Classici del marxismo

Il Manifesto del Partito Comunista*


Londra, dicembre 1847. Sono riuniti, da più di dieci giorni, comunisti "delle più diverse nazionalità". È il secondo congresso della Lega dei comunisti, l'organizzazione che Engels definì "il primo movimento operaio internazionale". Siamo alla vigilia della grande rivoluzione europea del 1848. La potente macchina repressiva della restaurazione, che aristocrazia, clero e borghesia moderata avevano messo in piedi per ricacciare indietro la rivoluzione francese, scricchiola ovunque. L'Europa è pronta per la più grande sollevazione della sua storia.

Nella febbrile attesa della sua prima, vera "battaglia campale", l'avanguardia del proletariato europeo predispone le sue forze allo scontro e alla direzione della lotta. Per farlo in modo adeguato deve definire scientificamente il proprio modo di vedere, i propri fini il proprio programma, liberandosi da tutte le dottrine più o meno fantasiose e ingegnose con cui si è sinora identificata. La prolungata e accanita discussione di Londra si chiude con la piena accettazione, da parte dei delegati, della "nuova teoria" formulata da Marx e da Engels. I due giovani militanti vengono perciò incaricati dal Congresso di redigere un testo in cui siano espressi i principi e gli scopi pratici dei comunisti.

I due amici si mettono al lavoro e in circa due mesi nasce, per mano di Marx e di Engels, "Manifest der kommunistischen Partei", un testo che è considerato anche dagli avversari del comunismo un capolavoro della letteratura politica d'ogni tempo e che, nonostante gli anni passino, conserva una sconcertante freschezza.


La società borghese.

Il Manifesto si apre con la constatazione che "la storia di ogni società esistita sinora è storia di lotte di classi", cioè che tutte le forme di organizzazione sociale succedutesi nei secoli si sono presentate come società divise in classi.

Anche la società presente, che Marx ed Engels definiscono come società borghese moderna, non ha cancellato gli antagonismi tra le classi, ma ha solo sostituito alle antiche "nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta".

Chi si aspettasse, a questo punto, una denuncia moralistica e, per dir così totale della borghesia, resterà deluso. E forse finanche meravigliato nel trovarsi di fronte alla lode della "parte sommamente rivoluzionaria" che ha avuto la borghesia nella storia.

Lo sviluppo della grande industria moderna, la creazione del mercato mondiale, lo straordinario impulso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni. La distruzione di tutte le precedenti condizioni di vita patriarcali e feudali, lo smascheramento delle vecchie illusioni ed ipocrisie religiose e morali; ma soprattutto il continuo rivoluzionamento degli strumenti e dei rapporti di produzione, "l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali". Ecco cosa si deve alla borghesia, la prima classe nella storia a dimostrare` "che cosa possa compiere l'attività dell'uomo".

Con la costituzione di un mercato mondiale, la borghesia ha fatto sì che la produzione e il consumo di tutti i paesi ricevessero "un'impronta cosmopolita". Ed è ancora alla borghesia che si deve se, con lo scambio universale, si è stabilita — al posto della soffocante autosufficienza locale o nazionale — "una interdipendenza universale tra le nazioni", in campo materiale come in campo intellettuale.

"Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le generazioni del passato".

Questo pieno riconoscimento dei meriti "rivoluzionari" della classe nemica che il movimento comunista ha fatto sin nel suo atto di nascita, esclude per i comunisti la possibilità di civettare, in una qualunque forma, con la prospettiva sempre ricorrente (vedi oggi il fondamentalismo dei verdi, le correnti più integraliste dell'islamismo e del cattolicesimo, etc.) di superare i mali della società borghese... con il ritorno ai vecchi modi di produzione.

Ma questo riconoscimento non impedisce certo a Marx e ad Engels di indicare e denunciare con parole penetranti e di fuoco i due... piccoli inconvenienti della società borghese moderna.

Il primo è che tutto il suo sviluppo, la sua civiltà, le sue meraviglie sono fondate sul lavoro del proletariato, "la classe degli operai moderni, che vivono fintantoché trovano lavoro, e trovano lavoro solo fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale". Questi operai sono "costretti a vendersi al minuto", sono ridotti a merce "come ogni altro articolo commerciale". E in quanto tali sono asserviti non solo alla classe dei borghesi e allo stato dei borghesi, "ma vengono asserviti giorno per giorno, ora per ora, dalla macchina, dal sorvegliante e soprattutto dal singolo borghese fabbricante in persona".

È un vero e proprio dispotismo, tanto più meschino, odioso ed esasperante, quanto più apertamente esso proclama come fine ultimo il profitto.

E allora, cosa? Cambiare il fine di questo meccanismo? Mettere al posto del guadagno del capitalista la giustizia, l'equità, lo sviluppo del comune benessere?

Sentite in che modo i due grandi vecchi mettono K.O., insieme con il loro avversario del tempo Proudhon tutti i Lama e i Natta d'ogni nazione: "I borghesi socialisti vogliono le condizioni di vita della società moderna senza le lotte e i pericoli che necessariamente ne derivano. Vogliono la società attuale senza gli elementi che la rivoluzionano e la dissolvono. Vogliono la borghesia senza proletariato. La borghesia si raffigura naturalmente il mondo in cui essa domina come il migliore dei mondi. Il socialismo borghese elabora questa consolante idea in un semisistema o anche in un sistema intero. Quando invita il proletariato a mettere in atto i suoi sistemi per entrare nella nuova Gerusalemme, il socialismo borghese non fa in sostanza che pretendere dal proletariato che esso rimanga fermo nella società attuale, ma rinunci alle odiose idee che di essa si è fatto".

Proletariato e comunismo

Per Marx ed Engels, e per il movimento comunista oggi come ieri, ben altra è la soluzione del moderno antagonismo di classe tra la borghesia (la classe proprietaria dei mezzi di produzione) e il proletariato. Tale soluzione non è inventata con cervellotiche ricerche, ma è rinvenuta all'interno dello stesso contraddittorio procedere dello sviluppo capitalistico.

A ben vedere, infatti, il moto in avanti dell'industria e del commercio borghesi tutto è salvo che lineare e pacifico. Al contrario, le crisi, — eccolo qui il secondo piccolo inconveniente! — con il loro "periodico ritorno", fanno sempre più assomigliare la società borghese "al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate".

Nelle crisi della società borghese si verifica un fenomeno che in tutti i modi di produzione precedenti sarebbe apparso paradossale: la sovrapproduzione. Incredibile, ma vero: la macchina sociale borghese va in tilt perché possiede "troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio". Altrettanto incredibile e irrazionale, ma altrettanto vero, poi, è che la macchina sociale si rimette in moto solo dopo (e attraverso) la distruzione di una massa di forze produttive e dall'altro gettandosi alla conquista di nuovi mercati. Ma in questo modo prepara "crisi più generali e più violente", diminuendo al contempo i mezzi per prevenire la crisi.

(Permetteteci di chiedere, almeno tra parentesi, se il periodo 1848-1985 non sia stato una conferma schiacciante del carattere scientifico di questa previsione marxista...).

Niente più e meglio del meccanismo che porta alle crisi e ne consente il superamento (solo a patto di...) serve a mettere in luce il contrasto insanabile tra forze produttive moderne e rapporti di produzione moderni, tra le forze produttive suscitate dalla borghesia e i rapporti sociali, i rapporti di proprietà entro cui la dittatura borghese tiene stretta la via sociale.

In realtà, come la società feudale si portava dentro la futura società borghese, la presente società borghese si porta dentro la futura società comunista. L'antagonismo tra borghesia e proletariato non è una misera lotta per la semplice ripartizione del prodotto sociale, ma l'espressione dello scontro epocale tra vecchia e nuova società, tra passato e futuro, tra società borghese e società comunista.

La società borghese non riesce più a vivere sotto il dominio borghese, che non è più capace di regolare e dirigere le forze produttive. Lo svolgimento stesso delle cose rende necessario (oltre che possibile) un nuovo ordinamento sociale, un ordinamento sociale comunista.

La società comunista sarà una società non più divisa in classi, una società in cui la proprietà privata dei mezzi di produzione verrà definitivamente abolita insieme con la classe borghese. Nella società comunista la straordinaria forza produttiva della grande iniziativa moderna non sarà più guidata... allo sbando e allo scontro da capitalisti in perpetua lotta tra loro, ma dall'intera società sarà assoggettata ad un piano dei bisogni collettivi (v. Engels, Principi del comunismo, tesi 13). In questo modo alla socializzazione della produzione corrisponderà finalmente una "appropriazione" da parte dell'intera società poiché — soppressa la proprietà borghese (anche nella sua forma "statale" specifichiamo oggi, ma la cosa già è detta nei Manoscritti) — tutti i mezzi di produzione e i prodotti del lavoro associato saranno messi a disposizione della collettività.

Con la proprietà borghese dei mezzi di produzione, dicono Marx ed Engels, scomparirà anzitutto il "potere di assoggettarsi il lavoro altrui". E verranno archiviati il commercio e il diritto borghesi, la famiglia e l'educazione borghesi, verrà soppressa la posizione delle donne "come semplici strumenti di produzione".

La rivoluzione comunista, "la più radicale rottura con i rapporti tradizionali di proprietà", proprio nella misura in cui avrà abolito lo sfruttamento di una classe ad opera di un'altra, farà scomparire anche "la posizione di reciproca ostilità tra le nazioni".

Questo è il grandioso sviluppo storico di cui la società borghese ha gettato le basi materiali. Questo è il vero passaggio alla civiltà che finanzieri e ministri di polizia, industriali e imam, "socialisti" dell'Est e "liberisti" dell'Ovest vorrebbero impedire. È questa la posta dello scontro tra borghesia e proletariato. Ben altro che il miserabile "diritto al lavoro" con cui un Folena, segretario FGCI si permette di identificare "il futuro"!

Utopia? No, rivoluzione politica e sociale

Utopia! Gridavano e gridano tuttora i riformisti. Ma utopia, e per di più reazionaria, è invece il sognare un capitalismo equo, regolato, pacifico e così via. Quella di Marx ed Engels, quella dei comunisti, è "semplicemente" una prospettiva rivoluzionaria. Ossia una prospettiva che, per realizzarsi, prevede e prepara la rivoluzione politica per portare a termine la rivoluzione sociale.

Utopia sarebbe prevedere un passaggio pacifico da un modo di produzione all'altro. E fu pacifico forse il passaggio dal feudalesimo alla società borghese? No, assolutamente; ci sono volute non una, ma molte rivoluzioni. Rivoluzioni su cui la borghesia tende ora a mettere la sordina o il discredito, sia su quelle lontane (pensate al ripugnante film di Wajda su Danton) sia su quelle vicine (pensate alla serie Rambo in rapporto alla rivoluzione antimperialista nel Vietnam). Rivoluzioni che noi teniamo bene a mente...

Come — dunque — il trapasso dal feudalesimo alla società borghese fu un trapasso rivoluzionario, così lo sarà il trapasso dalla società borghese al comunismo. "L'abolizione dei rapporti borghesi di produzione (è) possibile solo per via rivoluzionaria". Ad opera di chi? Dell'intera società, delle menti più illuminate, di quattro cospiratori, dei più ribelli? No niente di questo.

L'unica classe che è capace di realizzare questo rovesciamento d'epoca è il proletariato. Perché è la più moderna tra tutte le classi, è il perno della produzione moderna, è "il prodotto specifico della grande industria". Questa classe "senza proprietà che non ha nulla di proprio da salvaguardare, che non ha da far valere nessun proprio interesse corporativo contro la classe dominante, che non può emancipare se stessa senza emancipare contemporaneamente tutta l'umanità, questa è la classe rivoluzionaria. Questa è la classe che "tiene in mano l'avvenire".

Il proletariato, però, non può coltivare illusioni deterministe e facilone. È vero che il movimento proletario è "il movimento indipendente della immensa maggioranza nell'interesse dell'immensa maggioranza", ma non basterà il numero, di per sé per garantire la vittoria: le rivoluzioni debbono battere sul campo le armate controrivoluzionarie.

Tre sono le condizioni che il Manifesto pone per l'emancipazione vittoriosa del proletariato e la sua costituzione in classe dominante:

  1. la "formazione del proletariato in classe", e quindi in partito politico;
  2. la sua "azione unita" su scala internazionale, "per lo meno nei paesi civili" — dicono nel 1848 Marx ed Engels, che presto estenderanno senza limiti questa primitiva formula;
  3. la conquista del potere politico, che può essere conseguita "soltanto col rovesciamento violento di tutto l'ordinamento sociale finora esistente". Il dominio politico sarà, per il proletario, lo strumento necessario per rovesciare progressivamente i rapporti sociali borghesi.

Il fallimento clamoroso, dal punto di vista proletario e rivoluzionario, di tutte le sperimentazioni spontaneiste, di tutte le forme di "socialismo nazionale" o di vie "nazionali" al socialismo, nonché di tutti i tentativi di "riformare" i rapporti sociali capitalistici senza abbattere il dominio politico del capitale (lo stato borghese), conferiscono al Manifesto di Marx e di Engels una forza ancora maggiore.

Sì, il programma immediato è invecchiato, ma solo nel senso che, sulla base del tracciato permanente d'insieme, oggi esso è tenuto ad andare ancora più in profondità e meno che mai ad arretrare alle riedizioni corrette del capitalismo sognate e perseguite dai riformisti (e dai loro compagni di strada centristi).


Il testo completo del Manifesto del partito comunista è disponibile sul sito