Dossier URSS

Caratteristiche della classe operaia
nell'Unione Sovietica oggi


L'URSS post-rivoluzionaria aveva ereditato dal regime precedente una situazione di scarsa concentrazione industriale, resa ancor più drammatica dalle conseguenze della guerra. La popolazione urbana, che attorno al 1916-'17, costituiva il 21,9% della popolazione, era scesa a quota 13,1 % nel '20, per il dissesto dell'apparato industriale e le difficoltà della sua riorganizzazione, con il dissanguamento di una quota importante dei proletariato rivoluzionario sui fronti della guerra imperialista e della guerra civile e il ritorno di settori rilevanti di esso in campagna per la necessità di sopperire alle più immediate esigenze alimentari. Solo a partire dalla NEP si era delineata un'inversione di tendenza, ma ancora nel '23 la popolazione urbana non raggiungeva che un misero 15,4%. A quella data, la popolazione industriale comprendeva (escludendo le province dell'estremo oriente) 1.619.403 unità, con una media di 12 occupati per azienda in totale e di 121 nelle imprese statali (che già ne occupavano la maggior quota: 1.342.716, cioè oltre l'80%).

Occupazione industriale, come si vede, estremamente bassa e pochissimo concentrata, a caratteristica proprietaria "naturalmente" statale, essendo solo lo Stato nella possibilità di ramazzare e destinare convenientemente alla produzione gli scarsi capitali disponibili e reperire la necessaria forza-lavoro per l'allargamento produttivo, soprattutto dopo il fallimento dei piani di apertura della NEP al capitale straniero.

Lo stalinismo ha assolto al compito storico di impiantare nel paese un moderno apparato industriale forzando, dall'alto del potere "economico concentrato" dello Stato, la dislocazione di masse sterminate di contadini verso l'area urbana e la fabbrica e, in mancanza di condizioni "normali" di sviluppo dell'industria sulla base di una progressiva concentrazione di capitali e di un relativo progressivo ammodernamento tecnologico, promuovendone il "disciplinamento" forzato per l'estrazione da essi della massima quantità di lavoro semplice possibile. (L'espressione di Stalin, "l'uomo è il capitale più prezioso", disegna bene questa situazione).

Oggi, compiutosi quel ciclo di accumulazione, la classe operaia sovietica è diventata non solo la classe prevalente della popolazione, ma per numero, concentrazione territoriale ed aziendale, essa non ha paragoni con il resto dei mondo. Proprio la bassa intensività di capitali ed il ricorso, per rimediarvi, all'impiego estensivo della manodopera a tappe forzate di costruzione dei "socialismo", cioè di un moderno industrialismo, ha fatto sì che essa abbia assunto queste dimensioni e queste caratteristiche.

"Numericamente, essa (la classe operaia, n.) è cresciuta dai 23,9 milioni dei 1940 (cifra già straordinaria se paragonata a quella del '23 sopra riportata, n.) ai 79,6 del 1981; in percentuale della popolazione attiva è passata dai 36,2 dei 1940 al 60,9 del 1982" (Kravcenko).

Questo gigantesco sviluppo dei proletariato è stato, per tutta la prima fase della "costruzione dei socialismo" staliniana, il frutto di un'accumulazione forzata di "capitale umano", innanzitutto, realizzato a spese della campagna (con costi, in termini umani, calcolati in qualche milione di deportati, massacrati e morti per fame, nelle tradizioni "eroiche" proprie di uno sviluppo del capitalismo giunto in ritardo sulla scena storica, ma ben deciso a riguadagnarsi tempi e spazi.

Nel secondo dopoguerra, sulla base di un'industrializzazione già avviata, l'opera di ricostruzione ha "spontaneamente" convogliato altre masse enormi di ex-contadini verso le aree urbane e le fabbriche statali. (Mettiamo lo "spontaneamente" tra virgolette, perché, in effetti mai alla "spontanea" violenza delle leggi proprie dello sviluppo capitalistico è venuto meno il concorso guidato dall'esercizio dittatoriale espresso - in nome degli interessi impersonali dello sviluppo capitalista - dello Stato, come dimostra - se non altro - l'esistenza del ricorso ad una manodopera a buon mercato costituita da una cifra imprecisata nell'ordine dei milioni, secondo stime attendibili - di lavoratori "coatti", "criminali sociali", hooligans, teppisti, oppositori politici e semplici proletari refrattari alla "disciplina dei lavoro" staliniana).

Attualmente, questa progressione - su cui si è basato lo sviluppo "estensivo" dell'economia sovietica - ha toccato l'apice e non può andare più avanti.

La campagna è stata spogliata del massimo della manodopera ad essa sottraibile - data la "soluzione della questione agraria" - senza indurre, ulteriori, laceranti conseguenze nel già compromesso standard produttivo agricolo. Milioni di piccoli lavoratori indipendenti sono stati espropriati della loro miserabile "proprietà privata" di tipo artigianale elementare. Le donne sono state convogliate nell'attività produttiva al massimo del possibile (alla data dei '77 costituivano il 51% dell'occupazione totale, che è termine ormai fisiologico oltre il quale è impossibile andare). Gli stessi pensionati sono stati reimmessi nel lavoro produttivo part-time e supplementare (tanto che nel ‘56 il 59% di essi risultava tuttora attivo)... L'estensività del processo produttivo è venuta così ad urtare contro l'impossibilità di andare ulteriormente avanti.

Riprova a contrario: la refrattarietà della campagna sovietica a produrre di più per lo Stato a minor tasso occupazionale (dato il manifestarsi, in essa, di una crescente formazione di strati accumulatori che premono per il loro riconoscimento su un mercato dalle possibilità sempre più vaste di estensione e profittabilità); la crescita del settore della piccola produzione indipendente (artigianale e commerciale) ai margini dell'occupazione nei ranghi statali, in contemporanea con essi (i titolari di "attività in proprio" sono per la stragrande parte salariati che vi si dedicano nel "tempo libero"); la saturazione naturale della manodopera femminile; la crescente indisponibilità dei pensionati a vendersi a basso prezzo per un lavoro "aggiuntivo" regolato dallo Stato, vuoi per il relativo miglioramento delle proprie condizioni, che rende poco appetibili questi Carichi mai retribuiti, vuoi per la possibilità di dedicarsi ad attività "in proprio" (nel '75 non si arrivava al 24,3% di pensionati reimmessi nel circolo dei lavoro ufficiale).

Ma la cosa più importante è che la classe operaia sovietica attuale non è solo cresciuta di numero, sino alle quote massime dei possibile: essa ha anche acquistato caratteristiche proprie e nuove che la rendono un soggetto qualitativamente diverso da quello degli anni trenta e quaranta.

La "vecchia" classe operaia sovietica era di recente formazione, con basi materiali ed ideologie tuttora stabili affondate nella campagna o nell'artel di provenienza, con lo stato d'animo dei contadino sradicato o quello della "promozione sociale", nel caso di contadini che - coi passaggio allo status operaio - salivano un gradino sociale (e non parliamo solo dell'"aristocrazia operaia" degli stachanovcy a servizio delle esigenze produttivistiche statali). Per essa poteva costituire un obiettivo lasciarsi dietro la miserabile condizione contadina precedente (resa tanto più miserabile dalla politica di "collettivizzazione" statale) per accedere alla "sicurezza" del posto di lavoro operaio ed agli "agi" dell'area urbana.

La "nuova" classe operaia sovietica non ha bisogno di scrollarsi di dosso il vecchio abito del piccolo produttore contadino od artigiano. Essa è figlia della precedente per normale riproduzione del proletariato dal proletariato. Non ha occhi da volgere all'indietro né mete di ascesa cui guardare in avanti, ma uno status ben fissato per essa.

Gli stessi studiosi sovietici sottolineano il fattore della formazione di un proletariato urbano ereditario: "Più l'età diminuisce più il peso degli operai di origine operaia aumenta e contemporaneamente decresce il numero di operai di origine contadina, proveniente dai kolchoz. Si nota la stessa tendenza per ciò che riguarda la terza generazione: più sono giovani gli operai e più spesso essi sono figli di operai piuttosto che di contadini".

Come sottolinea Rittersporn, l'indice della mobilità sociale è andato diminuendo. Da 15 anni a questa parte, egli scrive, si avverte una sempre maggior riproduzione automatica dei ruoli. Proletario genera proletario, e questo contribuisce a dare stabilità e forza alla coscienza dei singoli proletari di esser parte di una classe e non individui in corsa libera sul mercato dei ruoli. Questo mercato si è già chiuso, come dimostrano, tra l'altro, i dati relativi all'istruzione superiore (che in passato era fatta balenare come occasione di promozione per i "meritevoli" in un gioco di "circolazione delle élites").

"Questo studio - scrive Kravcenko, riferendosi ad un'indagine di parte ufficiale sovietica -, ha mostrato che il 70% degli operai con meno di vent'anni sono figli di operai. D'altra parte il 100% degli specialisti sono figli di specialisti"; i 2/3 degli studenti universitari di alcune zone-campione prese in esame dai sociologi sovietici risultano di provenienza familiare "alta"; la gioventù operaia tende sì ancora a rincorrere questa meta, ma "l'accesso agli studi superiori avviene però in un quadro di crescente competitività nel quale la possibilità dei giovani di provenienza operaia sono inevitabilmente sempre minori. ( ... ) Offrendo ai giovani di origine operaia una possibilità di promozione sociale gli studi superiori hanno giocato (in passato, n.) un ruolo importante quale valvola di sicurezza dei malcontento operaio. Ma essi non possono più continuare a giocare questo ruolo".

Concordiamo perfettamente con l'analisi dei Kravcenko, che pure considera l’URSS "non capitalista", secondo cui l'attuale stabilizzazione sociale è il frutto dei superamento della fase di accumulazione primitiva e costituisce anche la premessa della scesa in campo dei proletariato, in un futuro ravvicinato, come forza protagonista: "Un proletariato ereditario migliora il livello culturale della classe operaia e la coscienza di ciò che essa è in quanto forza sociale". Ed oltretutto, "comunità stabili sono sorte nelle zone urbane fornendo una rete di legami sociali informali che sono essenziali a qualsiasi azione di classe organizzata e spontanea".

Un'altra, essenziale caratteristica di questa "nuova" classe operaia è costituita dal peso sempre maggiore in essa della gioventù.

"Secondo Danilov (studioso sovietico ufficiale, n.) l'afflusso di giovani operai ha corrisposto al 29,1 % del bisogno di manodopera tra il 1961 ed il 1965, al 57,3% tra il 1966 e il 1970, e a più dei 90% nel periodo 1971-1975. Dal 1970 circa la metà degli operai dell'Unione sovietica aveva meno di trent'anni". (Dati dal "Kommunist", n. 9 dei 1977).

Una classe operaia estesa, concentrata, stabile e libera dai tradizionalismi propri dell'influenza di radicate situazioni e status sociali estranei ai suoi interessi.

E’ "troppo" pensare che questa classe operaia abbia delle richieste da gettare sul piatto? E se, com'è logico, questo è vero, quale politica salariale e normativa pensa il potere sovietico di adottare nei suoi confronti?