Jugoslavia, paese ponte

La Jugoslavia torna ad occupare le pagine dei giornali nazionali. L'occasione contingente può essere, magari, la "scoperta sensazionale" del traffico dei bambini, dei "piccoli schiavi" per i quali l'addestramento all'accattonaggio ed ai furtarelli in Italia rappresenta già una sorta di promozione sociale (oggi, 1986, nel cuore dell'Europa!). Ma dietro l'uso folkoscandalistico di notizie del genere esiste nei borghesi più avvertiti una forte trepidazione per quello che si annuncia come il "crollo imminente" dell'intera realtà economico-sociale e statuale di questo "paese amico" posto ai nostri confini ad un crocevia nevralgico per la sistemazione complessiva dell'Europa.

La polarizzazione tra le classi

L'economia jugos1ava è al dissesto, con un tasso di inflazione che sta correndo verso il 100% annuo. I debiti con l'estero "impegneranno molte generazioni jugoslave" (Repubblica, 6-12-1985). La disoccupazione ufficiale tocca ormai il milione di persone, senza contare l'altissimo numero di emigranti (specie in Germania) su cui pende sempre la scure di una possibile espulsione dal posto di lavoro. La gamma dei prodotti di consumo vitale va rarefacendosi nei negozi: e non si tratta più solo dei "voluttuari" zucchero e caffè, ma della carne e del latte. Il reddito reale dei lavoratori si calcola sia diminuito di un buon 30% negli ultimi anni. Contemporaneamente, la sperequazione sociale aumenta vertiginosamente, come si conviene ad ogni buona società capitalista: per gli operai ed i piccoli contadini ad economia familiare sempre più stretti nella morsa della miseria c'è una buona fetta di "managers", di burocrati politici e sindacali, di professionisti, di liberi imprenditori e di contadini accumulatori che mantiene ed incrementa il proprio livello di vita. Con l’aggravante, a parte i pericoli sociali derivanti dall'allargarsi di questa forbice, che i maggiori quattrini che queste categorie si mettono in tasca non si traducono in investimenti produttivi, ma in consumi di lusso ed in depositi bancari prudenzialmente piazzati all'estero (le banche svizzere conoscono bene la "clientela" della costa turistica e dei dirigenti delle aziende "autogestite", nonché quella di certi alti vertici dello stesso apparato politico-statale...).

Quindi: accentuazione della crisi economica e, in essa, della polarizzazione di classe, che lo stesso regime, nello sforzo di controllarla (e magari volgerla a favore di questa o quella frazione che si contende il potere), è costretto a rendere in qualche modo pubblica. Le pagine della stampa di partito e di sindacato pullulano di proteste per la disparità sociale crescente, di istanze "antiburocratiche" e persino di richieste al sindacato di una "reale tutela" degli interessi operai. Sacrifici sì - questo è il messaggio veicolato -, ma giusti e finalizzati (la conoscete la musica?); che è poi la prima rivendicazione di certo riformismo spontaneo di taluni settori operai al primo stadio della definizione dei propri interessi di classe ed il limite oltre il quale non è consentito farsi sentire se non per via illegale. Accanto alle proteste "legittime e responsabili" cresce, infatti, anche la protesta "illegale ed irresponsabile" degli scioperi e delle azioni di sabotaggio: la stessa stampa del regime ha dovuto registrare alcune di queste manifestazioni, come nel caso dello sciopero dei portuali di Koper (Capodistria) scoppiato proprio in piena stagione turistica e, quindi, particolarmente "delittuoso". Si tenta, allora, di isolare e diffamare gli scioperanti (beninteso dopo averli colpiti "amministrativamente") come nemici dell'economia "di tutti" e come dei "privilegiati" (pensate un po', i portuali hanno osato muoversi nonostante paghe "favolose" corrispondenti a 350-400.000 lire mensili!).

La divaricazione nazionale e il conflitto est-ovest

A questa crisi di natura economico-sociale si aggiunge, e se ne alimenta, quella nazionale.

Arrivata in ritardo sulla scena storica, la Jugoslavia nasce come vero e proprio stato solo nel secondo dopoguerra. Per arrivare a tanto, essa ha dovuto procedere ad una centralizzazione assolutamente non in grado di garantire i diritti delle varie nazionalità che la compongono. E si abbia l'avvertenza di capire che qui non esiste un solido nucleo centralizzatore con marginali isole minoritarie, ma un mosaico di realtà etniche, linguistiche, religiose e culturali fortemente differenziate e storicamente gelose del proprio ruolo indipendente.

Paradossalmente, le stesse aperture decentralizzatrici promosse dal regime per sviluppare le "potenzialità" economiche del paese hanno portato "spontaneamente" (cioè entro il quadro del funzionamento anarchico del mercato e delle leggi dello sviluppo diseguale del capitalismo) ad un'accentuazione di diseguaglianze e fratture. La divaricazione nazionale che Tito aveva ereditato dal passato è così destinata ad arrivare sino alla rottura traumatica dell'unità statale. Per rendersene conto, basti misurare le distanze che separano una Slovenia (che ha alle spalle una collaudata esperienza economica ed amministrativa, inserita nella tradizione mitteleuropea) ed un Kossovo (il cui reddito pro-capite è di 1/7 circa rispetto alle situazioni più avanzate e dove la disoccupazione ufficiale è del 27,3%, senza contare che il rimanente 63,7% della manodopera occupata lo è, per lo più, nell'economia di tipo familiare di pura sussistenza). E’ ben evidente come le repubbliche "avanzate" si oppongano ad ogni misura di redistribuzione centralizzata... della miseria e premano per una loro maggior autonomia, così come è anche comprensibile che cresca nelle repubbliche depresse la spinta verso la rivendicazione dei propri diritti nazionali, vedendo illusoriamente l'origine dei propri mali nell' "oppressione nazionale".

(E non si tratta soltanto di opposizione tra due estremi, ma, nel marasma generalizzato, della crescita di rivalità tra "pari" aspiranti alla guida del paese, come nel caso del latente "irredentismo" croato, tenuto anche militarmente vivo nell'emigrazione, nei confronti del "prussianesimo" serbo).

Su questa situazione si innesta il gioco dei conflitti inter-capitalistici a scala internazionale. Nel '48 Tito ha potuto rendersi "indipendente" rispetto alle pretese egemoniche di Stalin solo aprendo le porte alla dipendenza "controllata" verso l'Occidente. Per qualche tempo ha funzionato la messinscena del "terzo polo" dei "non allineati", di cui la Jugoslavia ha rappresentato il capofila. Oggi, in una situazione internazionale in cui sempre più i piccoli paesi sono chiamati ad allinearsi, la Jugoslavia torna ad essere, molto più modestamente, il campo di battaglia di opposti appetiti extra-nazionali. Per il suo ruolo di crocevia internazionale, essa è destinata a fungere da terreno di scontro nella ridefinizione dei superati accordi di Yalta, e ciò spiega alla perfezione l'attenzione che da ogni parte si presta ai suoi destini.

Da una parte preme l’URSS, che ha - negli ultimi tempi - vistosamente rimediato all'offesa staliniana ed ha rinsaldato i suoi legami economici, politici (e, dietro l'angolo, militari) con la Jugoslavia, come attesta il recente comunicato congiunto jugo-sovietico siglato a Mosca (se ne veda il testo nella "Pravda" dell'8-6-1985). Dall'altra parte premono gli USA per i quali Schultz è andato di recente in Jugoslavia per una visita non certo di circostanza (come dimostra anche il resto dei suo itinerario, in particolare in Romania, un paese ormai alla fame più nera, costretto a militarizzare il lavoro, nei campi come nelle officine, per garantirsi un minimo di produzione, e sulle cui velleità di "sovranità nazionale" può ben soffiare la finanza statunitense ... ).

Ma una sua parte nel gioco la rivendica anche l'Italia, che sta da tempo pazientemente tessendo una sua tela diplomatica ed economica verso l'Est (non si dimentichi il ruolo di partner privilegiato costituito dall'Ungheria) sia per contrastare la pressione USA-URSS verso l'Europa, sia per aprirsi concorrenzialmente spazi "aggressivi" nei confronti delle due super-potenze. E’ un dato di fatto che l'Italia ha scaglionato le sue "forze di pace" non solo nel Medio-Oriente, ma lungo tutto l'arco est-europeo...

Andrà ripreso in altra sede un esame particolareggiato di questo complicatissimo puzzle e lo faremo. Con questo articolo abbiamo voluto semplicemente richiamare l'attenzione dei comunisti su una situazione dalla cui deflagrazione risulteranno conseguenze dirette anche e soprattutto per l'assetto dei rapporti di forza internazionali tra borghesia e proletariato che occorre sin da ora antivedere e cercare di volgere a nostro favore.

Dalla crisi jugoslava emergono enormi potenzialità di lotta proletaria, tutt'altro che circoscrivibili "regionalmente". "Si rischia il pericolo di una nuova Polonia, con conseguenze ancor più gravi", registra la "Repubblica" (articolo citato), ed è vero. Il proletariato jugoslavo conosce importanti tradizioni di lotta e la situazione in cui esso si trova lo spinge verso la riacquisizione di esse, aprendo un fronte potenzialmente esteso a vari altri paesi dell'Est europeo. Questo è il pericolo avvertito dalla borghesia jugoslava e dalla borghesia internazionale e contro di essa si stanno armando tutti gli strumenti della controrivoluzione. Diventa perciò essenziale che i comunisti delle metropoli imperialistiche, a cominciare da quelli dell'Italia, che sta direttamente gomito a gomito con la Jugoslavia, lavorino alla riacquisizione dell'autonomia di classe, cercando di stringere dei primi legami concreti con le espressioni già in atto di lotta proletaria nel paese vicino.

Jugoslavia paese-ponte? Sì, e che esso divenga ponte per la rivoluzione!