromettere i risultati a venire.