La classe operaia e in via di estinzione?

Con questo articolo diamo un primo schema di risposta su un importante problema riproposto, di recente, anche dalla tesi della CGIL

Gli operai sono una razza in via di estinzione? La borghesia mostra di avere pochi dubbi in proposito. Secondo padroni e loro opinion-makers la incessante ristrutturazione ha come vero obiettivo quello di eliminare ogni intervento umano nella produzione. La fabbrica automatizzata dei futuro è vicina, in essa non ci saranno più grigi operai schiavi della catena, ma eleganti tecnici in bianche tute che controllano con sguardo rilassato il complesso macchinario autosufficiente, schiacciando di volta in volta qualche sensibilissimo pulsante.

Il battage pubblicitario in questi anni è stato, in questo senso, ossessivo. Anche il sindacato "operaio", la CGIL, pone alla base della sua politica la modificazione della composizione di classe (la riduzione dei ruolo dei proletariato industriale), e fonda su di essa la proposta di "Patto per il lavoro", tema dei suo prossimo Congresso.

Perché, come e con quali conseguenze sul piano politico e rivendicativo?

Ci limitiamo in questo articolo ad esaminare l'impostazione delle tesi congressuali senza entrare qui nel merito della prassi, che spesso modifica, a destra, la prima.

Secondo la CGIL il paese è profondamente cambiato. Un grande peso hanno assunto i lavoratori intellettuali; gli addetti al settore terziario rappresentano ormai' la maggioranza assoluta degli occupati" (Documento generale, pag. 6). Il sindacato moderno, se vuoi fare i conti con la nuova "società dei servizi", deve darsi un progetto di trasformazione della società secondo una linea di "democrazia economica" che significa: partecipazione del sindacato alle grandi scelte economiche, partecipazione dei lavoratori all'economia (attraverso Fondi pubblici di investimento finanziati dai lavoratori e gestiti dai sindacati), decentramento delle funzioni di comando dell'azienda verso quadri e tecnici.

Le gambe su cui questo progetto può camminare sono date da quel "patto per il lavoro" che gli operai dovrebbero stringere con quadri e tecnici.

Il ragionamento contenuto nelle tesi CGIL è chiaro e lineare: cari operai, dovete rendervi conto che il vostro ruolo nella società va diminuendo a favore di quello delle figure "emergenti"; se volete difendervi efficacemente, dovete sottrarre questi soggetti all'egemonia padronale e farveli alleati.

In che modo? "Assumendo come obiettivi e valori la professionalità, l'efficienza, l'umanizzazione e la creatività dei lavoro, la democratizzazione delle forme organizzative e di gestione delle imprese e della pubblica amministrazione" (pag. 6).

Basta, quindi, con le vecchie rigidità, come la "salvaguardia dei safari minimi e una scala mobile uguale per tutti, la "difesa passiva dei vecchio posto di lavoro o della sua fittizia titolarità", basta con le "riduzioni d'orario automatiche e generalizzate", etc. Per evitare che l'Italia scivoli "verso posizioni più basse e tecnologicamente meno avanzate" (pag. 5), per acquisire "nuovi mercati e partner internazionali" (pag. 9), bisogna promuovere la flessibilità dei mercato dei lavoro (ovviamente "controllata" per opporsi alla deregulation sfrenata), differenziare i salari e legarli di più alla produttività, non cadere nel 1ranello padronale" di lasciare al sindacato la sola difesa degli operai (pag. 14), dare vita ad una grande politica di rilancio dello sviluppo e di una sua nuova qualità.

Da operai a... proletari

Potremo limitarci a una risposta generale: il capitale vive solo a misura che riesce ad estorcere plusvalore, e questo non lo può estorcere né alle macchine né ai quadri, i quali - anzi - vivono di una quota di plusvalore. Pertanto esso è condannato a portare al massimo grado la ricerca sull'automazione, ma a non poterla applicare fino in fondo proprio a causa di questo "piccolo dettaglio": la necessità dei lavoro umano come unica fonte della sua sopravvivenza. Finché ci sarà capitalismo, ci saranno operai: dicendo questo, siamo ben certi di non sbagliarci.

Ma gli operai, pur non scomparendo, diminuiscono o no?

Bisogna distinguere. Su scala mondiale il proletariato industriale è aumentato sia in cifra assoluta che in rapporto alla popolazione attiva. Se nel 1955 c'erano all'incirca 100 milioni di operai industriali nel mondo, oggi ve ne sono circa 200 milioni. La consistenza numerica di questo nucleo centrale dei proletariato è, perciò, globalmente raddoppiata. La sua dislocazione, poi, non è più limitata al solo Occidente-Nord dei mondo, ma si è diffusa ovunque. Altro che tramonto o scomparsa della classe operaia! Non c'è mai stato un mondo operaizzato come quello attuale.

Quanto alla situazione italiana, un primo superficiale approccio potrebbe portare a ritenere veri, almeno sul piano statistico, gli assunti della CGIL: gli occupati nell'industria sono calati dal 39,4% del 1970 al 35% dei 1982, a tutto vantaggio dei servizi, i cui addetti - globalmente passano dal 42,2% al 52,1 % (v. ISTAT, Annuario di contabilità nazionale, 1983). Nella grande industria, poi, l'occupazione è calata negli ultimi 5 anni al ritmo dei 5% annuo. Andiamo allora verso una società di soli servizi?

E’ il sogno dei più lucidi sostenitori dell'imperialismo: concentrare nel proprio paese la gestione finanziaria e commerciale di una produzione fatta altrove. Ma è, appunto, un sogno. La conferma ci viene dall'inversione di tendenza al decentramento produttivo nei paesi dei cosiddetto terzo mondo. Negli! anni '70 il capitale imperialista ha accentuato il ricorso alla manodopera a basso costo dei paesi arretrati per far fronte alla accresciuta concorrenza sui mercati. Successivamente, man mano che l’applicazione della ricerca ha reso più produttivo di profitto il lavoro ad alto contenuto tecnologico, una parte della produzione è tornata nei paesi imperialisti, lasciando fuori talune lavorazioni per le quali non si riesce ad "inventare" tecniche o macchinari più convenienti del lavoro umano a basso costo.

Non a caso la manovra al rialzo sul dollaro ha richiamato capitali negli USA anche per la produzione, e la manovra al ribasso tende anche a proteggere la produzione industriale USA.

Il capitale non può fare a meno della produzione neanche nei paesi imperialisti. Se la diminuisce, è perché il mercato non riesce ad assorbirla.

Il vero problema, per il capitale, è come aumentare la produttività degli operai diminuendo l'esborso di capitale variabile totale (massa salariale, che diminuisce con la diminuzione dei l'occupazione) e individuale (riduzioni salariali). Il che è avvenuto sinora coi concorso di CGIL... per non parlare di CISI--- e UIL...

Dunque: gli operai nella grande industria italiana sono diminuiti, secondo una tendenza propria ai paesi imperialisti. Però questo non significa che la produzione abbia perso di importanza per il capitale. Essa rimane centrale, anzi: il centro UNICO della valorizzazione dei capitale (non per caso l'attacco padronale avviene in nome della centralità dell'impresa!). E con la produzione resta centrale nella società il proletariato industriale.

In secondo luogo, quest'ultimo è diminuito meno di quanto mostrano le statistiche ufficiali. Infatti, il tanto decantato fenomeno (non solo italiano) del "piccolo è bello" non ha prodotto solo piccoli e piccolissimi imprenditori, ma anche centinaia di migliaia (circa un milione) di operai, censiti alla voce disoccupati proprio perché la produzione "sommersa" rimane clandestina sia al fisco che... all'ISTAT.

Questo è proletariato industriale a tutti gli effetti; non lavora più nella media-grande industria, ma rimane ad essa fortemente legato dal decentramento produttivo. Soprattutto, è questo l'operaio-tipo di cui tutto il capitalismo ha estremo bisogno nella crisi: senza contributi sociali né continuità del rapporto di lavoro, senza organizzazione sindacale, con bassi salari e orari lunghissimi, ecc.

Quindi, la quota complessiva di proletariato industriale è diminuita in Italia in proporzioni poco rilevanti sul piano dei numeri. Ma la modifica più importante è un'altra: una classe operaia più frammentata ha maggiori difficoltà nel difendersi dalla politica borghese, deve quindi ricreare condizioni di unità al proprio interno, rivendicando la riduzione generale e drastica dell’orario di lavoro e per gli strati più deboli condizioni di lavoro, normative e occupazionali simili al grosso del proletariato. Questo per rafforzare tutta la lotta di difesa dall’attacco della borghesia su questi stessi terreni.

Per inciso, anche la CGIL vuole unificare le condizioni proletarie, ma... al livello più basso, trasformando tutto il proletariato in una massa di lavoro precario, estendendo e legalizzando fuori dal "sommerso" tutte le forme di flessibilità padronale nell'uso della forza-lavoro (part-time, contratti di formazione-lavoro, assunzioni a tempo, ecc.).

Gli "intellettuali" dei servizi

Proletariato industriale diminuito di poco, quindi; occupazione nei servizi e nel "terziario" aumentata. Tutti padroncini, allora? Secondo l'Iscom (v. Il Mondo, 9112185), se aumenta l'occupazione totale nei servizi (nell'85: + 4%), aumenta ancora di più l'occupazione dipendente nei servizi (stesso anno: + 8%, quindi a ritmo doppio!).

La maggioranza dei nuovi addetti al terziario non sono né padroncini, né imprenditori di se stessi, ma non sono neanche tecnici e quadri. La maggioranza delle cosiddette nuove professioni dei terziario, avanzato o meno, sono "professioni" che per rapporto economico (salario), per contenuto dei lavoro (manuale), per orario (non libero) non hanno nulla di simile al professionismo e moltissimo di identico alla condizione proletaria.

Il fatto che vi siano impiegati un certo numero di lavoratori con diploma o con laurea non comporta che il contenuto dei loro lavoro sia "intellettuale": commessi di grandi magazzini, camerieri di fastfood, giovani addetti alla consegna rapida della posta, etc. sono proletari, e proletari nelle peggiori condizioni di sfruttamento, il cui interesse reale è quello ad una sicurezza dell'impiego e ad un salario decente. Hanno bisogno di più - e non di meno - rigidità.

Diversa è la situazione del pubblico impiego, che ha assorbito gran parte del vantato aumento dell'occupazione nei servizi. Qui si tratta, in stragrande maggioranza, di impiegati amministrativi o insegnanti che come contenuto dei lavoro si differenziano realmente dagli operai, meno - invece - per condizione economica. Non fanno parte del proletariato, ma hanno dei punti di potenziale contatto con la lotta operaia.

La necessità di ridimensionare il cosiddetto stato sociale impedisce una politica di tenuta generale dei loro privilegi, costringe la borghesia a privilegiare solo alcuni limitati settori e trattare tutti gli altri alla stregua di proletari (v. la riduzione della scala mobile e l'accordo-quadro sul pubblico impiego).

Ciò può anche produrre nell'immediato rigurgiti di corporativismo, con uno scatenamento della lotta di concorrenza per leggi o leggine di gratifica a questo o quel settore, a questa o quella qualifica, ma nella sostanza. delinea un destino sempre meno "privilegiato" per la massa del "pubblici dipendenti", per i quali si sta preparando perfino la perdita del privilegio sommo: la garanzia del posto di lavoro. A cominciare, ovviamente, da quel milione circa di proletari veri e propri dipendenti dalla P.A. (ferrovieri, netturbini, ospedalieri, etc.).

Una prima conclusione: il ruolo dei servizi va aumentando, a misura che cresce la produttività dei lavoro operaio nell'industria, ma non sostituisce, né sostituirà mai (capitalismo regnante) la centralità della produzione, né toglie agli operai la centralità politica neanche nei paesi più avanzati in senso capitalista. Inoltre, questo aumento estende ancora di più le condizioni di proletarizzazione, diffondendole anche in settori in cui prevalevano forme di lavoro "indipendente" (per es. la diminuzione dei dettaglianti si traduce in aumento dei lavoratori dipendenti dei supermarket).

Già ad un sommario esame, perciò, l'enfasi borghese o sindacale sulla "società dei servizi" appare dei tutto fuori misura e rivela l'interesse a "convincere" gli operai sulla loro presunta debolezza e sulla "necessità" di cedere ancora di più alle pretese capitalistiche.

Tecnici e quadri

Rimane da considerare un ultimo aspetto: la questione dei tecnici e dei quadri nelle fabbriche.

Non ci interessa tanto qui occuparci dei loro incremento (più che discutibile nel caso dei quadri), ma anzitutto della loro collocazione nel processo produttivo. I quadri ne sono fuori. La loro partecipazione alla logica d'azienda ha corpose motivazioni reali: essi sono gli organizzatori dello sfruttamento degli operai, oltre che dell'efficiente andamento complessivo delle aziende. Sono i primi collaboratori e servi del padrone. Altro che "potenziali alleati"!

Tra i tecnici si deve distinguere. Una parte di essi svolge una funzione di controllo del lavoro operaio o partecipa in altro modo (ricerca o progettazione) alla gestione dell’azienda. Ma un'altra buona parte si limita all'esecuzione di un lavoro sempre uguale o a battere sulle tastiere dei computer con un linguaggio imparato a memoria, lavoro non meno ripetitivo di quello alla catena, per 8 o più ore al giorno, con salari simili a quelli operai.

Il capitale blandisce questi settori, esaltando la loro diversità dagli operai e prospettando una loro maggiore partecipazione all’azienda. Ma oltre ai quadri può allearsi stabilmente solo una parte dei tecnici, sottomettendo gli altri alla stessa sorte degli operai: riduzioni salariali, gerarchia rigida del lavoro, licenziamenti (come nella famosa Silicon Valley).

In conclusione, delle tesi CGIL sono sbagliate le premesse e l'analisi stessa, ma ancor più insidiosa è la conclusione politica: patto per il lavoro e per la democrazia economica. Gli operai dovrebbero rinunciare a difendersi in quanto operai e a sostenere gli strati proletari più dispersi, per trasformarsi in una massa di sostegno a:

l. maggior potere - nella gestione delle aziende - a quadri e tecnici;

2. l'assunzione per il sindacato di potere economico diretto, attraverso la gestione di fondi o banche finanziati, naturalmente, col salario operaio (la CGIL è per il contributo volontario, la CISL per quello obbligatorio).

Una politica del genere, totalmente suicida per il proletariato, non va emendata (alla "Lotta comunista") o criticata solo perché non ha una strumentazione coerente con la strategia di fondo (alla Democrazia proletaria): va risolutamente respinta, dai principi alle conseguenze.

Per la classe operaia è indispensabile, sia per la difesa delle proprie condizioni materiali che per la preparazione allo scontro rivoluzionario, costruire un fronte di classe che unifichi tutto il proletariato. Per far questo non ha bisogno di far suo nessuno dei valori che la borghesia vuole diffondere tra tecnici e operai, ma solo di dare continuità e forza all’unica lotta di difesa dall’attacco capitalistico-statale, coinvolgendo in essa le mille figure proletarie del lavoro precario e sottopagato dell’industria, dell’agricoltura e dei "servizi".