Dossier PCI

La politica internazionale


Se per ogni partito borghese gli interessi nazionali costituiscono il referente primario dell'azione politica è evidente che esso deve dotarsi, a tal fine, di una sua politica estera.

I comunisti rivoluzionari si distinguono dai partiti borghesi anche in questo: essi non hanno una "politica estera" della "propria nazione" da proporre, ma un'unitaria politica internazionale ed internazionalista del proletariato; hanno dei nemici di classe in casa propria così come hanno dei fratelli di classe fuori di essa ("stranieri" per lingua, costumanze, razza, colore...).

Dove sta il PCI sotto questo aspetto?

Da un bel pezzo lo stalinismo ha dismesso anche il semplice richiamo ideologico all'internazionalismo proletario. Il 24 maggio del '43 il Komintern firmava l'autoscioglimento "tenuto conto dello sviluppo e della maturità politica dei partiti comunisti e dei loro quadri nei singoli paesi, ed anche in vista del fatto che nel corso della presente guerra alcune sezioni hanno sollevato la questione della dissoluzione dell’Internazionale comunista come centro dirigente del movimento operaio internazionale". Dal socialismo ai tanti socialismi "in un solo paese": l'atto di nascita delle tante vie "originali", policentriche, europee, mediterranee, italiane è tutto qui, ben prima che lo sottoscrivessero i vari Togliatti e Berlinguer, prendendo in mano l'asse ereditario trasmesso loro dallo stalinismo.

Quando il PCI ritorna in forze sulla scena italiana, dandosi sin dal '45 1'attuale struttura di "partito di massa", è chiarissimo che esso intende essere soprattutto un partito "profondamente nazionale". Il V Congresso si chiude col seguente appello "risorgimentale": "Tutto il popolo italiano sotto la bandiera della democrazia; la grande maggioranza del popolo sotto la bandiera del partito comunista e degli altri partiti democratici avanzati (tra cui si mette in prima linea la DC, invitata — qualche riga più sopra — ad "una più fattiva ed esplicita collaborazione", n.); tutta la nazione, unita e libera, sulla via del progresso politico e sociale".

Fintantoché l'Italia e l'Europa in generale sono rimaste schiacciate dalla strapotenza USA, il PCI si è dovuto richiamare alla "solidarietà internazionalistica" col "campo socialista" e, in primo luogo, con la "patria del socialismo" russa, in un quadro generale, però, caratterizzato non più da una divisione del mondo in fronti di classe, bensì da una competizione di appetiti nazionali o di area. È in quest'ultima chiave che si legge l'"anti-imperialismo" picista, in quanto interessato per fini nazionali a contrapporsi agli USA ed a stringere a tale scopo un blocco di "solidarietà" ed "alleanza" con l'URSS ed i movimenti di liberazione nazionale (sino al canto del cigno vietnamita). Questo blocco è via via passato, però, dalla vecchia forma kominternista a quella, molto più elastica, del Kominform (rapidamente superata dall'evoluzione dei rapporti inter-capitalistici nel secondo dopoguerra) ed infine a quella dei "rapporti bilaterali" tra partiti (e Stati che ci stan dietro) "indipendenti e sovrani". Man mano che l'Europa e, in essa, l'Italia acquistano maggior peso rispetto agli USA diventa ingombrante per il PCI anche il rapporto "privilegiato" con l'URSS, in particolare dal momento in cui gli interessi del Kremlino vengono a scontrarsi con quelli del partito comunista italiano (ed "europeista") ai confini della propria sfera d'influenza. Gli avvenimenti cecoslovacchi del '68 imprimono un'ulteriore svolta ai rapporti PCI-PCUS, nonostante tutte le riserve inerziali ad accollarsene le conseguenze sino in fondo.

Ancora nel '75, al XIV Congresso del PCI, si avverte traccia di questa "duplicità residua". Berlinguer intona le lodi del "mondo socialista" in cui, a differenza di quello capitalista, "non c'è crisi", ma, a trent'anni dalla costituzione del "partito di tipo nuovo", di strada per lasciarsi alle spalle ogni residuo del "fattore K" se n'è fatta, e molta. Berlinguer richiama la necessità di una svolta democratica in Italia come "esigenza nazionale", sottolinea il "rilievo decisivo del problema dell'Europa", con "la democratizzazione della CEE, la sua unità e autonomia nei confronti degli USA e dell'URSS e la sua attiva partecipazione al dialogo tra le maggiori potenze, la ricerca di un rapporto nuovo e di amicizia e cooperazione con i paesi del Terzo Mondo, e in modo particolare dell'area mediterranea". Il PCI non parla più russo da un pezzo, ma buon italiano ed europeese ed indica chiaramente i campi in cui vuole entrare a competere (pardon... a dialogare) con le grandi potenze USA-URSS.

Successivamente, il PCI ha compiuto un passo ulteriore. Il partito che negli anni '50 aveva riempito l'Italia di scritte e petizioni "popolari" all'insegna del "Yankee, go bome!", "Ridgway generale peste", "Via l'Italia dalla NATO!" si converte all'adesione all' "ombrello protettivo NATO" e Berlinguer non si perita di affermare che si sente ormai più tranquillo da questa parte della cortina di ferro che dall'altra.

Un capovolgimento di fronte? No: la logica conclusione di un percorso coerentemente nazionale.

L'adesione del PCI ad una strategia nazionale ed europea, senza proporsi in alcun modo di metterne in causa i fondamenti capitalistici, comporta l'esser presenti laddove si decidono destini dell'Italia e dell’Europa proprio per evitare una subordinazione di essi agli interessi delle superpotenze. Come non si può fare una politica economica italiana senza essere nella CEE (che il PCI aveva contrastato agli inizi perché "limitatrice della sovranità nazionale") ed indipendentemente dalla competizione sul mercato internazionale, così non si può fare una politica estera italiana senza essere presenti nelle alleanze militari che vi si riconnettono. Nella NATO, dunque, ma nel segno di un’affermazione in essa delle esigenze specifiche dell’Italia e dell’Europa delle esigenze ("democrazia" "pace" e "progresso", naturalmente!).

Come ci si potrebbe altrimenti astrarre da questo terreno di "lotta"? Ciò sarebbe possibile solo a partire da un lavoro di classe, internazionalista, chiamando i proletari di tutti i paesi a sotterrare le impalcature sociali, economiche e militari del capitalismo; una via completamente impraticabile per un partito "operaio" borghese sino al midollo.

Non c’è quindi bisogno di dire che il PCI è un partito "atlantista" come gli altri. Basterà dire quel che è vero: che esso è un partito "coerentemente nazionale", che si assume sino in fondo, chiamando i proletari ad appoggiarla, la prospettiva dello sviluppo economico, politico e militare della propria Azienda-Italia, impegnandosi in prima persona.

Su questa via, il PCI è venuto sempre più accentuando un ruolo in proprio di propulsione degli interessi nazionali del capitalismo italiano in politica estera, fungendo da ambasciatore del governo-ombra "progressista". Così dopo aver siglato a suo tempo la condanna del Kominform al "rinnegato fascista Tito", esso si è fatto interprete dell’apertura dell’Italia e dell’Europa alla Jugoslavia, incuneandosi nelle fessure lasciate aperte da URSS ed USA; ha gettato cauti ponti ai riformisti dell’Est per tentare uno sganciamento dell'area dalla sudditanza a Mosca (da Dubcek a Ceaucescu, per intenderci), ha corso in lungo e in largo il Mediterraneo, trattando in prima e per interposta persona con Arafat, governo algerino, movimenti di liberazione vari; ha allacciato rapporti stretti con l'America Latina, da Castro al fu Allende; si è fatto promotore permanente dell'apertura alla Cina (anche al culmine della polemica "antirevisionista" di Mao); e, naturalmente, si è fatto in quattro sulla scena europea, senza trarsi indietro dal compito gravoso di sondare le stesse disponibilità USA attraverso i contatti esplorativi di Sua Maestà Napolitano...

Questo vecchio "nuovo corso", rapportandosi alla crescita del peso picista all'interno della società borghese italiana ed all'accresciuto rilievo italiano ed europeo sulla scena mondiale comportava necessariamente un'ulteriore separazione da Mosca, sino al famoso "strappo" ed al conseguente rifiuto di partecipare ad assisi internazionali del "movimento comunista" nell'82 e nell'85. Da "patria del socialismo", I'URSS è stata via via declassata a paese "fratello", alleato "progressista" inter pares, superpotenza da guardare con sospetto e, infine, controparte con cui sedersi attorno a un tavolo per "discutere". Contemporaneamente, l'asse preferenziale si è spostato in direzione delle forze socialdemocratiche europee, SPD in primo luogo (la Germania resta pur sempre alla base di tutti i "patti d'acciaio"!), destra e centro laburista, PS francese e spagnolo (con non poche delusioni) e via dicendo.

Dove siamo oggi sotto questo profilo? E dove si va?

L'abbiamo già detto altre volte: la prospettiva picista di un'Italia ed un'Europa "progressiste" e indipendenti viene a cozzare contro strozzature oggettive che nessuna buona volontà può superare. L'Europa Unita, come la sognano i picisti, è "una pura espressione geografica" e non c'è molta speranza, stavolta, che la storia possa dimostrare il contrario, dilaniato com'è il nostro continente da contrastanti ed opposti appetiti che non riescono a coalizzarsi contro gli appetiti, ben più robusti degli USA.

In secondo luogo, le spinte all'unità europee si configurano sempre più come egemonia continentale di determinati paesi, tipo Germania, che non hanno bisogno, a tal fine, di darsi alcuna impronta "progressista".

In terzo luogo, i rapporti internazionali vanno sempre meno nel senso della distensione, sicché alla prospettiva picista di inserzione socialdemocratica in ambito italiano ed europeo viene a mancare la terra sotto i piedi. Il confronto USA-URSS assume sempre più dei connotati di scontro aperto che coinvolge e determina gli schieramenti a scala mondiale, dal Medio Oriente all'America Latina, dall'Africa all'estremo Oriente. Materia incandescente che rischia di bruciare ogni velleità dell'Europa... disunita, fatta di tanti vasi di coccio stretti tra i vasi d'acciaio delle due superpotenze.

In quarto luogo, tutto ciò si accompagna ad un incrudirsi della crisi sociale con l'effetto che il proletariato è di nuovo sbattuto in avanscena come protagonista, dall'Inghilterra alla Danimarca, dalla Svezia al Belgio, dalla stessa Germania superblindata alla Francia (e, domani, all'Italia). Ciò disaggrega il "blocco progressista" su cui il riformismo picista ha giocato le sue chanches, alla scala di politica estera ed a quella interna. Per quanto non lo desideri affatto il PCI, l'antagonismo proletario sta passando dall'oggettività della storia all'attualità del presente e va trovando il suo soggetto.

Che fare, allora?

In passato il PCI poteva rappresentarsi quale corpo unitario, reagente come un tutt'unico all'esterno. Oggi non è più così: lo sviluppo delle sue caratteristiche di partito pienamente inserito nella società borghese lo ha anche esposto alle contraddizioni in essa insite, in politica estera non meno che in quella interna.

Alcune frazioni del PCI appartengono ormai definitivamente al campo degli interessi espressi dalla borghesia europea anche accettando di subordinarli alla funzione egemone USA. Per esse l'"ombrello NATO" è un dato acquisito che dovrà servire effettivamente a protezione contro il "paese del gulag" (come già esse definiscono l'URSS con l'improntitudine della "democrazia" occidentale, sempre pronta a commuoversi per un Sacharov od un Popeluzko o le qualche decine di migliaia di prigionieri dei campi di "rieducazione" del Vietnam pur di "dimenticare" i milioni di civili massacrati nel mondo dalle armate della Libertà targata USA, od Europa, e un'intera generazione di "dissidenti" precauzionalmente inviati non al confino, ma fatti marcire nelle carceri democratiche o provvidenzialmente suicidati in esse).

Si tratta di un'infima frazione, il cui peso economico-sociale grava sulla politica del PCI ben oltre la sua rappresentanza numerica e si farà sentire domani per quel che esso è.

Una seconda frazione resta tuttora aggrappata al disegno europeistico, ma trovandosi sempre più in difficoltà per farlo uscire dalle brume delle buone intenzioni. Diciamo pure che si tratta di una buona fetta del gruppo dirigente del PCI; si tratta, però, anche della fetta maggiormente priva di prospettive alla distanza, non solo per l'inconsistenza sul piano delle strategie di politica estera, ma per l'impossibilita di aggregare su di esso interessi e movimenti sociali in assenza di tangibili corrispettivi.

Un'ultima frazione, oggi molto ridotta, mira e ricuperare un linguaggio demagogico di classe, proletario, per collegare il problema dell'indipendenza nazionale ed europea a quello di una ritrovata solidarietà "anti-imperialista" col blocco sovietico (magari sperando che esso possa tornare a reinglobare la Cina, dopo la provvisoria sbornia denghista).

Non si tratta di una riedizione del "togliattismo" dal '26 al '39, di puro accodamento od asservimento alle ragioni di stato sovietiche, e neppure del "kominformismo" successivo. Il presupposto di partenza è un altro: per dare all’Italia, e nel quadro europeo, una prospettiva reale di indipendenza occorre, innanzitutto, far fronte comune contro l'invadenza USA appoggiandosi da un lato all'asse statale sovietico e dall'altro sul movimento di classe interno. Resistenza e Terzo Risorgimento? Esattamente.

Al di là dei coefficienti immediati, noi riteniamo che questa frazione abbia dalla sua (e del tutto indipendentemente dai suoi protagonisti attuali, che certamente son poca cosa) il fatto di poggiare su una linea di prospettiva in accordo con lo svolgersi oggettivo dello scontro interno ed internazionale.

Alcune significative mutazioni si sono già verificate anche nel robusto blocco di centro che domina il PCI. Proprio mentre riconferma lo "strappo", Natta è sospinto a fare qualche passo indietro, in direzione di Mosca (non da suddito, dio ne scampi!, ma da ambasciatore della "nostra" Patria "sovrana"), e le ragioni non mancano. L' "ombrello protettivo" dei Pershing, dei Cruise, delle "guerre stellari", si fa sempre più scomodo, perché è ormai evidente che a ripararsi sotto di esso sono gli USA, a spese di un'Europa programmata per diventare un comodo campo di battaglia dell'Impero, ed è altrettanto chiaro che nessun bottone italiano sarà affidato nelle mani non diciamo di Natta, ma neppure dei tronfi Craxi e Spadolini; allo stesso modo, la politica "difensiva" degli USA mostra ciò di cui è capace quando si tratta di fronteggiare delle spinte alla sovranità nazionale, quand’anche estremamente titubanti (come nel caso del Nicaragua, per non parlare del caso Grenada), e ciò non solo per togliere di mezzo l'invadenza russa, ma per sbarazzare il campo da ogni intromissione europea. Sono costi difficili da sopportare. Riteniamo fuori di dubbio, perciò, che, in relazione alla crisi sociale che sta maturando nel nostro continente, un evento di tipo "nuovo Vietnam" darebbe di nuovo il la, nelle masse piciste ed ai vertici stessi del partito, ad afflati antiimperialistici, oggettivamente incrociantisi con l'azione dell'URSS. Non a caso, anche la discussione sulla NATO si è fatta, negli ultimi tempi, più accesa nel PCI. Succede così che al recente congresso della FGCI, utilizzato come campo di prova, solo un settore ultraminoritario dei giovani abbia sostenuto che la permanenza dell'Italia nella NATO "per cambiarne i fini" fosse un "obiettivo legittimo del movimento della pace e della sinistra europea", mentre la stragrande maggioranza di essa si è apertamente espressa per l'uscita dal Patto. Natta si è inserito nella discussione per mettere in guardia i giovani dalla richiesta di "gesti unilaterali", sbilanciandosi però nel senso della risoluzione finale che impone una "immediata ricontrattazione del ruolo dell'Italia nella NATO" ("L'Unità", 25/2/85).

Un magro spazio è stato successivamente lasciato al solito Trombadori per replicare a questa scelta: "La piattaforma del 'superamento dei blocchi e dell'uscita dell'Italia dal Patto atlantico' — scrive costui ("L'Unità", 27/2/85) — appartiene interamente alla rifondata, autonoma FGCI e non è nemmeno lentamente apparentabile alle deliberazioni congressuali e alle scelte storiche del PCI", perché "l'appartenenza leale e sovrana dell'Italia al Patto atlantico e alla NATO" è "una scelta rivoluzionaria" (!), mentre la piattaforma della FGCI porterebbe "un fiero colpo d'arresto alla politica di distensione" e va letta come "un rigurgito ammodernato di settarismo primitivo, di integralismo dogmatico e di rifiuto della politica che molto più si apparentano alle spinte tardo-potop, radicali e demoprol...". Il più fesso dei "rivoluzionari" atlantisti dov'esser stato scelto per dare il segno che qualcosa sta cambiando nel PCI e nella stessa chiave di lettura si può interpretare la risposta conclusiva lasciata ad un rappresentante dei giovani: "Nel nostro documento approvato al Congresso si pone come scelta politica primaria quella della "ricontrattazione del ruolo dell'Italia nella NATO". Ne vogliamo cioè mettere in discussione i metodi e le finalità, il suo divenire sempre più alleanza offensiva e sempre più subalterna alle logiche degli Stati Uniti e di Reagan". All'altra parte della cortina di ferro il compagno Gorbaciov sorride ed aspetta…

Ma dove va esattamente il PCI?

Dato per scontato che le frazioni sociali filo-atlantiste od europeiste di ferro si muoveranno nel PCI determinando uno spostamento di ceti borghesi fuori dagli stessi confini del quadro di partito "operaio"-borghese, verso posizioni di sciovinismo extraoperaio aperto, sarà interessante vedere come si porrà il grosso della rappresentanza del PCI che deve fare i conti con la sua base di classe proletaria. Ed è qui che noi vediamo, al di là degli attuali cossuttiani ed interstampisti (cui sono venuti già ad aggiungersi però, ed è un fatto piccolo ma sintomatico, ex-filocinesi e persino autonomi e guerriglieri), come si potrà riassistere ad una riedizione di riformismo neo stalinista duro ad una ricomposizione del fronte "anti-imperialista" tra partiti e stati, "liberi e sovrani", richiamantisi al nazional-comunismo.

A questa sinistra eventuale solo due fattori possono opporsi: un'attitudine, sin d'ora, da parte dei rivoluzionari ad analizzare, prevedere e contrastare passo passo le grandi manovre riformiste, facendo sì che il movimento proletario non resti intrappolato in esse e, in più, la carta di una serie di esplosioni di classe nei paesi dell'Est in grado di togliere ogni credibilità all'"antiimperialismo" statale del sistema del "socialismo reale".

Se attraverso lo scontro di classe attuale sarà dato d congiungere i due capi del proletariato, dell’Est e dell’Ovest, non solo taceranno le sirene dell’Occidente, ma anche quelle dell'Est e si renderà chiaro al proletariato che esso non potrà contare su alcun alleato né tra i partiti e gli stati di Occidente, grondanti del sangue della rapina imperialista, né tra i partiti e gli stati "comunisti" dell’Est, la cui risposta invariabile all'insorgere del proletariato è una sola, quella, modernissima, dei carri armati. A questa resa dei conti va il PCI, e ci andiamo noi!