E’ primavera ma le rose appassiscono

La tendenza verso la guerra si rafforza 
Il proletariato può rovesciarla

Provate a sfogliare i giornali di tre mesi fa. Il 1985, ci dicevano, si era aperto con le più rosee aspettative. La ripresa americana fungeva da locomotiva per l'intera economia mondiale, Reagan era diventato pacifista e al Cremlino sedeva, finalmente, un uomo pragmatico e conciliante. I risultati, ci dicevano ancora, sarebbero presto arrivati. A Ginevra si stavano riprendendo le trattative per la limitazione delle armi nucleari e, per maggio, era stato programmato un vertice tra i "7 grandi" d'Occidente per definire nuove regole commerciali e finanziarie tra i dominatori del mercato mondiale.

È arrivata la primavera, ma le rose sono appassite. La ripresa americana si è sgonfiata e, mentre a Ginevra le trattative proseguono stancamente e per ora senza risultati, il vertice di Bonn tra i sette si è trasformato da passerella della cooperazione e dell'amicizia occidentale in specchio dei dissensi tra le due sponde dell’Atlantico. Al riemergere prorompente di questi contrasti, infine, fanno da contorno decine di focolai di guerra in tutto il mondo ed il riesplodere, in tutta la sua virulenza e con tutte le possibili implicazioni, del conflitto in Libano. Insomma, anziché affievolirsi, i segnali del pericolo di guerra continuano ad accentuarsi e scandiscono percorso della crisi economica in cui si dibatte, da almeno un decennio il capitalismo.

Crisi e tendenza alla guerra

Dunque, la crisi nei suoi vari passaggi guida il capitalismo verso la guerra. Constatazione suffragata dal carattere stesso della crisi economica in corso, che non è né settoriale né congiunturale, ma investe il capitalismo nel suo complesso, a tutti i livelli ed in tutto il mondo. Una crisi, cioè, causata dall'erompere manifesto e devastante degli effetti della caduta del saggio di profitto e del conseguente dissesto dei meccanismi di accumulazione. In breve: una crisi che ha la caratteristica di essere una crisi generale e storica di sovrapproduzione.

Essa non può essere superata dal capitalismo né ricreando le condizioni favorevoli per il rialzo del saggio di profitto, ma ciò è possibile solo con la distruzione di forze produttive per smaltire la sovrapproduzione. La crisi, inoltre, accentuando la concorrenza intercapitalista sul mercato mondiale, conduce ogni singola sezione del capitale mondiale a pretendere, come miglior condizione per la ripresa dell'accumulazione, una nuova ripartizione delle ricchezze e dei mercati. Una ripartizione che, ad onta dei buoni propositi, non può verificarsi che nel fuoco dei conflitti economici, politici e militari. Lo sbocco inevitabile, o meglio oggettivamente determinato, dalla crisi è dunque la guerra interimperialista. Connessione, peraltro, confermata dallo svolgimento dei due precedenti conflitti.

Nel 1914 la crisi sbocca direttamente nella guerra, ovvero la distruzione della sovrapproduzione si consuma immediatamente, seppur non completamente, nel conflitto che insanguinerà l'Europa per 5 anni.

Il ciclo crisi-guerra ha un andamento diverso nel 1929. La crisi del '29 smaltisce la residua sovrapproduzione lasciata nelle viscere della società dalla prima guerra e, nello stesso tempo e soprattutto per gli USA, costituisce un primo parziale salasso di quella nuova. Ciò permetterà dopo il '33 una ripresa produttiva peraltro finalizzata proprio dalla guerra, al culmine della quale arriva la seconda guerra mondiale che provvederà a smaltire drasticamente la sovrapproduzione.

E oggi?

Dal 1973, anno in cui si presentano in tutta la loro ampiezza i primi sintomi della crisi, si sono avute due acute fasi di recessione ('74-'75 e '80-'82) e diverse guerre locali. Tuttavia, le prime non hanno comportato, nelle metropoli, un rilevante smaltimento di sovrapproduzione, mentre le seconde hanno avuto un effetto significativo a questo proposito solo su scala locale. In ogni caso, la pletora di capitale in sovraccumulo continua ad impedire, nonostante gli sforzi e gli interventi crescenti degli stati, un riassetto dei meccanismi accumulativi. Come si dispiegherà il ciclo crisi-guerra? Ed ancora. La guerra sarà o no preceduta da un passaggio catastrofico della crisi (crack finanziari o crolli della produzione, ovvero entrambi)?

Siamo marxisti e non veggenti. Da marxisti leggiamo nella presente crisi economica i sintomi incontestabili delle contraddizioni che dilaniano il capitalismo e che lo portano alla guerra. Da marxisti, inoltre, constatiamo che i segnali dell'approssimarsi della guerra imperialista si fanno via via più precisi. In particolare: aumento della concorrenza, aumento delle armi e guerre locali, anziché dare sfogo alle tensioni, le hanno moltiplicate.

Non è una novità che l'assetto postbellico aveva consacrato gli USA a potenza egemone che si era conquistata una propria sfera di influenza su quegli stessi imperialismi che potenzialmente erano i suoi maggiori concorrenti.

Alla fine degli anni '60 questa egemonia entra in crisi per la progressiva crescita industriale e commerciale dell'Europa e del Giappone. A partire dal 1974, la crisi trasforma i latenti contrasti tra questi paesi in manifesta lotta di concorrenza sul mercato mondiale. Sul piano strettamente commerciale gli USA sono deboli rispetto agli avversari; essi spostano perciò sui tavoli finanziari e militari la contesa interimperialista. Con la politica degli alti tassi di interesse per attirare capitali stranieri, con quella da "guerra fredda" con l’Urss e con il riarmo accelerato, gli USA si difendono, principalmente dall'Europa e dal Giappone, contrattaccando. L'obiettivo è duplice. Indebolire sullo stesso piano commerciale i concorrenti sul mercato mondiale (ma l'operazione non è riuscita con il Giappone!) e distogliere gli stessi da tentazioni centrifughe, sul piano politico/militare, quando non di convergenza col blocco avversario.

Naturalmente l'Europa non è stata a guardare e, nonostante le minacce americane, ha proseguito e sviluppato i rapporti economici con l'Est, ha alimentato la sua presenza politica con iniziative autonome (M.O. in particolare), sta, infine, ricercando una sua autonomia dall'alleato d'oltre Atlantico perfino sul piano militare (progetto Eureka). Certo alla borghesia europea farebbe comodo poter proseguire indisturbata a fare affari ad est come ad ovest, ma, mano a mano che la crisi prosegue ed i preparativi di guerra si accentuano, essa deve schierarsi da un lato o dall'altro. Processo che non è più impossibile prevedere lacerante per lo stesso blocco europeo come il vertice di Bonn ha già evidenziato.

Né gli antagonismi intercapitalistici sono di esclusiva pertinenza dell'Occidente, se lo stesso blocco orientale, tutt’altro che immune dalla crisi, continua ad essere attraversato da sussulti nazionalisti ed autonomisti, che rischiano di mandare a gambe all'aria la "fratellanza socialista" tra i paesi del Comecon. Insomma, c'è un gran disordine sotto il cielo, che indica come siano già iniziate le manovre per definire gli schieramenti della futura guerra imperialista.

La guerra... delle stelle e tante "piccole" guerre

Presentando l'annuario Sipri sulle spese militari nel mondo per il 1984, il segretario di questo istituto di studi militari ha sconsolatamente convenuto, come gli succede da almeno 10 anni a questa parte, che la corsa al riarmo ha avuto una nuova accelerazione di cui le locomotive continuano ad essere le massime potenze imperialiste.

Ma le sole cifre non rendono appieno la realtà. Dal 1977, infatti, ad ogni balzo quantitativo corrisponde un mutamento della qualità dell'armamento e con ciò si rendono praticabili strategie militari in cui l'uso delle armi nucleari si armonizza con le necessità della guerra. L'installazione dei Cruise, Pershing ed SS20 e la costruzione della bomba N segnano un primo decisivo passo in tal senso.

La dottrina della "guerra limitata" con cui si attua una strategia mirante a distruggere, con una serie di attacchi atomici, i centri nevralgici "dell'aggressore" per paralizzarlo e portarlo alla resa prima della distruzione totale, rende la guerra nucleare più vicina ad essere combattuta.

Un secondo significativo passo è stato compiuto nell'83 da Reagan con il progetto SDI, meglio noto come progetto di armi stellari, per cui sono stati stanziati 26 miliardi di dollari per 5 anni. Un piano di cosiddetta difesa "multistrato" (cioè possibilità di colpire missili nemici in ogni stadio del loro percorso) che si traduce nella massima potenzialità di attacco attraverso l'uso del restante arsenale militare di cui sono dotati gli eserciti. Un piano decisivo per il passaggio dalla strategia ancora insicura della risposta flessibile a quella della "sopravvivenza reciproca assicurata", che è quanto dire: la guerra nucleare si potrà non solo fare, ma anche "vincere".

Nulla di strano poi che, pur in uno scenario di contrasti crescenti e di riarmo, gli Usa e l’Urss si incontrino a Ginevra. Conferenze sul "disarmo" e sulla "pace" costellano la storia delle diplomazie capitalistiche financo nei periodi immediatamente precedenti le guerre (v. accordo di Monaco, 1938). Esse, nel momento che si concludono con un accordo (ed anche gli attuali colloqui potrebbero consolidarsi in un accordo magari a detrimento di paesi terzi, Europa in primo luogo), non pongono che le basi per un ulteriore aggravamento dei contrasti.

I segnali di guerra, dunque, si moltiplicano; pur tuttavia vi è ancora chi sostiene che attraverso le guerre locali vengano accuratamente scaricate (da un invisibile regista) tutte le tensioni internazionali. L'illusione si somma all'errore. È vero che scontri armati sono avvenuti copiosi, in tutte le parti del mondo, dalla fine della 2a guerra mondiale, ma mentre quelli degli anni '50-'60 erano caratterizzati dall'essere generalmente guerre di liberazione nazionale, quelli successivi sono vere e proprie guerre per conquistare l'egemonia in determinate aree del globo (Cina-Vietnam; Vietnam-Cambogia; Inghilterra-Argentina; Israele-Libano; Iran-Irak; ecc).

In secondo luogo, è significativo che queste guerre non siano servite, neanche a scala locale, a risolvere le contraddizioni e rimuovere i fattori che le avevano determinate. Di più, hanno, invece, prodotto un ulteriore aggravamento della crisi economica e sociale sia al loro interno (vedi Israele), che nell'area del conflitto. Questi conflitti confermano invece che: a) la guerra, di per sé, non risolve tutti gli squilibri del capitalismo, b) essa crea, specie nei paesi più in difficoltà o in quelli vinti, delle forti spinte verso la guerra sociale interna (il Libano ne è l'esempio più eclatante, ma non unico). Con quali prospettive? Quelle, naturalmente, che gli danno le forze politiche che di questi conflitti sociali prendono la testa. Allora: o il proletariato e le masse lavoratrici, riacquistando la loro autonomia politica ed organizzativa dalla borghesia e piccola borghesia, impongono la soluzione di classe alla crisi ed alle guerre, oppure con gli Arafat, i Jumblatt o i Mojahedin del popolo non vi potranno essere che soluzioni parziali in attesa di nuovi e più catastrofici conflitti, locali e generali.

Pacifismo o disfattismo?

Non esiste soluzione borghese alla crisi che non sia la guerra, ma ciò non significa che quest'ultima non possa essere impedita. Come? Non con gli appelli, le marce, le fiaccolate ed i programmi che non toccano le cause profonde del suo scatenarsi (capitalismo e sua crisi), ma solo con l’approfondire il bisturi nella cancrena e col rovesciamento del sistema sociale che la produce. Idealismo? No! Realismo. Infatti. Cosa hanno ottenuto le grandi manifestazioni pacifiste degli anni '80-'83?

Hanno forse bloccato la corsa al riarmo, l'installazione dei missili o le guerre locali? No! Solo se il proletariato prende la testa della lotta contro la guerra sui propri obiettivi e con la propria organizzazione autonoma, solo in questo caso la guerra può essere prevenuta. Eppure il proletariato non è stato sinora coinvolto nella lotta contro i preparativi di guerra. Anzi, in esso persiste, alimentata dal PCI, una certa incredulità sulla possibilità di una guerra. Cosicché, i movimenti pacifisti sono stati caratterizzati dalla presenza di una forte componente di ceti medi salariati e di studenti e da un'infima presenza di proletariato. Questa constatazione, come pure quella che questi strati non potranno essere conquistati permanentemente al livello della lotta rivoluzionaria, significa che ci disinteressiamo delle masse pacifiste o, peggio ancora, le lasciamo alla mercé dell'influenza riformista? No, mille volte no.

Dobbiamo intervenire in tutti i movimenti di opposizione alla guerra, ma il nostro intervento deve essere rapportato alla loro composizione sociale e agli obiettivi che essi esprimono. Proprio perché pensiamo che la guerra non potrà essere fermata da "qualsiasi movimento", ma solo da una autonoma iniziativa operaia che riesca a catalizzare dietro di sì parte delle stesse masse piccolo-borghesi, è tutt’altro che indifferente valutare di quali settori sociali si alimenta oggi il movimento di opposizione alla guerra.

Una composizione sociale prevalentemente piccolo-borghese del movimento pacifista (come si è verificato in passato) impone ai comunisti una tattica che spezzi le illusioni che esso possa fermare i preparativi di guerra. In sintesi, intervenire nel movimento per denunciare l'inconseguenza del pacifismo ed indirizzare l'azione della parte più cosciente di esso al sostegno di una mobilitazione proletaria contro la guerra.

Invece, quando in questi movimenti vi fosse una significativa presenza del proletariato (che in un primo tempo si mobiliterà a rimorchio del riformismo) l'intervento dei comunisti deve re rivolto, in tutte le "tappe" della sua lotta e maturazione, a favorire l'emergere di obiettivi e metodi di lotta che, travalicando i limiti impostigli dai riformisti, siano suscettibili di portare il movimento ad una ulteriore fase dello scontro di classe.

È ovvio che tale considerazione non ci porta ad attendere passivamente che gli operai scendano in piazza contro la guerra, per esercitare la nostra battaglia politica, la nostra propaganda e la nostra iniziativa.

- Tra il proletariato, in cui la denuncia de riarmo, del militarismo e di tutti i blocchi militari va congiunto con la battaglia per scindere, in ogni circostanza, gli interessi operai e proletari da quelli della borghesia e dell'imperialismo nostrano. In breve: far schierare il proletariato contro le necessità capitalistiche della crisi è prepararlo a schierarsi, domani, contro la guerra.

- Tra i giovani proletari in divisa, o in procinto di indossarla, per sviluppare una conseguente azione antimilitarista che miri a porre le basi per la disgregazione dell'esercito borghese.

- Tra tutti gli strati sociali sensibili ai temi della pace, per denunciare quali interessi si celano dietro il riarmo e i preparativi di guerra e per invitarli alla lotta a fianco del proletariato.

Scorciatoie o altre strade non vi sono per fermare la macchina di guerra che si è messa in moto!