Dossier: Quale internazionalismo

Articoli collegati:

La ripresa del movimento proletario
L'internazionalismo Marxista

I Compiti dei comunisti


Indice


Dalla metà degli anni '70 il capitalismo è entrato in una crisi profonda dei suoi meccanismi di accumulazione e riproduzione, non in questo o quel paese, ma internazionalmente e come un tutto. Solo gli apologeti più sfacciati del sistema, per scopi puramente demagogici di propaganda (e certi suoi avversari dichiarati vittime del "fascino discreto" che emana dalla potenza del capitale), tentano di negare questa realtà evidente. In effetti, noi — in quanto comunisti rivoluzionari — non abbiamo più a che distinguerci dai borghesi attenti sull'ipotesi se la crisi ci sia o meno e se essa morda o meno in profondità, ma "solo" per la spiegazione che ne diamo (da prima ancora che essa si fosse manifestata) e per le prospettive politiche che ne traiamo perché essa sia davvero l'ultima crisi del capitale e non l'ennesima crisi del proletariato: se anche questa crisi produce a scala internazionale un acutizzarsi dei conflitti di classe e "scintille di coscienza", non è affatto detto — infatti — che ne derivi automaticamente la rivoluzione proletaria o che il capitalismo se ne vada in pensione. Riconosciuta la crisi strutturale del capitalismo in quanto sistema internazionale (riconoscimento tutt'altro che scontato per taluni "rivoluzionari"...), occorre derivarne tutte le conseguenze sul piano per così dire "operativo". Il "che fare", per l'appunto...

In questo dossier vogliamo abbozzare un discorso sull'internazionalismo dando, com'è logico, per scontato il tema del carattere crescentemente internazionale del capitalismo in quanto non somma di padroni singoli o padronati nazionali, ma sistema sociale: "Le separazioni e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno scomparendo sempre più già con lo sviluppo borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale con l'uniformità della produzione industriate e delle corrispondenti condizioni di esistenza" (Marx-Engels, Manifesto); il che non significa che il capitalismo attutisca i contrasti tra nazioni — è vero il contrario! — , ma che questi assumono crescentemente il carattere di un'opposizione sociale tra capitale e lavoro salariato.

Allo stesso modo, non riprendiamo qui il nostro discorso sulla crisi attuale e le sue prospettive, limitandoci a rinviare a quanto abbiamo già scritto in proposito sul giornale, nei Quaderni ed in vari opuscoli.

Riprendiamo il tema dell'internazionalismo tentando di mostrare il cammino che, nella crisi, ha fatto la classe nel suo insieme — come "movimento spontaneo" — e nelle sue avanguardie in direzione di esso e quali concreti compiti ce ne derivino. In questo quadro tracciamo una sommaria radiografia delle lotte proletarie su cui si tesse il filo della rivoluzione comunista ed indichiamo le linee di svolgimento dell'organizzazione dei comunisti nel suo cammino storico verso la sua costituzione in partito comunista internazionale. In stretto collegamento a ciò, cominciamo ad indicare quali sono le prime concrete manifestazioni soggettive di lavoro in tal senso con le quali ci troviamo attualmente impegnati in un serrato confronto politico.

I1 risultato cui miriamo è di rendere perlomeno tangibile ai compagni che la questione dell'internazionalismo non e un qualcosa in più, di aggiuntivo rispetto alle questioni nazionali o locali, magari sconfinante nelle "istanze ideali ma il concreto modo di essere del movimento comunista, da cui esso non può assolutamente decampare senza autonegarsi. Chi, fosse pure nei nostri dintorni, pensasse ed agisse in difformità a questo criterio fondamentale non sarebbe un comunista senza internazionalismo, ma semplicemente un comunista mancato.

L’internazionalismo borghese

Con la crisi rivoluzionaria in Iran e l'ondata di lotte proletarie in Polonia tra il '79 e l'80 si manifesta per la prima volta l'approssimarsi del conflitto di classe al suo centro decisivo. Già le lotte anti-imperialiste e di liberazione nazionale degli anni ''50-'60 avevano scosso in profondità gli equilibri imperialistici usciti, apparentemente indistruttibili, da Yalta. Non dorrebbe essere troppo difficile capire come le vicende di Algeria o del Congo (come poi dell'Angola e del Mozambico) si siano immediatamente riflesse nei centri del dominio neocolonialista (Francia, Belgio, poi Portogallo) introducendovi di forza fattori di crisi economica, politica e sociale. E ciò, nonostante la separazione ben mantenuta dalle forze della borghesia, ed in particolare dal riformismo tra lotta dei colonizzati e lotta operaia nelle metropoli.

Nel '79-'80 la situazione è diversa, nel senso che sono nel frattempo maturate le condizioni per il superamento della precedente "separatezza". Iran e Polonia non sono periferia: il primo è un paese "emergente" che, sull'onda della modernizzazione capitalista "alla cosacca" promossa dallo Scià, punta ad entrare nel novero delle potenze sub-imperiali; il secondo è nel novero delle dieci maggiori potenze industriali del mondo. Non è la loro "specifica arretratezza" che li mette in crisi, ma gli effetti della crisi generalizzata del capitalismo che tocca gli anelli più deboli del centro della sua unitaria catena. In queste condizioni, la lotta di classe che si sviluppa vigorosa in Iran e Polonia chiama direttamente in causa il proletariato dei centri imperialisti non ancora entrati nel vortice di essa e, non a caso, occorre alla borghesia il massimo di sforzo coordinato per isolare i due focolai e tamponare così provvisoriamente, la falla apertasi. Dalla finanza all'ideologia, tutto è stato messo in atto a questo scopo, col risultato che effettivamente non c'è stata ancora saldatura tra movimento di classe in Iran e Polonia (ed, anzi, esso è stato risospinto sulla difensiva e verso posizioni di arretramento anche soggettivo) e movimento metropolitano. Pochissimo è stato, invece, messo in atto dalle avanguardie metropolitane per contrastare le grandi manovre della borghesia. E, tuttavia, la crisi apertasi allora è tutt'altro che chiusa, sia a livello di movimento generale del proletariato che a livello di avanguardie, ché, anzi, queste ultime hanno trovato ulteriormente modo di definirsi ed organizzarsi — in particolare in Iran, ma anche in Polonia.

La lotta dei minatori inglesi ha ulteriormente avvicinato il redde rationem cui sono chiamate le classi antagoniste nel cuore dell'imperialismo ed a scala internazionale. La splendida lotta dei "miners" ha, per la prima volta in questi anni, scavalcato coscientemente i confini di categoria e di nazione per rivolgere un appello diretto alla solidarietà nella lotta al proletariato internazionale ed ha impresso un'accelerazione enorme al processo di chiarificazione e riaggregazione delle avanguardie comuniste a questa scala. Anche qui la borghesia ha segnato dei punti provvisoriamente a suo favore: ma la ferita apertasi non è stata neppur cicatrizzata ed ai prossimi, inevitabili round, la classe si presenta più che mai in piedi, avendo conseguito dall'esperienza di lotta l'essenziale: "il vero e proprio risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma il fatto che l'unione degli operai si estende sempre più" (Manifesto).

Il 1986 si apre con un'ulteriore maturazione dei fattori in campo: crisi economica capitalistica, acutizzarsi del conflitto sociale, intreccio sempre più stretto tra le varie situazioni economiche, sociali e politiche, sicché la via d'uscita si presenta, per la borghesia così come per il proletariato, concepibile solo alla scala di un intervento generalizzato a scala internazionale. Come altro si potrebbe prendere in considerazione, ad esempio, i problemi dei paesi dominati dalla finanza (e qualcos'altro) dell'imperialismo senza tener conto dell'effetto boomerang rappresentato dalla conflagrazione di essi, come nel caso dell'enorme indebitamento dei paesi del terzo e... secondo mondo? O il problema del Medio Oriente, in cui l'imperialismo va a farla da padrone ed a scontrarsi tra le frazioni che fanno parte di esso, senza tener conto del rilancio delle contraddizioni "esportate" nelle metropoli esportatrici?

Se è vero che il nemico primo per il proletariato sta in casa propria è la propria borghesia, ciò non può intendersi nel senso di una battaglia chiusa entro i confini nazionali, per ché la borghesia "di casa" gioca fuori casa, smuove ovunque contraddizioni sociali e politiche e con ciò materialmente precostituisce le condizioni di una reale azione internazionale della classe antagonista. Ciò non solamente da un punto di vista "strutturale" (economico od "economicista"?), ma da quello del soggetto rivoluzionario chiamato, sulla base di una determinata struttura a dimensione mondiale, a fare da affossatore del sistema borghese e da levatrice della nuova società alla corrispondente altezza.

Dalla Comune parigina del 1871 in poi la borghesia ha saputo costantemente elevarsi a compiti "internazionalisti" di conservazione controrivoluzionaria. Il periodo dal secondo dopoguerra ad oggi ha segnato l'apice di questo processo: sulla base dello sviluppo ineguale del capitalismo, si sono enormemente dilatate le distanze tra le condizioni di esistenza dei proletari delle diverse aree, il riformismo "operaio" borghese ha contribuito a fissare soggettivamente questa situazione, legando il proletariato metropolitano al carro della borghesia imperialista (e lasciando od incoraggiando nei paesi dominati la leadership di consorterie nazional-borghesi tali da non compromettere le sorti del sistema imperialista). L'organizzazione dei proletari in classe e quindi in partito politico torna ad essere spezzata ogni momento dalla concorrenza fra gli operai stessi", che la borghesia cerca in ogni modo di acuire, "ma risorge sempre di nuovo più forte, più salda, più potente", come avverte il Manifesto.

Risorge sì, ma a condizione che le avanguardie comuniste sappiano lavorare a tale scopo. Il che significai non lasciare che le "singole" lotte si svolgano separatamente, come focolai facili a circoscrivere e battere da parte borghese. Ne abbiamo abbastanza del "tifosi" a distanza che seguono la partita degli "altri" ben decisi a non sporcarsi le mani. Abbiamo bisogno di militanti che da qualsiasi lotta di rilievo del proletariato traggano l'imperativo ad intervenire in "casa propria" per diffonderne le lezioni, favorirne il contagio, propagandare e mettere in atto le necessarie torme dl solidarietà ad ogni livello ed infine, quale elemento di sintesi politica di tutto ciò, estendere ed organizzare il confronto e l'unità teorico-programmatica, politica ed organizzativa tra le avanguardie comuniste dentro le lotte.

Dalla nostra nascita come Organizzazione Comunista Internazionalista i nostri sforzi sono concretamente indirizzati al fine del superamento della fase principista e/o propagandistica dell'internazionalismo per tradurne in pratica l'esigenza. Sempre meno intendiamo restar chiusi in casa. Sempre più lavoriamo a tessere legami tra movimento di classe ed avanguardie comuniste al di sopra e contro i confini nazionali.

Non lo diciamo per vantare una "proprietà" della "nostra" organizzazione (può, anzi, darsi che il nostro impegno internazionalista sia sottoponibile a critiche di insufficienza sia quantitativa che qualitativa...); lo diciamo per richiamare i proletari ed i comunisti ad un'esigenza che è propria ed irrinunciabile della classe "e quindi del partito politico" in quanto organo dirigente di essa.

Le varie forme dell’internazionalismo fasullo

Non c'è, naturalmente, forza che si richiami al movimento operaio che non si dichiari in qualche modo internazionalista. I socialdemocratici hanno tuttora la loro brava Internazionale socialista (entro cui si scontrano i contrapposti interessi rappresentati dai partiti socialisti dei singoli paesi). Gli stalinisti non mancano di richiamarsi all'internazionalismo ad ogni pie' sospinto (concependolo e praticandolo secondo le esigenze delle varie "patrie" del socialismo). Lo stesso PCI parla di un "nuovo internazionalismo" in quanto sinonimo di rapporti tra stati e popoli "progressisti" indipendenti e sovrani...

Fin qui, ovvio siamo nel campo dell'"internazionalismo" del riformismo borghese ed è relativamente facile dimostrarne la natura reale, di supporto alle proprie realtà statali. "Siamo soprattutto italiani", dicono insieme Craxi e Natta. "Siamo russi uber alles dice Gorbacev, dando mandato alla Pravda di esaltare sistematicamente "il supremo sentimento della patria".

Ma anche allorquando si passa al "campo rivoluzionario" le cose non si presentano affatto chiare. Il comunismo non ha mille teorie e mille pratiche ed e perciò evidente che "una certa politica" all'interno ed un "certo internazionalismo" si tengano strettamente tra loro in un tutt'uno che, ad onta di mille dichiarazioni di intenti e di mille esempi di militanza impeccabile — non è questo qui in discussione — può benissimo star di traverso all'unica via marxista al partito ed alla rivoluzione.

Non ci è possibile analizzare qui a fondo le varie forme dell'internazionalismo fasullo. A seconda delle esigenze della lotta rivoluzionaria e dell'economia delle nostre forze, entreremo nello specifico in altra sede. Non crediamo però superfluo abbozzare delle "tipologie" dell'internazionalismo antimarxista con le quali ci troviamo a scontrarci nel "milieu" rivoluzionario.

Conosciamo, innanzitutto, un internazionalismo "anti-imperialista" che dal '68 e prima fa sua l'insegna (di staliniana derivazione) della lotta dei "popoli e nazioni oppressi" contro l'imperialismo inteso, in via prioritaria od esclusiva, come sinonimo degli USA. Questo internazionalismo è l'assemblaggio in un "unico fronte strategico" di distinti nazionalismi "oppressi", tra i quali si mettono indifferentemente insieme vietnamiti, baschi, peruviani… sino agli italiani. L’effetto controrivoluzionario è duplice: alla periferia si consegna il movimento di classe alle dirigenze nazional-borghesi, mistificando tale realtà con le ripetute affermazioni di fede "socialista" di esse; nelle metropoli si fa del proletariato il protagonista di un preteso riscatto delle bandiere lasciate cadere nel fango dalla borghesia (del tipo: "Italia colonia degli USA" da riportare al suo ruolo protagonista nel Mediterraneo, classica bandiera "anti-imperialista" dai movimentisti di Lotta Continua ai guerriglieri BR). Di unità strutturale della lotta proletaria internazionale neanche l'ombra. L'agente "unitario" non è il proletariato, ma il "nemico comune", la "piovra imperialista USA". Sconfitti gli USA si aprirebbe la via a tanti "socialismi nei singoli paesi". Stalin annuisce nella tomba...

Che questo "internazionalismo" stia entro i confini borghesi lo dimostra il fatto che esso è costretto a continue modifiche di tiro, seguendo l'anarchico svolgersi dei rapporti inter borghesi. Così nessuno dei suoi fautori osa più richiamarsi alla Cina od ai Vietnam (antichi "fari" caduti in disuso), e persino le infatuazioni più recenti trovano difficoltà a mantenersi in piedi: Palestinesi, Nicaragua... Che ne facciamo di un Arafat o di un Ortega? Non è che essi non si armonizzano più di tanto alla "specificità" italiana? L'"internazionalismo guerrigliero" BR sembra puntare attualmente soprattutto sull'Europa e, sopra ogni cosa, sull'Italia, rimanendo anti-imperialismo "anti-Usa" e non molto di più.

Altri "internazionalisti" terzo-mondisti si sentono addirittura indignati per gli "eccessi" del "terrorismo palestinese" e per le misure "antidemocratiche" di Ortega e tendono ad accodarsi al coro delle prefiche democratiche borghesi. Il sottinteso è: quant'è meglio la nostra via italiana, pulita e "veramente democratica"...

C'è poi un "Internazionalismo marginalista", tipo Autonomia, che parte dalla scomparsa del "proletario classico" senza per questo rinunziare a prendersi il comunismo qui e subito. In mancanza del vecchio soggetto, obsoleto od estinto, esso si affida alla rivolta dei "nuovi soggetti", al "siamo tutti proletari". "Attorno alle tematiche della qualità della vita, della riduzione della giornata lavorativa sociale, dell'antimperialismo, dell'antimilitarismo e del nucleare di nuove forme di organizzazione e di cooperazione sociale "dal basso" dei proletari in lotta nella fabbrica sociale e nel territorio, il movimento comunista può compiere i primi passi nell'agire da forza politica reale e non da ceto politico residuale (Autonomia, n. 34): su questa serie di "temi" distrutta ogni "residuale" centralità (come sta bene anche al PCI, da altri punti di vista), dovrebbe crescere la "cooperazione all'interno del movimento ed inverarsi il "divenire del contropotere e l'esplicazione del programma comunista". In breve, come abbiamo mostrato nel primo Quaderno Marxista, un contributo neo-riformista allo spezzettamento del "movimento" lungo le direttrici segnate dal capitale che si sogna di acquisire... "comunisticamente a suon di tappe contropoteriste.

E c'è, infine, un Internazionalismo che potremmo definire "platonico", sia che si voglia offrire ai "fratelli proletari" la testa o il cuore od entrambi gli organi, lasciando però rigorosamente da parte tutto il resto. Ad esempio, a noi sembra che "Operai contro" faccia parte di questa categoria perché, a parte le dichiarazioni che gli operai costituiscono una classe internazionale e sono dovunque sfruttati ed oppressi (qualche volta esagerando col "allo stesso modo"), quando si tratta di definire nel concreto il che fare per tradurre politicamente in atto questa "virtualità" internazionalistica, si cade nel più profondo imbarazzo — si veda l'attitudine verso la battaglia dei minatori inglesi, pur correttamente salutata nel suo significato proletario internazionale — . L'incapacità di affrontare marxisticamente il processo di saldatura tra movimento immediato e movimento politico, "di partito" porta necessariamente a questi vuoti pericolosi, attraverso i quali possono anche farsi strada vecchie tentazioni terzomondiste (si veda gli articoli sul Sudafrica) e "nuove" teorie semi marginalistiche (come appare dal modo con cui s'è presentata la rivolta dei "ghetti" in Europa).

Caso ancora più clamoroso quello di Lotta Comunista. Questa formazione politica, che si pretende erede diretta di Lenin, dimentica di Lenin proprio l'essenziale: l'impostazione internazionalista non solo in campo di principi e teoria, ma, coerentemente con essi, in quello del programma, dell'azione e dell'organizzazione politiche. Da un lato si afferma in lungo e in largo che l'"imperialismo unitario" deter mina i processi internazionali di movimento del capitale e delle classi, dall'altro si intende l'intreccio tra questi due elementi in maniera volgarmente meccanicistica ed entro angusti confini nazionali (sino ad arrivare a "spiegare marxisticamente" perché il "partito leninista"... italiano si sia deterministicamente sviluppato a partire da Genova "punta avanzata" etc. etc.).

Nella collezione di Lotta Comunista, che dovrebbe costituire l'organizzatore collettivo del "partito leninista", invano cerchereste (dal '74 i in qua!) un solo articolo in cui ci si prenda carico di un qualsiasi impegno militante, anche solo a livello di propaganda, rispetto al duplice movimento, della classe e dell'avanguardia comunista, a scala internazionale. Quale è stato l'atteggiamento concreto di Lotta Comunista di fronte alle vicende proletarie in Iran, Polonia, Sudafrica o delle questioni dei palestinesi e del Nicaragua? Domande oziose per chi si dedica diligentemente alla costruzione (nel corso di una "ritirata strategica" misurata sul puro impegno di massa trade-unionista interno al sindacato) del partito leninista... nazionale. Ma forse che la borghesia nazionale non ha lavorato e non lavora per imporre su questi temi la propria posizione, i propri interessi nella classe? Forse che tutto quello che non è "nazionale" non ha toccato e non tocca la classe proletaria "nazionale" nei suoi rapporti con le altre classi, e tra tutte le classi e lo Stato?

Lotta Comunista si nasconde, in effetti, dietro un dito. In passato, i suoi capi — al tempo di Azione Comunista, quando ancora si osava parlare di politica nell'accezione leninista — si erano lasciati andare forse un po' troppo avanti nei disegni tattici, allorché, ad esempio, un Cervetto predicava l'"appoggio critico" ai cinesi nel corso della disputa Cina-URSS. Gli scarsi frutti di questo acrobatismo tattico, che portarono ad estinzione Azione Comunista, con la separazione tra "leninisti" e... filoalbanesi, ha consigliato prudenzialmente di tirare i remi internazionalistici in barca. Negli anni '70, l'unica iniziativa "internazionalista" di Lotta comunista che si conosca è la sua partecipazione agli incontri internazionali indetti dalla formazione trotzkista francese Lutte Ouvrière (ma, dio ce ne scampi!, senza darne sul giornale una linea di orientamento ed un bilancio e meno che mai un'indicazione prospettica).

Senonché proprio perché l'"imperialismo unitario" richiama l'internazionalismo unitario del proletariato che si costituisce in classe e quindi in partito politico, questo escamotage ha il fiato corto. Se l'attuale situazione di "dimissionamento" del sindacato dai suoi compiti "istituzionali", come ama dire Lotta Comunista, ed il tracollo irrimediabile delle correnti sessantottiste lascia spazio alle manovre organizzativistiche di questi pseudo-leninisti non c'è dubbio che, mano a mano che la situazione di scontro internazionale proletariato-borghesia va maturando, Lotta Comunista dovrà misurarsi finalmente sul terreno decisivo che essa oggi accuratamente evita.

Sarà chiaro, allora, che non siamo in presenza di "leninisti in casa propria" con l'internazionalismo in meno, ma, come abbiamo sopra sottolineato, di comunisti fasulli su tutta la linea.

Sarà chiaro allora che, dietro determinate reticenze ad affrontare i problemi internazionali, si è nascosta l'indisponibilità a dar battaglia coerente alla borghesia, in casa e fuori.

Che se ne farà il movimento proletario di "comunisti" intenti ad immagazzinare nei loro computer i dati dello sviluppo dell'imperialismo italiano, ma si ritraggono impotenti dalla battaglia contro di esso quando esso allunga i suoi artigli in Libano o nel Sud-America, quando esso congiura contro i minatori inglesi ed i proletari sudafricani in rivolta?

Per parte nostra

diciamo ad alta voce che non ci interessano gli utili, magari sostanziosi, che potremmo ricavare da un abbassamento della nostra attività al livello di un'azione trade-unionistica nazionale in termini immediatistici, ma, con Marx e con Lenin, guardiamo agli interessi generali del movimento proletario e delle sue avanguardie politiche, certi che — al di là delle congiunture presenti, che ancora risentono dei pesi inerziali del passato — solo su questo terreno si possono e si debbono investire "leninisticamente" le nostre forze.

No agli "internazionalismi" spuri racchiusi entro i confini borghesi! Ma mille volte dl più no all'"internazionalismo platonico! Fin dall'epoca del Manifesto il cammino è segnato: "Al posto del vecchio motto della Lega ‘tutti gli uomini sono fratelli’ subentra il nuovo grido di battaglia: 'proletari di tutti i paesi, unitevi', che proclamava apertamente il carattere internazionale della lotta." (Engels, "Storia della Lega dal Comunisti"). Oltre un secolo dopo, non ha diritto dl chiamarsi comunista chi non intende e non pratica coerentemente questo grido di battaglia impegnativo per la "scienza" marxista, non semplice interprete, ma elemento soggettivo di cambiamento del mondo.