Dossier URSS

Una società senza classi?


Fa parte della mitologia sovietica parlare di un'esistente "società senza classi", o quantomeno senza conflitti di classe al proprio interno. Nella Costituzione dei '36 Stalin aveva abolito con un tratto di penna un conflitto dei genere; nel presentare la legge sui collettivi di lavoro, a 47 anni di distanza, Andropov parlava di "un notevole passo avanti verso l'omogeneizzazione sociale della società" sulla strada della "formazione di una struttura senza classi della società" evidentemente a venire; Gorbacev parla di "perfezionamento dei socialismo" in atto in URSS, a crescenti tassi di emulazione, ma, dio ce ne scampi!, senz'ombra di interessi conflittuali di classe.

Ribadendo, sulla base dei dati reali, un concetto di verità non più occultato, neppure dagli studiosi (magari non gli ideologici) ufficiali sovietici, Boffa annota su "Rinascita":

"L’ideologia sovietica non ammette che vi siano antagonismi in URSS. ( ... ) In effetti, conflitti sociali ci sono, ci sono stati e hanno lasciato il segno ( ... ). Nonostante il dichiarato monolitismo, il partito comunista ha al suo interno (non parliamo poi dell'insieme della società che in esso si riflette in forma mediata e "univocamente" controlla, n.n.) un potenziale di tensioni non indifferenti. Di fronte ad un'esigenza di cambiamento, credo che queste tensioni siano destinate ad aumentare". (n. 43, 4/11/83). Tensioni tra interessi regionali e settoriali diversi dell'economia, "fra singoli settori dell'industria, fra ricerca scientifica e controllo ideologico, fra esigenze dei militari e quelle dello sviluppo dei consumi, ed è vero che queste diverse esigenze finiscono per scontrarsi all'interno dei partito e trovare qui, quando le trovano, una loro composizione" (cioè una provvisoria sanzione di rapporti determinati di potere).

Non occorre, d'altra parte, molto per capirlo, dal momento che tutta la storia dei partito "monolitico" è costellato da lotte di potere (dietro le quali solo degli idioti possono vedere dei semplici scontri tra "boiardi" dediti alla lotta di "potere per il potere") e come dimostra significativamente, tra l'altro, l'esistenza palese di differenziazioni al recente Congresso dei PCUS dietro le quali non pochi osservatori hanno intravisto ben definite "frazioni" contrapposte (da quella dei tecnocrati e dei dirigenti d'azienda che premono per una maggior autonomia aziendale ed un più aperto processo di mercantilizzazione dell'economia ai burocrati di partito maggiormente preoccupati dei controllo sociale, anche a danno di una "troppo spinta" innovazione sino alle mai sopite istanze "regionali" - nazionali).

Qualche suggerimento di lettura

Sarà essenziale leggere la relazione completa di Gorbacev al XXVII Congresso del PCUS nel n. 57 della "Pravda", 26/2/'86, integralmente tradotta in apposito supplemento allegato al n. 11 (15/3/'86) dell'"Europeo".

Alcuni importanti articoli di documentazione sono apparsi sull'"Unità" (vedi in particolare i due nn. del 25 e 26 ottobre scorsi); lo stesso giornale ha dedicato un fascicolo speciale "Da Krusciov a Gorbaciov" (23/2/'86).

Sulla classe operaia sovietica si veda intanto l'articolo di B. Kravicenko La classe operaia nell'Unione Sovietica, in "Bandiera Rossa", n. 13, 13/10/'85 ed il libro di R. di Leo, in "Bandiera Rossa", n. 13, 13/10/'85 ed il libro di R. di Leo, in "Bandiera Rossa", n. 13, 13/10/'85 ed il libro di R. di Leo, Occupazione e salari nell'URSS. 1950-1977, Milano, Etas Libri, 1980.

Sulle lotte operaie in URSS può offrire sommarie informazioni il cit. libro Syndacalisme et libertés en Union soviétique. Una rapida cronologia è disponibile in italiano nell'opuscolo Lotte operaie nei paesi dell'Est, ed. dalla CCI.

La costruzione a piramide dei partito "seleziona" queste spinte diverse e contrapposte, proprie di una società divisa in classi. E, guarda caso, la prima selezione riguarda proprio la rappresentanza operaia. Stando a dati dei '71, raccolti dalla Banca Commerciale Italiana direttamente dalle fonti sovietiche, sui 14,4 milioni di membri dei partito, tra effettivi e candidati (pari al 5,9% della popolazione), il 40% era composto da lavoratori manuali, il 15% da kolchoziani, il 45%, si noti bene!, da dirigenti ed impiegati (a dispetto di un rapporto nella società di 5 a 1 tra lavoratori veri e propri e questi strati).

Ma, salendo per gradi gli scalini dei potere, si arriva ad un Comitato Centrale composto per il 45% da funzionari di partito, un 36% di funzionari dell'amministrazione statale, un 8% dalle alte gerarchie militari ed un misero 6% di operai e impiegati.

Neppure sociologicamente, e neppure alla base della piramide, si può parlare dei PCUS come di un partito operaio: esso è luogo di contrattazione e scontro tra istanze di potere, i detentori delle cui leve effettive appartengono a ben definite classi extra ed antiproletarie.

Dietro la facciata di cartapesta dell'ideologia sempre più chiaramente si fa strada il riconoscimento e l'assunzione diretta della conflittualità presente.

"Sono d'accordo - afferma Bogomolov -, che nella nostra propaganda si sottolinea troppo l'unitarietà della società socialista, senza esaminare la sua struttura interna, che è davvero molto complessa" (buon eufemismo per dire conflittuale).

L'esponente dei "gruppo siberiano" degli economisti di Novosibirsk Tatiana Zaslavskaja non ha remore a dichiarare:

"Ciò che intanto sembra distinguere il nostro tentativo alle porte è la consapevolezza dei carattere intimamente conflittuale di qualsiasi prospettiva di cambiamento. ( ... ) I tentativi frustrati di cambiare tale meccanismo (quello di direzione economica tipo "anni trenta", n.n.) nel corso degli anni, (mostrano) una debolezza di fondo nel fatto di aver ignorato la misura del conflitto che ogni tentativo dei genere produce toccando in modo diverso gli interessi di molti gruppi", a ragion per cui si rende necessaria "una strategia sociale diretta simultaneamente a mobilitare quei gruppi che sono interessati al cambiamento e ad immobilizzare quei gruppi che possono impedirlo". ("La Repubblica", 21/2/86).

0, come scrive l’economista Gavrili Popov in uno studio sul management sovietico:

"Una delle difficoltà incontrate nella attuazione dei vari esperimenti degli anni recenti, a cominciare dal 1965 (la riforma Kosygin, n.) va individuata nell'opinione errata che la introduzione di innovazioni sia una sorta di processo tecnocratico che si esaurisce nello stabilire nuove norme, approvare nuove strutture e sviluppare nuove istruzioni e procedure", mentre si tratta di regolare e mobilitare (od immobilizzare) la conflittualità (e di cosa, se non di classi?).

E’ interessante notare che nel periodo brezneviano si sono manifestate "convergenze" tra settori operai e burocrazia immobilista, di partito e di stato, sulla base di un compromesso sociale. Ma il "blocco" definisce gli spazi della manovra, non il suo significato di classe (si potrebbe parlare, con linguaggio picista, di "politica delle alleanze"; resta il problema: chi si allea a chi? Insomma, chi conduce la danza?)

Come rileva il Brancoli (La Repubblica, cit.), Gorbacev non si rivolge genericamente al proletariato per invitarlo a compiere il proprio dovere, ma ad una "nuova" classe operaia suscettibile di essere mobilitata contro una "vecchia" classe operaia che deve essere immobilizzata e punita.

Si tratta di una "aristocrazia operaia" in grado di tirare la modernizzazione disciplinando il resto della massa e in funzione di alleato "naturale" degli strati manageriali e tecnocratici, veri protagonisti della "svolta".

Ciò urta con gli stessi criteri di reclutazione e formazione dell'apparato dirigente proprio dell'"era Breznev". Quest'ultimo, a partire da alcuni decreti dei '65, aveva privilegiato il soggetto "operaio", soprattutto degli stabilimenti industriali di medio-grande livello. Un'operazione "operaista", naturalmente, molto sui generis, trattandosi di promuovere non "la classe operaia in generale", ma i settori transfughi di essa forniti di una istruzione media superiore, distintisi nel fare un "buon lavoro" di partito e pronti a qualificarsi professionalmente, a svolgere incarichi direttivi in fabbrica e ad assolvere a responsabilità sociali dei propri quartieri.

Eppure, anche questi livelli di "operaizzazione" si sono trasformati in lacci che vanno recisi, dal momento che la scelta brezneviana di guardare "agli operai specializzati come base dei partito (...) ha messo in condizioni di inferiorità gli altri strati sociali, come i contadini (parliamo degli strati kolchoziani accumulatori, n.), gli impiegati e gli intellettuali"; ma, soprattutto, "negli ultimi vent'anni il numero dei tecnici e degli scienziati politicamente attivi è calato proporzionalmente alla crescita degli operai nel partito" e l'impermeabilità (di questa élite "operaia", n.) alle innovazioni in economia e in politica ne fa il maggior ostacolo alle scommesse di cambiamento che Gorbacev impersona". (Così R. Di Leo, a commento di un recente studio di B. Harasymiw, Polítical élite recruitement in The Soviet Union, che accuratamente descrive le "strozzature sociali" che si frappongono al "nuovo corso gorbacioviano)

I metodi di reclutamento dell'élite dirigenziale dell’"era Breznev" - in quanto legati ad una fase di stagnazione degli standard di sviluppo economico, modulati sulla base di una crescita "estensiva, non più legittima dalle condizioni obiettive -, vanno oggi superati e modificati drasticamente. Se, giustamente, non si tratta soltanto di processi tecnocratici, ma di una strategia economica e sociale complessiva, vanno individuati i "soggetti" sociali che questa strategia possono portare avanti.

Non è un caso, allora, che gli indirizzi di Gorbacev alla classe operaia in quanto tale si concentrino su un invito a "far meglio", a lavorare con "maggior coscienza", ad incentivare l’emulazione e la concorrenza al proprio interno. Non è un caso che l'accento venga battuto sulla necessità di una maggior presenza dei partito e dei sindacato in funzione di "educatori" dei recalcitranti. Le pagine della "Pravda" e delle Izvestija" tornano a riempirsi di inni agli "eroi" dei lavoro, ai vecchi stakanovisti e di denunzie dei fannulloni, dei "senza amor di patria" (patria, lavoro e famiglia è la Trinità d'obbligo sulla stampa sovietica!).

Nella "società senza classi" sovietica la ben individuabile classe operaia è collocata al posto che le spetta: alle catene dei lavoro salariato, con la dovuta disciplina (vista la mancanza di autodisciplina), e con la promessa, in cambio, di una limitata "partecipazione degli utili" selezionata a favore dei neo-udarniki a stakanovcy dell'"era dei computer".

Ma di che classe operaia si tratta? Per il suo peso, la sua composizione strutturale, le sue tradizioni può essa (e come) essere messa in riga?

La risposta di qualche "filorusso" è già immaginabile: sarà la stessa classe operaia sovietica ad accollarsi "spontaneamente" il peso della riforma, perché lì la proprietà è di tutti e così i profitti e ad un ciclo di nuovo iper-sviluppo corrisponderà un pari iper-sviluppo del "benessere sociale collettivo".

A dire il vero, è lo stesso piano di Gorbacev "di qui al 2000" a scoraggiare promesse fideistiche in nessun modo mantenibili.

Se per il periodo 1990-2000 ci si lascia un po' andare all'euforia "progettuale" (quella che già fregò Chruscev, facendogli datare il comunismo compiuto a... dieci anni fa), per quello di qui al 1990 i dati si mantengono su un piano di ipotesi maggiormente verificabile. Ed in questo caso vediamo che gli indici della produttività e dei PNL vanno molto più spediti di quello dei reddito pro-capite (e la forbice si allargherà ulteriormente in seguito); con quest'avvertenza aggiuntiva: che, data la lotta al l'appiattimento salariale, la promozione dei quadri alti e dei capi azienda (a danno di quali bocciati?), lo sviluppo crescente di un'imprenditoria privata in libera competizione sul mercato (ed è certo che saprà ben profittarne), dato tutto ciò che cosa resterà nelle tasche della classe operaia dell'incremento di 13-15 punti rispetto all'85?

Ed andiamola allora un momentino a vedere questa classe operaia sovietica prima di considerare nel concreto il modo in cui il regime si propone di farne la "protagonista" del suo programma riformatore: "Ricchezza pubblica, cuccagna privata".