Il nuovo corso della "ripresa":

L’isola del tesoro

Da mesi ormai l'economia mondiale navigava "a vi sta", alla ricerca di qualcosa che potesse sostituirsi al progressivo declino della ripresa trainata dagli Usa, con la speranza di allontanare una nuova recessione.

Ora, con il crollo del prezzo del petrolio, sembra che il capitale abbia scoperto l'isola dei tesoro. I gazzettieri inneggiano all'ultimo miracolo del dio profitto che, dicono, ha sette vite come i gatti. Il Nobel di turno, Modigliani, rassicura i lupi e i polli di borsa che l'Europa avrà un nuovo boom. Ma è proprio questa la prospettiva?

Certo, un momentaneo prolungamento della ripresa con il centro spostato verso l'Europa è possibile, sempre che le potenti spinte anarchiche del mercato non prendano improvvisamente il sopravvento sui meccanismi di controllo su di esse.

Anche questo momentaneo prolungamento della ripresa - però - non invertirà in modo strutturale e decisivo il processo discendente della crisi, quello che abbiamo raffigurato come un andamento a denti di sega discendenti... verso il crack. Vediamo perché.

Anzitutto, il crollo del prezzo del petrolio non porta automaticamente ad un incremento della produzione e della ricchezza mondiali, ma ad una redistribuzione di esse. Al segno + nei conti di Europa, Giappone, Usa ed altri corrisponderà un segno - di entità sostanzialmente corrispondente nei conti dei paesi esportatori di petrolio.

Non per nulla l'Arabia Saudita rinvia il proprio bilancio per l’86 di alcuni mesi e annuncia anni di austerità mentre il Messico, sull’orlo del collasso, sospende per meno un mese tutti i pagamenti all'estero, l'Algeria è costretta a bloccare le importazioni, etc.

In secondo luogo, negli stessi paesi avvantaggiati il crollo degli utili da petrolio e settori connessi e la crescente esposizione del sistema bancario (specie negli Usa) innescano altre bombe ad orologeria.

E’ forse un caso se gli unici luoghi dell'economia che scoppiano di salute (apparente) sono le Borse? Se volete gli indici positivi record di oggi e dell'immediato futuro, eccoli:

+ 80% (1° trimestre '86) per l'indice complessivo delle maggiori Borse del mondo;

+ 75% (nel bilancio Usa per l'87) per le "guerre stellari".

Per l'appunto: come e più che nell'84-85 la speculazione finanziaria e la spesa bellica guidano l'economia internazionale. Forse è a boom diversi da quello economico che, involontariamente, alludeva Modigliani...

Del resto, negli stessi giorni in cui esplodeva in Occidente l'euforia da calo del petrolio, Gorbacev annunciava ufficialmente lo stato di crisi dell'economia russa, affetta nel profondo da quella caduta del tasso di accumulazione e di profitto comune, al di là della propaganda, a tutto il mondo.

Gli stessi Usa, beneficiari sotto molti aspetti di questo biennio di ripresina drogata, si scoprono a febbraio '86 non solo con il "superindice" negativo e gli investimenti scesi sotto quota zero, ma addirittura con il più alto indebitamento e il più pesante passivo commerciale della loro storia.

Né dall'arca del Pacifico continuano ad arrivare le buone nuove di un tempo: le Filippine mettono in fuga Marcos (si fermeranno al giallo?), altri regimi-Marcos cominciano ad essere scossi (come in Corea del Sud), la Borsa di Singapore è in panne, l'Indonesia è in difficoltà e la Cina ha problemi di pagamento con l'estero (proprio per il calo del prezzo dei petrolio). Dopotutto, i tassi di crescita della favolosa "area del Pacifico" si sono, negli anni '80, seccamente dimezzati rispetto agli anni '70, Giappone incluso.

Nel frattempo il dollaro sopravvalutato è divenuto il dollaro sottovalutato, e questo - come non bastassero gli altri fattori - è ad un tempo riflesso e moltiplicatore di contraddizioni sempre più difficili da dominare, dentro e fuori i circuiti monetari.

Una nitida fotografia di questo periodo l'ha fatta R. Cantoni, il più noto esperto italiano di mercati finanziari: "Tutti vogliono guadagnare, ma con interventi a breve termine, il che impone un forte aumento delle poste in gioco se si vogliono conseguire risultati apprezzabili. E’ una propensione comune a tutto il mondo (s.n.), non scevra di pericolosi arresti e di drammatiche inversioni di tendenza" (La Stampa, 9 marzo).

Dunque, per bocca di un esperto: il capitale non scommette su se stesso né a medio né - tanto meno - a lungo termine. Il crollo dei prezzo del petrolio ha in certo senso radicalizzato questa tendenza, proprio perché esso è – almeno nelle proporzioni attuali - a termine.

In realtà, é stata la sovrapproduzione di petrolio a determinare il crollo dei suo prezzo. E’ una piccola vittoria, per ora solo teorica, di quei testardi marxisti che negli anni scorsi hanno ripetuto fino alla noia: il grande e prolungato sviluppo del dopoguerra ha prodotto una sovrapproduzione di capitali, merci e forza-lavoro quale non s'è mai vista prima e che dovrà necessariamente venire alla luce con una rottura violenta dei rapporti economici e sociali.

L'inflazione dei secondi anni '70 è servita solo a rinviare nel tempo i problemi, con un transitorio "espediente". Così come l'esportazione di capitale nei paesi arretrati, l'incremento della produzione nelle imprese minori e l'intensificazione selvaggia dello sfruttamento operaio hanno contrastato in parte la caduta del saggio di profitto, ma solo a patto di aggravare la tendenza alla sovrapproduzione - dato un mercato mondiale sostanzialmente stagnante e di acuire i contrasti di classe.

Neppure queste misure spontanee e/o manovrate, però, sono state sufficienti. La massiccia riduzione delle imposte sul capitale e l'esplosione della spesa bellica (questo - poi - è il nocciolo della politica economica di Reagan) hanno rappresentato una ulteriore boccata di ossigeno, a patto di gonfiare esponenzialmente i deficit statali.

Il momento della verità, con il continuo rinvio viene spostato in alto, ma la sovrapproduzione comincia a non poter essere contenuta, mentre si rafforzano le spinte in direzione dell'impazzimento della speculazione monetaria e finanziaria.

Ne è passato il tempo da quel ferragosto del 1971, quando il presidente degli Usa poteva prendere da solo, per l'ultima volta, decisioni concernenti la moneta internazionale. Ora le "decisioni" (ex-post) si devono prendere almeno in cinque. E nel breve tragitto dal settembre '85 ad oggi i cinque sono già diventati sette. E’ la prova lampante che i "grandi" diventano sempre più piccoli a fronte del caotico moltiplicarsi dei punti di crisi nell'economia internazionale.

Fare dell'interesse privato dei capitalisti il principio organizzatore della società è un sopruso, è un regolamento carcerario contro il quale le forze produttive si ribellano con crescente pressione. Per riportarle all'ordine urge obiettivamente al capitale una distruzione rigeneratrice di tale portata che al suo confronto il '29 e la seconda guerra mondiale sembreranno vecchie, moderate crisi ottocentesche.

La concorrenza e lo scontro dentro l'occidente, dentro l'Opec, tra est e ovest, tra nord e sud, dentro il sud, in medio-Oriente, etc., non cessano di inasprirsi. La borghesia non può più vivere come prima. Insieme con lo sviluppo "garantito" della sua economia, è il suo ordine complessivo a traballare oggi.

Anche il proletariato non può più vivere come prima, e se ne sta progressivamente rendendo conto sotto le sferzate di un'oppressione sempre più intollerabile.

Cosa avrà da questo prolungamento della ripresina? Solo qualche mini-briciola selezionata (per i settori e le aziende che tirano) o forse anche su larga scala (una piccola parte dei decimali dovuti), pagata comunque a caro prezzo con ulteriore sfruttamento, mobilità, incertezza del posto di lavoro (vedi l'accordo Fiat). Anzi, già i padroni ammoniscono la classe operaia di stare al suo posto e di non farsi passare grilli per la testa.

Basta l'esempio Germania. Qui, proprio mentre la ripresina "impazza" e il marco si gonfia del sudore e del sangue dei proletari tedeschi e di altre nazionalità, il governo Kohl vuole imporre nuove, rigide misure antisciopero. E qui la classe proletaria ha risposto riempiendo le piazze di 250 città di grandi e combattive manifestazioni. Seguiamo il loro esempio, compagni operai! Non facciamoci assordare dalla propaganda padronale della ripresa né dal ricatto su di essa. Spezziamo il circolo vizioso dei "sacrifici necessari", da fare ieri a causa della crisi e oggi nonostante la... "ripresa". Scendiamo in campo contro la Confindustria, la finanza e il governo Craxi, in difesa dei nostri autonomi interessi e della nostra forza.