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Caso Ocalan

LA LOTTA DEI KURDI A UN BIVIO

Indice

La trappola europea
Rifondazione scivola sempre di più nello sciovinismo
I lavoratori kurdi a Roma: un esempio di militanza proletaria
Lotte di liberazione nazionale e insorgenza d’area
Le contraddizioni prodotte dall’imperialismo ritornano nella metropoli.

Proprio mentre gli USA si accingevano a scatenare una nuova aperta aggressione contro il popolo irakeno e l’insieme delle masse arabo-islamiche, la questione kurda, dal giorno dell’autoconsegna alle autorità italiane del leader del PKK Abdullah Ocalan, è assurta agli "onori" della cronaca e del dibattito politico nostrano. Dai parlamentari della maggioranza a quelli dell’opposizione, dai più "stimati politologi" ai più "insigni intellettuali", dagli uomini di governo ai rappresentanti delle alte gerarchie ecclesiastiche fino ad arrivare agli esponenti del "variegato" mondo del volontariato e dell’associazionismo, tutti, ma proprio tutti, hanno detto la loro. Sulle valutazioni politiche e sulla soluzione tecnico-giuridica con cui risolvere il caso si sono registrate differenziazioni reali e anche marcate (andando dalla petizione di asilo politico alla richiesta, perorata dal Polo, di espulsione immediata). Il coro si è, però, dimostrato ben accordato nell’intonare le melodie classiche della propaganda sciovinista propria del "bel paese", tendenti a presentare e ad accreditare l’Europa e l’Italia come portatrici di un’alternativa democratica e umanitaria di fronte agli "eccessi" dell’alleato a stelle e strisce d’oltreoceano.

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La trappola europea

La regione mediorientale è divenuta negli ultimi anni un terreno di caccia quasi esclusivamente statunitense; la massiccia e costante presenza e azione militare yankee e il contemporaneo e contrapposto estendersi e radicalizzarsi dell’insorgenza antimperialista delle masse oppresse arabo-islamiche, tendono irrimediabilmente a ridurre al lumicino il peso e lo spazio di manovra politica del "vecchio continente". Contendere le aree di influenza all’imperialismo americano sul terreno, sempre più decisivo, della pura forza è al momento per l’Europa (ammesso e poco concesso che di essa se ne possa parlare come di un’unitaria entità) cosa assolutamente impossibile e inimmaginabile. Ovvio quindi tentare di far risalire le proprie quotazioni agendo sul terreno diplomatico e tentando di sfruttare in tal senso ogni occasione.

Che lo sbarco a Fiumicino del capo del Partito dei Lavoratori Kurdi sia avvenuto all’insaputa delle forze governative (cosa francamente assai poco credibile), o che sia stato preventivamente preparato e concordato con ambienti delle cancellerie italiane, poco cambia. Sin da subito il neonato governo D’Alema ha agito per trasformare quella che pubblicamente veniva definita una "patata bollente" giunta come un fulmine a ciel sereno, in una preziosa carta a favore dell’imperialismo italiano ed europeo da giocare sul fondamentale scacchiere del Medio-Oriente. La precondizione però affinché questa carta potesse essere adoperata era lo svilimento e il depotenziamento del contenuto sovversivo rispetto all’ordine internazionale insito nella questione kurda. Non a caso, infatti, tanto i vecchi assetti coloniali, quanto il più recente ordine imperialista hanno sempre radicalmente escluso ogni possibilità di stato nazionale per il popolo kurdo e ne hanno provocato la frammentazione e la diaspora.

Il governo italiano ha, quindi, chiaramente subordinato i suoi "buoni auspici" a due precise e nette precondizioni: che il popolo kurdo dismetta ogni autonoma capacità d’iniziativa, di organizzazione e di lotta e che dai suoi rappresentanti venga apertamente e definitivamente accettato il dato che la questione kurda va "accomodata" pacificamente e senza turbare gli "equilibri" statuali e i confini territoriali dell’area mediorientale. Quando il presidente del consiglio afferma: "Noi non abbiamo alcuna simpatia per la violenza e il terrorismo, spero che la venuta di Ocalan possa significare la rinuncia della lotta violenta e la ricerca di metodi pacifici" (l’Unità 17/11/98) non fa altro che esprimere in termini raffinatamente infami (vomitando tra l’altro veleno sulla lotta di un popolo che quotidianamente è costretto a battersi contro la doppia oppressione, questa sì terroristica, dell’imperialismo e delle borghesie dell’area) una richiesta alle masse kurde di piena capitolazione. Il messaggio di D’Alema infatti va così decifrato: "noi socialdemocrazie europee, al governo ormai quasi ovunque, siamo anche disposte a prendere voi kurdi sotto la nostra ala protettrice, ma alla sola condizione che voi abbandoniate ogni velleità di riscatto nazionale e, ancor più, sociale e che di contro diveniate docili pedine, semplice merce di scambio e di contrattazione nelle mani del nostro imperialismo democratico e progressista".

In teoria la vicenda Ocalan avrebbe potuto spingere l’Europa a marciare compatta e a produrre una forte e decisa iniziativa politica comune almeno al fine immediato di riguadagnare spazio negoziale in Medio-Oriente e di bacchettare con decisione una Turchia (di cui, giova ricordarlo, l’Italia è, dopo la Germania, il secondo partner commerciale) sempre più smaccatamente filo-americana e filo-israeliana. Un’azione comune che, a una prima e superficiale vista, sembrava essere facilitata dalla guida di sinistra della quasi totalità dei governi del "vecchio continente". Alla prova dei fatti però la "soluzione unitaria" ha fatto pienamente cilecca ed ha prevalso quello che nell’insulso gergo giornalistico viene definito "egoismo nazionale". In sostanza i fatti hanno per l’ennesima volta dimostrato che i singoli capitalismi nazionali non possono che vedere gli uni negli altri solo ed esclusivamente dei concorrenti da cui guardarsi e da mettere in difficoltà, e che solo in ben determinati frangenti tale reciproca ostilità può, provvisoriamente, essere accantonata. L’Europa borghese potrà realmente, ma sempre transitoriamente, compattarsi solo se si troverà a dover fronteggiare l’insorgenza rivoluzionaria del proletariato. In assenza di ciò, le possibilità di unificazione reale almeno di alcune sue parti significative si potrà dare solo in presenza di una precipitazione dello scontro con il polo imperialista americano. All’oggi non è, purtroppo, data la prima condizione e la seconda ha bisogno di ulteriore maturazione.

Che la presenza degli Schroeder e dei Jospin vari potesse omogeneizzare in senso europeo le varie e contrastanti politiche nazionali non poteva che rivelarsi un meschino sogno degno solo delle svariate anime candide che affollano la sinistra nostrana (le quali, in verità, coltivano un sogno ancora più vacuo: che si possa, cioè, con quei personaggi, addirittura mutare la cannibalesca natura del capitalismo!).

Lasciato solo dai "soci" europei, il governo D’Alema ha repentinamente operato per sgonfiare il caso abbassando decisamente i toni della polemica internazionale ed evidenziando, tra l’altro, ancora una volta l’intrinseca e relativa debolezza dell’imperialismo italiano. Alla fine, dunque, il cerino acceso è restato in mani tricolori e lo si è cercato di spegnere - ovviamente sempre nelle carni kurde - senza eccessivi rumori, gestendo in sordina l’allontanamento di Ocalan dall’Italia.

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Rifondazione scivola sempre di più nello sciovinismo

Rifondazione Comunista ha avuto un ruolo di primo piano nella preparazione e nella gestione della venuta di Ocalan in Italia. Stando alle dichiarazioni dei suoi dirigenti si è voluto in tal modo contribuire a internazionalizzare la questione kurda e a favorirne una positiva soluzione. Che le intenzioni di un Bertinotti e di un Mantovani fossero queste lo si può anche accettare, ma che tutto ciò abbia una sia pur lontana parentela con l’internazionalismo proletario e comunista suona come una pura e grossolana bestemmia. Affetti noi dell’OCI da preconcetta faziosità? Al lettore che lo credesse sottoponiamo a mo’ di indicazione alcune prese di posizione apparse sul quotidiano del partito.

Sul numero del 21/11 parla Bertinotti: "Siamo al vostro fianco nella lotta per l’indipendenza della nazione kurda, per andare in questa direzione ora serve l’intervento forte dei partners europei". Il 27/11 Liberazione, sottolineando che in ottobre il parlamento italiano ha votato unanimemente una risoluzione a favore del popolo kurdo, scrive: "Tra i presentatori della mozione c’è anche Mirko Tremaglia (AN). È il segnale di una nuova sensibilità verso la questione kurda, diffusa non solo a sinistra. Anche dal Vaticano viene un’attenzione nuova, e un atteggiamento disponibile viene anche da forze come l’UDR". Il 2/12 sempre sulle pagine del quotidiano si invoca un ruolo attivo e di pace dell’Europa alternativo agli USA nelle aree dove vi sono conflitti aperti. Si potrebbe continuare a lungo, ma pensiamo che basti e avanzi: tutto il preteso internazionalismo di Rifondazione si riduce a un misero e accattone antiamericanismo di marca europeista, sciovinista e nazionalista. Come sempre il riformismo si dimostra un volenteroso gregario impegnato nel "tirare la volata" al proprio imperialismo, presentato - e anche qui non vi è alcuna novità - come democratico, umanitario, progressista, etc. etc. Che per tale strada ci si trovi sempre più spesso in compagnia di vescovi, cardinali e papi (a proposito: bisognerebbe chiedere alle popolazioni della ex-Jugoslavia un parere sul ruolo di pace della Santa Sede) e che si perda completamente di vista ogni prospettiva classista, non può certo destare stupore alcuno.

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I lavoratori kurdi a Roma: un esempio di militanza proletaria

Alla notizia del fermo di Ocalan migliaia di proletari kurdi da ogni paese d’Europa hanno iniziato a mobilitarsi e a organizzare la propria venuta in Italia: dalla Germania e dalla Francia, dalla Svizzera e dal Belgio, dalla Svezia e dall’Inghilterra, come un autentico fiume sono confluiti a Roma per sostenere con la propria presenza militante la concessione dell’asilo politico per Apo. Per oltre una settimana migliaia di uomini e donne, giovani e anziani, incuranti del freddo pungente e di ogni altra difficoltà logistica, hanno occupato una piazza del centro della capitale, evidenziando come e su quali gambe le masse proletarie devono e possono internazionalizzare le proprie "questioni". Unito, al di là d’ogni diversità generazionale e di sesso, questo nutrito distaccamento del proletariato kurdo ha dato prova di una rigorosa fermezza, di una combattività e di un’autodisciplina militante esemplari, di cui mirabile sintesi è stata la manifestazione che il 17 novembre ha visto circa diecimila kurdi sfilare attraverso le strade di Roma rivendicando a viva voce le loro ragioni e i loro diritti.

La nostra organizzazione con le forze di cui dispone (poche o tante che al momento siano) è intervenuta tra questi fieri proletari rimarcando il pieno e incondizionato appoggio alla loro lotta, denunciando l’imperialismo di casa nostra e mettendoli francamente in guardia da ogni scivolamento europeista. Questo mentre l’intera sinistra era quasi totalmente impegnata presso i kurdi a magnificare il comportamento del governo e delle istituzioni italiane, oppure - emulando in versione "proletaria" le dame di San Vincenzo - ad avere un atteggiamento di pura assistenza solidaristica.

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Lotte di liberazione nazionale e insorgenza d’area

Chi sembra essere caduto in pieno nella trappola tesa dalle cancellerie europee è proprio Ocalan. Dal momento dell’arrivo in Italia le sue dichiarazioni sono state sempre più improntate ad assecondare e promuovere un’iniziativa diplomatica e negoziale europea in cambio della quale offrire una progressiva e decisa smobilitazione della lotta kurda. Incamminatosi per questa via scoscesa, Apo ha cominciato a ruzzolare velocemente facendo tra l’altro sapere che il proprio obiettivo non è più quello della costituzione dello stato nazionale kurdo, bensì quello "più realistico" dell’autonomia del Kurdistan settentrionale entro gli attuali confini turchi.

La apparentemente velocissima parabola percorsa dal capo del PKK non è frutto né del tradimento né di improvvise "svolte", bensì evidenzia come le direzioni nazionalistiche borghesi e piccolo borghesi - nell’odierno quadro di montante offensiva imperialista - siano ormai irrimediabilmente incapaci di assolvere coerentemente agli stessi compiti di liberazione nazionale. In Kurdistan, come e più che in Palestina, queste direzioni si sono sempre dimostrate avvezze a ogni sorta di mercanteggiamento con l’imperialismo sulla testa e sulla pelle delle masse, giungendo, i capi delle fazioni kurdo-irakene, ad appoggiare i bombardamenti occidentali del ’91 sull’Irak. Il PKK è stata la formazione kurda che più tenacemente ha tentato di sottrarsi a questo sporco gioco e di mantenere una propria autonomia: sotto la spinta combinata - militare, economica e diplomatica - del capitalismo internazionale e, soprattutto, in assenza di una qualsivoglia sponda proletaria in Occidente, era però giocoforza che anche la direzione del PKK si immergesse in un bagno di debilitante e utopico "sano realismo" borghese.

Se negli anni ’50 e ’60, durante le possenti lotte contro il colonialismo, fu per alcuni popoli possibile emanciparsi - sia pur parzialmente e transitoriamente - dal giogo occidentale nell’ambito dell’edificazione di propri stati nazionali, oggi - al livello dello sviluppo e della pressione imperialista dato - ogni simile prospettiva è esaurita completamente. Le sacrosante lotte per l’autodeterminazione kurda o palestinese sono oggettivamente chiamate ad andare oltre i loro confini, perché mettono in discussione l’ordine regionale, su cui, in ultima istanza, si fonda tutto l’ordine imperialista mondiale. Possono, perciò, trovare sbocco positivo solo intrecciandosi e fondendosi con la più generale insorgenza antimperialista delle masse arabo-islamiche che cova e divampa in tutta - e oltre - la regione mediorientale, e assumendo per tal via una valenza ancor più dirompente verso "l’ordine internazionale".

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Le contraddizioni prodotte dall’imperialismo ritornano nella metropoli.

Tanti tra i lavoratori kurdi giunti a Roma erano operai di medie e grandi aziende del Nord e del centro Europa. Essi non hanno solo dimostrato una grande attitudine alla mobilitazione diretta, ma hanno, di fatto, anche evidenziato come e quanto l’imperialismo debba oramai fare i conti, anche nel suo cuore produttivo, con una classe operaia sempre più multi-etnica, che sintetizza in se tutte le contraddizioni del capitalismo globalizzato e che le reimporta con forza dirompente nella metropoli venendo, così, a costituire un preziosissimo ponte per la saldatura nella lotta tra il proletariato occidentale e le masse oppresse del Sud del globo. Certo, sappiamo bene che al momento il proletariato subisce e patisce le divisioni etniche. Sappiamo che proprio in occasione della vicenda Ocalan, tanto in Belgio, quanto in Germania, lavoratori turchi e lavoratori kurdi sono giunti alla contrapposizione anche fisica. Ma sappiamo altrettanto bene che se la classe operaia "bianca" si sveglierà dal suo torpore e intraprenderà la strada della lotta, allora queste divisioni e contrapposizioni verranno superate in men di quanto ci si aspetti, trasformandosi nel loro opposto.

In questo quadro noi comunisti internazionalisti - nel mentre salutiamo con entusiasmo ogni lotta delle masse kurde, palestinesi e mediorientali - traiamo ancor maggiore determinazione per chiamare tutti i proletari e i compagni che mantengono vivo il senso di classe a lavorare insieme a noi affinché qui in "casa nostra" la classe operaia si liberi del proprio indifferentismo, del proprio nazionalismo e del proprio sciovinismo. Affinché il proletariato occidentale scenda in campo con tutto il suo decisivo peso a fianco della lotta delle masse sfruttate del Sud del mondo e rioccupi, finalmente, il posto che gli spetta nella battaglia di classe internazionale contro il capitalismo e l’imperialismo mondiale, fonte di ogni oppressione sociale, nazionale e razziale.

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