SUPERSFRUTTAMENTO, NUMERO PROGRAMMATO, RAZZISMO:
L'UNICA DIFESA È L'ORGANIZZAZIONE DEGLI IMMIGRATI!

Indice


L'Europa Occidentale sfonda ad Est, ma si barrica a Sud contro l'immigrazione dei diseredati. Anche la "democratica" Italia si dota di strumenti di programmazione e di freno. Va avanti il durissimo percorso di lotta e di organizzazione degli immigrati. Ostacoli, difficoltà e prospettive.


Mentre le potenze dell'Europa Occidentale affilano le armi della concorrenza nella corsa ai nuovi spazi di penetrazione economica aperti ad Est dalla "clamorosa" caduta dei muri, sul versante meridionale l'Europa "fortezza del benessere" va costruendo barriere sempre più spesse per contenere e respingere il flusso immigratorio dei diseredati del Sud del mondo, che premono irrefrenabilmente verso il ricco Nord alla ricerca delle briciole della ricchezza che vi si concentra.

I governi europei, ben pronti a sfruttare in chiave antiproletaria i nuovi flussi di immigrazione "anticomunista" dai paesi dell'Est, procedono serratamente verso l'inasprimento delle cosiddette politiche di stop, che già dalla metà degli anni settanta hanno fatto la loro apparizione nei paesi di più antica immigrazione.

E mentre la "Carta sociale" della CEE, su cui tante chiacchiere hanno fatto i socialdemocratici europei, non spreca una sola parola sui diritti dei 10 milioni e passa di lavoratori "extra-comunitari", lo stesso accordo "contro l'immigrazione illegale" firmato a Schengen tra Germania Federale, Francia e paesi del Benelux viene superato nei fatti a destra, perché da un lato denunciato dalla Germania Federale in quanto discriminante verso i tedesco-orientali, dall'altro ampiamente superato dalla politica ancor più restrittiva del governo francese, che, sull'onda delle vittorie elettorali di Le Pen, ha addirittura codificato la "chiamata nominativa internazionale", cioè la chiusura totale delle frontiere per l'immigrazione a carattere economico con la sola eccezione dei lavoratori assunti nominalmente dalle imprese.

Le economie europee necessitano di quote di lavoratori immigrati, come anche interi settori prosperano sull'esistenza di un doppio mercato del lavoro. Ma gli sforzi dei vari governi, a livello nazionale e sovranazionale, per limitare l'immigrazione a quelle che sono le proprie esigenze di sfruttamento, cozzano irrimediabilmente con le cause strutturali e l'insopprimibile spinta materiale all'immigrazione, consegnando alle ricche cittadelle dell'Europa i termini dirompenti di un non solubile conflitto di classe.

L'Italia sulla via della programmazione dei flussi immigratori

In questo contesto europeo l'Italia non è certo quell'eccezione che i "nostri" governanti vorrebbero far credere.

L'Italia degli anni '80, quinta potenza economica mondiale, è divenuta anch'essa meta definitiva e non più semplice ponte di transito dei flussi immigratori dal Sud del mondo.

La borghesia italiana è ben contenta di poter finalmente attingere anch'essa a piene mani a questa riserva di sovraprofitti entro i confini nazionali. Al tempo stesso l'Italia da un lato pretende accreditarsi come nazione che gestisce "democraticamente" il rapporto con gli immigrati, dall'altro spera di evitare, con una politica paternalistica che non esclude delle minime concessioni, le acute situazioni di conflittualità presenti nei paesi europei di più antica immigrazione e di più forte organizzazione della resistenza degli immigrati (in particolare l'Inghilterra e la Germania).

Il problema dell'immigrazione extracomunitaria rappresenta un non secondario capitolo nell'ambito della complessiva gestione dei rapporti imperialistici che l'Italia concorre ad imporre ai paesi e alle popolazioni del Sud del mondo.

L'Italia, che gioca innanzitutto le carte della penetrazione economica in un'area -quella mediorientale e nordafricana- percorsa a più riprese dall'odio violento delle masse contro l'imperialismo (soprattutto americano), affida il consolidamento delle proprie "buone relazioni" con i governi dell'area ad una immagine di "imperialismo dal volto umano" e, pertanto, non rinuncia mai ad indorare con una patina di lucido democratico la vera sostanza della propria politica di rapina ai danni dei paesi dominati.

Ma, aldilà della diplomazia e della propaganda, nella cruda realtà dei rapporti sociali la borghesia italiana non lesina sfruttamento agli immigrati né risparmia loro ogni sorta di vessazioni, aggressioni e ricatti, che si appalesano oltremodo funzionali per rimarcare a fondo le condizioni più favorevoli per il più comodo e vantaggioso sfruttamento.

Il governo italiano, dopo le lacrime di stato per l'assassinio di Jerry E. Maslo, ha proceduto con tempismo all'approvazione del decreto-legge del 30.12.89, che ha sancito in termini espliciti il principio della limitazione dei flussi immigratori.

Benché la stampa filogovernativa abbia esaltato il decreto di fine anno come la positiva e generosa risposta dello Stato italiano agli immigrati, e nonostante la presentazione fattane dalla stessa stampa di opposizione, che, senza troppo far luce sul reale impatto del provvedimento sulle condizioni della massa degli immigrati, ne ha dato comunque una valutazione positiva, non vi è dubbio che quanto decretato dal governo si muove sulla stessa linea delle politiche restrittive già varate dagli altri Stati europei.

Insieme all'abolizione della scandalosa "riserva geografica", il governo italiano ha offerto agli immigrati una nuova sanatoria, dopo quella introdotta dalla legge 943 del dicembre '86. Ma, accanto a queste misure, che offrono agli immigrati soltanto qualche temporanea boccata d'ossigeno ovvero soluzioni realisticamente praticabili solo per delle minoranze, il decreto sancisce nella sostanza e in via generale il principio della "programmazione dei flussi immigratori", puntualizzando al riguardo modalità di ingresso e di permanenza, con tanto di sanzioni e misure di espulsione per i trasgressori, e fissa pertanto -come ha chiarito lo stesso Martelli- "le condizioni e le procedure attraverso le quali i clandestini già presenti in Italia o si regolarizzeranno (con la sanatoria n.n.) o verranno espulsi".

Il decreto prevede la programmazione annuale del flusso di immigrati alla stregua delle necessità del mercato del lavoro interno, nonché degli accordi bilaterali con i governi dei paesi di provenienza: verranno accolti, dunque, soltanto quegli immigrati che i rispettivi governi avranno saputo vendere alle condizioni più vantaggiose per l'Italia.

Per quanto riguarda la tanto enfatizzata sanatoria, del provvedimento ancora una volta potrà usufruire soltanto quella ristretta minoranza che ha già trovato un lavoro in regola (molti immigrati hanno chiesto la sanatoria esibendo il codice fiscale) ovvero un padrone che li assumerebbe una volta in regola (gli industriali con i quali ha solidarizzato Donat-Cattin quando -anticipando di qualche settimana la sanatoria governativa- ha consentito l'avviamento al lavoro di immigrati non regolari) o comunque disposto a regolarizzare il rapporto. A questi ultimi il governo offre l'immunità per le pregresse frodi contributive e fiscali (nessuna obiezione, invece, sullo sfruttamento pregresso e futuro). Ma quanti padroni troveranno conveniente venire allo scoperto? E quanti lavoratori di colore avranno il coraggio di chiederlo, quando la più probabile risposta è il licenziamento?

D'altra parte la nuova sanatoria si picca di essere più completa della precedente, perché vorrebbe "sanare" anche la posizione degli immigrati che esercitano il commercio ambulante. Ad essi il governo offre la regolarizzazione della propria posizione e 12 mesi successivi "di tolleranza" in attesa di una improbabilissima licenza. Questa previsione mette a nudo l'ipocrisia del governo, che addirittura offende l'intelligenza degli immigrati, offrendo loro una temporanea regolarizzazione per poterli meglio rispedire a casa tra 12 mesi!

Rimini, Villa Literno, Roma, Firenze: prosegue il processo di organizzazione dei proletari immigrati

Il governo Andreotti, nel sancire il "numero programmato", si è destreggiato abilmente per superare senza contrapposizioni laceranti l'ostacolo dei primi fermenti di mobilitazione dei lavoratori immigrati che, a partire dagli episodi di lotta di Rimini e di Villa Literno, sono sfociati nella grande manifestazione nazionale del 7 ottobre.

Di fronte alla scomoda presenza di un'ampia mobilitazione di massa in critica alla politica governativa del "numero chiuso" -subito riverniciato a "numero programmato"-, il governo ha inizialmente fatto buon viso a cattivo gioco. Così la manifestazione antirazzista veniva trasmessa in diretta da Rai 2.

Ma, passato il momento dell'adesione emotiva, le numerosissime organizzazioni politiche, religiose, sindacali promotrici della manifestazione hanno prestato maggiore attenzione a calibrare il proprio intervento alla luce di una più "realistica" valutazione a freddo degli interessi della nazione, sulla quale il governo ha continuato a far leva per sgombrare il campo da possibili ostacoli ai provvedimenti in cantiere.

D'altra parte il governo ha diretto ogni suo sforzo a dividere gli immigrati, mostrandosi disponibile a offrire soluzioni per limitate minoranze.

La successiva Convenzione antirazzista tenutasi a Firenze nella prima decade di dicembre non si è svolta nel clima di ampia adesione e partecipazione che aveva caratterizzato la manifestazione nazionale. L'Avanti ha attaccato la Convenzione, accusando il Pci di strumentalizzare gli immigrati. Cisl e Uil, già facenti parte del comitato promotore del 7, non hanno partecipato. Altre defezioni si sono registrate nel mondo cattolico. Nonostante la presenza di gruppi cattolici locali, di padre Balducci, delle riviste "Nigrizia" e "Missione oggi", le grandi associazioni nazionali Acli e Charitas, già presenti nel cartello del 7, non hanno aderito. La spiegazione di queste defezioni sta nei risultati del successivo convegno di metà dicembre della Conferenza Episcopale sul tema dell'immigrazione, ove la Chiesa si è pronunciata senza mezzi termini a favore della regolamentazione del flusso immigratorio.

La Convenzione di Firenze, proprio alla luce dei boicottaggi, delle defezioni e degli attacchi, sostanzialmente rivolti contro il processo di organizzazione degli immigrati, va salutata come un primo tentativo degli immigrati di organizzarsi su scala nazionale, quindi come un passaggio senz'altro positivo nella fondamentale direzione dell'organizzazione.

È stata l'occasione per un numero considerevole di associazioni di uscire dall'isolamento di comunità o localistico e di definire con altre associazioni una rete tendenzialmente stabile di contatti a livello regionale e una struttura di coordinamento che convochi una nuova assise nazionale.

D'altra parte la Convenzione ha rappresentato un primo passaggio di chiarificazione e decantazione delle posizioni, che ha costretto innanzitutto alla presa di distanze tutte quelle forze il cui antirazzismo non contempla la lotta e l'organizzazione degli immigrati, e che nel dibattito -inevitabilmente confuso- ha consentito una prima messa a fuoco dei problemi e degli interlocutori (tra i quali, purtroppo, è ancora assente quello decisivo: la classe operaia).

Sull'assise di Firenze ha senza dubbio pesato la politica di divisione portata avanti dal governo (che trova peraltro validi sponsor tra non pochi "amici" bianchi), come pure hanno pesato le ambiguità e le indecisioni della "sinistra", congenitamente incapace di esprimere un chiaro indirizzo di organizzazione e di lotta degli immigrati.

La Convenzione, dopo essersi dispersa nel dibattito di undici commissioni, non è riuscita a realizzare l'obiettivo prefissatosi dell'approvazione della cosiddetta "Carta dei diritti", dichiarazione che rivendica per gli immigrati il paritario godimento dei più elementari diritti, senza avere la forza, peraltro, di enunciare con chiarezza il fondamentale diritto di libero ingresso. Mentre nel Pci -come anche nella Cgil- ci sono militanti di base disposti alla concreta iniziativa a fianco degli immigrati e che -sia pur confusamente- si oppongono al numero chiuso, i vertici, viceversa, non sono affatto insensibili alle "realistiche" valutazioni dell'interesse nazionale. Per esempio Napolitano -eminenza grigia del nuovo corso e della rifondazione- già nel settembre scorso esprimeva dalle colonne dell'Unità un sostanziale accordo con il punto di vista di Martelli sulla regolamentazione dei flussi.

D'altra parte la questione degli immigrati è un test non secondario per il "nuovo" Pci, che misura su di essa da un lato la propria capacità di assumere fino in fondo il punto di vista dell'interesse della nazione, superando i "sentimentalismi" presenti nel partito, e dall'altro la credibilità della propria candidatura a rappresentare efficacemente quel "ceto medio produttivo" (massimamente interessato allo sfruttamento dei lavoratori di colore), i cui consensi elettorali il Pci agogna sopra ogni altra cosa. E mentre registriamo come positiva la dinamica (proprio in quanto premessa di ulteriori passi in avanti) che vede i lavoratori di colore attratti sempre meno dai centri dell'assistenzialismo cattolico e sempre più dal Pci e dal Sindacato, visti come interlocutori più adeguati per affrontare i problemi della loro condizione; dobbiamo invece denunciare da un lato il Pci e soprattutto la Fgci che sempre più spesso preferiscono deviare questa attenzione nella riproposizione "a sinistra" di un intervento di carattere assistenzial-ricreativo, e dall'altro il Sindacato che, a partire dalla totale subalternità alle esigenze del padronato, è riuscito a contrattare nello scorso ottobre con l'Associazione dei piccoli industriali torinesi una speciale "lista di disponibilità" per gli extracomunitari per assunzioni nominative per periodi brevissimi e a qualsiasi condizione di orario, firmando infine l'accordo nella versione "non razzista" che consente anche agli italiani di entrare nella lista speciale!

Per l'organizzazione degli immigrati e la lotta unitaria tra lavoratori bianchi e neri

È indubbiamente iniziato anche in Italia il faticoso cammino degli immigrati per l'organizzazione della propria forza e la definizione di un programma di lotta contro il supersfruttamento e la duplice oppressione di cui sono vittime. Difficoltà di collegamento e comunicazione dovute alle condizioni di ricatto e di clandestinità della maggior parte, le divisioni per nazionalità, per settori, per anzianità d'ingresso, tra regolari o regolarizzabili e non, l'intervento delle forze di governo e delle istituzioni "democratiche" per accreditarsi nel movimento e per selezionare gli interlocutori funzionali alla propria politica di divisione: il processo di organizzazione degli immigrati, irrefrenabile perché imposto dalla necessità di difendersi per sopravvivere, si confronta sin da oggi con queste e mille altre difficoltà, per una stabile organizzazione su base nazionale aperta a tutti gli immigrati e a tutte le associazioni e capace di darsi le proprie strutture organizzative ed il proprio programma.

Altro decisivo terreno di unificazione è quello dei lavoratori neri con la classe operaia bianca e con tutti i proletari italiani. Oggi su questo terreno padroni e governo possono giocare con estrema facilità la carta della divisione, quando non della contrapposizione; e su questo terreno decisivo la direzione del Sindacato misura tutta la sua congenita incapacità ad organizzare e dirigere il proletariato, nelle premesse (non è forse Trentin che filosofeggia sulle mille "diversità" tra i lavoratori?) e quindi nei risultati (quel bel capolavoro dell'accordo di Torino). Ma se oggi i lavoratori italiani sperimentano che la debolezza degli operai neri porta al peggioramento delle condizioni di lavoro per tutti, questa verità ne evidenzia un'altra contraria: la forza degli uni fa la forza degli altri e l'unità dà più forza a tutti.

Gli immigrati, con lo stesso processo di sindacalizzazione, si stanno muovendo verso i lavoratori italiani; ma questo non basta se la classe operaia è ferma. Perché l'unità si realizzi è necessario che gli operai, i lavoratori, i disoccupati bianchi respingano ogni sollecitazione a contrapporsi ai proletari immigrati, si oppongano con fermezza alla politica governativa di chiusura -sia pur parziale- delle frontiere, solidarizzino fino in fondo con le battaglie degli immigrati per il riconoscimento dei più elementari diritti, lottino contro tutte le manifestazioni della politica padronale di divisione.

Se il padronato ha interesse a regolare i flussi, per poi supersfruttare la manodopera clandestina, il proletariato ha tutto l'interesse, invece, alla piena sindacalizzazione dei lavoratori di colore, al loro inserimento in fabbrica non come schiavi ma come compagni di lavoro e di lotta, alla contrattazione unica ed assolutamente paritaria delle condizioni di lavoro, alla lotta unitaria di tutti i lavoratori, bianchi e neri, contro lo sfruttamento e contro i comuni sfruttatori!