A Genova un anno dopo:

Bilanci e prospettive del movimento "no-global"

Ad un anno esatto dall’assassinio di Stato del compagno Carlo Giuliani e dalla comparsa in Italia in grande stile del movimento no-global (termine questo sicuramente improprio, ma che usiamo per comodità), decine di migliaia di manifestanti hanno nuovamente invaso le strade di Genova in occasione del corteo di sabato 20 luglio. Quelle che seguono sono delle riflessioni che, partendo dalla "3 giorni" di Genova 2002, vogliono contribuire a fare il punto sullo stato del movimento sforzandosi di coglierne tanto i passi in avanti (che vanno incoraggiati e rafforzati), quanto gli elementi di debolezza che vanno collettivamente individuati e superati in avanti.

 

Una prima considerazione

 

La ampiezza della partecipazione alla manifestazione conclusiva (partecipazione andata oltre le più rosee aspettative di chiunque, noi compresi) dimostra che -pur tra alti e bassi- vi è una massa che sente profondamente e istintivamente la necessità di denunciare e battersi contro le "storture" e le crescenti "ingiustizie" che a vari livelli allietano in tutti i campi l’intera umanità lavoratrice ed oppressa. Decine di migliaia di persone che scendono in campo a partire da svariate e spesso disomogenee esigenze e "richieste" immediate, ma che da Seattle (lo scegliamo come momento simbolo) in poi iniziano sempre più ad intuire come tutta una serie di, magari apparentemente lontani tra loro, problemi e malanni dell’umanità, siano invece intimamente legati l’un l’altro e che, proprio in base a questo sentire, iniziano a percepire e praticare la necessità di "mettersi assieme" e di cominciare a "guardare" oltre i patrii confini.

Movimento "no-global"

e mobilitazioni operaie

Anche su questo tema si è dai fatti chiamati ad andare verso un’ulteriore precisazione e definizione dell’azione e della prospettiva politica. Sul piano dell’avvicinamento tra movimento no-global e movimento operaio e sindacale alcuni passi sono stati fatti. Si tratta di consolidarli e di farne di ulteriori. Si tratta di cominciare ad andare oltre l’attuale collateralismo - allo stesso tempo un po’ solidale ed un po’ concorrenziale - per puntare ad una reale "fusione" dei "due" movimenti. Gli attivisti "no-global" sono chiamati a partecipare alla lotta contro Berlusconi non certo per accodarsi all’impostazione che la dirige attualmente (sulla qualcosa ci dilunghiamo in un’altra parte del giornale), ma per portarvi importanti elementi di bilancio. Per contrastarvi lo sbocco politico che si prospetta, e cioè quello di un centro-sinistra che ha avviato le politiche (sugli immigrati e sul lavoro ad esempio) che la destra sta portando avanti. Per farvi vivere con forza la necessità di una lotta che si faccia realmente carico delle esigenze delle nuove generazioni lavoratrici, per dare impulso ad una sua prospettiva internazionale e per evidenziare la necessità di una mobilitazione di massa che arrivi a buttare giù il governo al di fuori di ogni futile gioco parlamentare. E per contribuire così a far maturare quella classe proletaria ridestata al suo compito storico di avanguardia dell’intero universo degli oppressi di cui lo stesso movimento no-global ha bisogno per realizzare i suoi "sogni".

A Genova si è manifestato principalmente contro la dura repressione statale dello scorso anno e per chiedere "giustizia" per Carlo Giuliani; ma se non vi fosse stato quel "sentire" di cui sopra, il corteo non avrebbe potuto avere la dimensione imponente che ha avuto. Altro dato estremamente interessante è stata la presenza preponderante di giovani e giovanissimi, una conferma ulteriore che una nuova generazione si è affacciata e si sta affacciando alla lotta. Allo stesso tempo la cospicua presenza di tanti lavoratori sotto le bandiere Fiom, Cgil e Cobas è sintomatica di come, anche se per ora a piccoli passi, stiano aumentando i punti di contatto tra il movimento dei lavoratori e quello no-global. Anche tra i 300 mila dello scorso anno vi erano tanti operai e lavoratori, ma la presenza quest’anno più strutturata ed organizzata della Fiom (mentre sottolineiamo questo dato, invitiamo però a non esagerare) rappresenta in un certo qual senso una novità. Una "novità" che da un lato ci dice che la tenuta del movimento no-global è frutto anche delle recenti lotte sindacali contro i provvedimenti del governo Berlusconi, e dall’altro lato che il movimento dei lavoratori -anche per difendere coerentemente i suoi più elementari diritti- inizia a "sentire" la necessità di affrontare le tematiche a cui la globalizzazione capitalistica lo chiama.

 

La lotta

contro la repressione

 

A Genova si era in tanti a chiedere "giustizia per Carlo" e contro la violenza poliziesca che lo scorso anno aveva fatto assaggiare le sue carezze in piazza, alla Diaz e a Bolzaneto. In tanti si è iniziato a capire che questa battaglia non la si può delegare ai giudici (gli stessi giudici che da più di mezzo secolo non muovono un dito di fronte alla quotidiana strage di operai che il capitale compie nelle fabbriche e nei cantieri) o alle commissioni parlamentari, ma va affrontata in prima persona con la mobilitazione. Allo stesso tempo, però, è ancora troppo diffusa l’idea che la repressione scatenata nel corso del G8 del 2001 sia stata un qualcosa di eccezionale, un gravissimo "episodio" ma pur sempre un "episodio" legato a fattori contingenti difficilmente riproponibili, quali un dato governo, un dato ministro degli interni, una data presenza di Fini nonsodove, e così via. Troppo è ancora diffusa la fiducia (anche se un po’ più condizionata di qualche tempo fa) nel ruolo che la magistratura e le istituzioni parlamentari potrebbero e dovrebbero avere contro gli "abusi repressivi". Come ancora troppo diffusa è l’idea che "se non ci fossero stati i black bloc...", se non si fosse andati oltre i limiti posti dalle istituzioni, tutto sarebbe filato liscio.

In realtà a Genova si è manifestato in maniera "improvvisa e clamorosa" quello che è un dato sempre più strutturale ed essenziale della società capitalistica ben al di là dell’Italia: il rafforzamento costante degli apparati "d’ordine" dello Stato e la crescente militarizzazione della società, il che significa la crescente limitazione istituzionale degli "spazi" e delle forme del conflitto di classe. Una limitazione che prima che a Genova era già emersa, nel cuore dell’Occidente democratico (secondo le regole della democrazia, non in opposizione ad esse), a Seattle, a Goteborg, a Napoli, a Praga, e la lista è lunga, sotto governi che non annoverano nelle proprie fila né i Berlusconi, né gli Scaiola, né i Fini o i Bossi, e tuttavia operano lungo le medesime linee d’azione. Mentre fuori dal ristretto perimetro dell’Occidente, in Palestina, in Argentina, in Corea, in Indonesia è sotto i nostri occhi, a condizione che ci degniamo di vederlo, ciò che da sempre ed in forme ben più crude questo sistema (ed i suoi padroni che alloggiano a New York, Washington, Londra, Roma, ecc.) riserva ai popoli del Sud del mondo.

Nessunissima anomalia ed eccezionalità italiana o genovese, quindi. Prenderne atto è necessario. Per essere efficace la lotta contro la repressione deve infatti liberarsi da ogni illusione circa il ruolo dei vari apparati dello Stato-democratico-nato-dalla-Resistenza e contare solo ed esclusivamente sulla forza e mobilitazione di massa e di piazza. Una mobilitazione che deve saper assumere su di sé anche questo compito in una ottica internazionale ed internazionalista perché sempre più internazionalizzato e consapevolmente coordinato è il meccanismo che è incaricato di bastonare, anche preventivamente, le lotte.

Anche su questo piano c’è parecchio cammino da fare. Basti un solo esempio. Uno dei temi-chiave dello scontro di classe che è passato in sordina a Genova è stato quello dell’Argentina, sicché non si è visto e non si è detto che chi ha armato la mano degli assassini di Carlo Giuliani, è lo stesso che arma la mano degli assassini dei piqueteros argentini. La macchina della repressione capitalistica è unitaria, ma la lotta contro di essa è ancora lontana dall’essere altrettanto unitaria. A provarlo basterebbe proprio l’assenza di risposta da parte del movimento (emblematica la manifestazione di Roma con trenta, dicasi trenta!, partecipanti) alla bestiale repressione che il 26 giugno si è abbattuta sui proletari in lotta in Argentina. E da queste assenze, da questi ritardi, da queste sordità la nostra stessa battaglia anti-repressione qui ne esce indebolita, non rafforzata.

Per quanto riguarda poi i black-bloc e tutto ciò che va oltre i limiti istituzionalmente definiti della libertà di manifestare, noi ribadiamo che non si può trattare questi fenomeni alla stregua di teppisti e provocatori, criminalizzandoli come il fattore causale primo della repressione statale; e che la spinta vitale che viene da certe aree giovanili (e non solo) a rompere i ceppi di una legalità sempre più oppressiva e carceraria è un problema che va assunto da tutto il movimento di classe, e non esorcizzata e respinta.

 

La lotta contro la guerra

 

Le guerre sono l’inevitabile frutto della globalizzazione capitalista. Senza lottare con estrema determinazione contro di esse non è possibile alcuna reale battaglia contro la fame, la miseria e contro le mille ingiustizie sociali che allietano il pianeta. Su questo versante -lo diciamo fraternamente, ma con estrema chiarezza- è indispensabile operare una netta cesura con i tanti (troppi!) "tentennamenti" avuti sino ad ora. Giustamente questo movimento è contro le guerre che il Nord ricco porta contro il Sud povero. In alcune sue componenti (minoritarie) tali guerre si chiamano col loro nome: "aggressioni imperialiste". Viene denunciata la guerra permanente e globale dichiarata da Bush e soci.

Tutto bene… ma chiediamoci: non si è stati forse maledettamente tiepidi nell’esprimere appoggio e solidarietà nei confronti dei popoli e delle masse che nel Sud del mondo si battono contro la continua aggressione occidentale con i mezzi che hanno a disposizione? e non è forse vero che la propaganda anti-islamica è spesso penetrata tra le stesse fila del movimento? Pensiamo all’Afghanistan e a tutti i "se" e "ma", a volte espliciti, a volte impliciti, a cui si è fatto ricorso per non schierarsi attivamente con la resistenza del popolo afghano. Pensiamo alla lotta del popolo palestinese, ai militanti di Hamas e al vergognoso epiteto ("kamikaze nazisti") mutuato direttamente dalla propaganda razzista borghese, che dai dirigenti di alcune componenti del movimento viene ad essi rivolto con astio e livore. (A tal proposito sia consentita una parentesi. Nel famoso film di Pontecorvo, un regista caro alla sinistra ed allo stesso movimento, "La battaglia di Algeri", film ambientato durante la guerra di liberazione algerina contro il colonialismo francese, c’è la seguente istruttiva scena. I paracadutisti francesi hanno catturato il capo del Fln algerino (lo impiccheranno poco dopo) e lo fanno intervistare dai giornalisti parigini. Uno di essi chiede indignato perché l’Fln metta le bombe nei cestini dell’immondizia uccidendo così a volte dei civili francesi. Il capo dell’Fln risponde: "Dateci i vostri aerei da bombardamento, le vostre armi ed i vostri carri armati e noi non metteremo più bombe nei cestini". Parentesi chiusa.)

Non vogliamo qui esporre il punto di vista dell’Oci sui movimenti islamici (per questo rimandiamo a quanto scritto su tanti numeri del che fare), ma evidenziare come la timidezza (ma a volte purtroppo si tratta di ben altro, di indifferenza, di diffidenza, perfino di vera e propria paura) espressa nel sostenere le lotte delle masse del Sud del mondo e il rifiuto di appoggiarle incondizionatamente, non giovi certo alla giusta e necessaria battaglia contro la guerra permanente dei signori della finanza e dei mercati. E’ un caso che della necessità di ricominciare o iniziare a battersi per il ritiro delle truppe occidentali d’occupazione - che dall’Afghanistan ai Balcani scorazzano per tutto il mondo - a Genova non si sia parlato? E’ un caso che non si sia detta una parola sulla Palestina? E’ un caso che il vertice di guerra dei banditi della NATO a Pratica di mare sia passato pressoché inosservato al movimento, senza nessuna vera intenzione di manifestare contro di esso? Noi pensiamo di no. E pensiamo che tutto ciò indebolisca, non rafforzi il movimento, e lo esponga con il tempo, se questa direzione di marcia non sarà opportunamente corretta ed invertita, al rischio di una vera e propria degenerazione almeno di una parte di esso.

Ed inoltre, come si può pensare di portare coerentemente e sino in fondo la battaglia al fianco dei lavoratori immigrati se non si rifiuta in ogni suo aspetto la campagna anti-islamica, se non ci si batte affinché i lavoratori ed i giovani italiani ed occidentali si schierino senza condizione alcuna a fianco della lotta dei popoli che non chinano la testa dinanzi all’imperialismo (popoli di cui i lavoratori immigrati costituiscono un avamposto qui in "casa nostra")?

Intanto, mentre andiamo in stampa, fervono i preparativi di una nuova ed ennesima criminale aggressione contro l’Iraq. Il movimento tutto, noi

Ai giovani

che compaiono e "scompaiono"

 

Le riunioni e le assemblee preparatorie o di bilancio delle scadenze, incluse quelle che hanno preceduto Genova 2002, sono troppo spesso di fatto presenziate dai soli "esperti addetti ai lavori". Sappiamo che la latitanza di molti, soprattutto dei giovani, è dovuta ad una ripulsa e a una sorta di noia verso un certo modo di "fare politica" che non a torto è visto spesso come leaderistico e per "iniziati". Sappiamo che spesso infastidisce lo scialbo spettacolo dei vari "portavoce" impegnati a sgomitare tra di essi per conquistarsi uno spazio sui mass media. Ma sappiamo pure che l’unico modo per rompere realmente con tutto ciò, è quello di farsi carico in prima persona di una discussione continua e collettiva sul bilancio e sulle prospettive della lotta. Un autentico protagonismo di massa (è di questo che si ha necessità) non si può esaurire nella partecipazione a determinate scadenze di piazza, ma deve vedere la massa stessa, o quanto meno una sua cospicua avanguardia, dare continuità alla propria militanza ed affrontare direttamente tutti i problemi (politici, teorici ed organizzativi) che lo scontro in atto propone.

E’ questo un ineludibile passaggio a cui sono chiamati quanti (soprattutto la nuova generazione affacciatasi alla lotta, ma non solo essa) vogliono adoperarsi per rafforzare il movimento e fargli superare gli attuali limiti. Questo superamento richiede l’impegno ad andare al di là dello stato immediato delle cose, lo sforzo di analisi e di comprensione scientifica (la scienza della rivoluzione, s’intende, non quella delle università) delle cause dei processi sociali e politici in corso, delle forze in campo, svolto al solo livello adeguato, quello internazionale.

Così pure il "nuovo mondo possibile" potrà uscire dalle attuali nebbie di un vago (e sempre truffaldino) riformismo, solo attraverso un programma autenticamente anti-capitalista e anti-imperialista, un programma comunista, una strategia di battaglia contro un establishment mondiale che non manca certo di una sua (o di sue) strategie, una tattica di azione volta al continuo allargamento del fronte di lotta e a cementare di continuo l’unità tra le necessariamente diverse componenti di questo fronte. E per fare tutto ciò necessita, compagni, un’organizzazione comunista di partito capace di esaltare la auto-organizzazione della massa, a misura che sia capace sempre di rappresentare in essa il futuro del movimento ed il suo interesse più generale.

È a questo complicato, e oggi spesso sbeffeggiato, lavoro di e per il partito che l’OCI dedica tutte le sue energie. È a questo indispensabile lavoro che chiamiamo le nuove e più fresche forze in campo anche a prescindere dalla loro più o meno accentuata attuale lontananza dalle nostre posizioni complessive. Il sacrosanto rifiuto del politicantismo neo-istituzionale ed individualistico non trascini con sé anche il rifiuto della politica rivoluzionaria.

tutti siamo chiamati con urgenza ad assumere una coerente posizione di lotta. A rigettare ogni nefasta illusione sulla possibilità di un’Europa "diversa" comprendendo, invece, che ogni eventuale attrito del "vecchio continente" o di parti di esso con gli USA nasconde solo ed esclusivamente un conflitto tra briganti per la spartizione del bottino. A superare ogni idea di poter essere contro la guerra "tirandocene fuori" e "disertando". A farla finita una volta per tutte con ogni più o meno esplicita "equidistanza" e con ogni "ma Milosevic, ma Mugabe, ma Saddam, ma….", e invece a vedere che le masse irakene, mediorientali e di tutto il Sud del mondo stanno da decenni dando uno splendido esempio di lotta e di resistenza proprio alla globalizzazione capitalista. Non basta essere contro la guerra. Bisogna schierarsi con queste masse, con questi popoli. Bisogna far vedere ad essi che qui, nel cuore dell’Occidente assassino, c’è un movimento di massa che li appoggia incondizionatamente, che recepisce e fa sue le loro sacrosante istanze di ribellione, aiutandoli tra l’altro proprio per tal via a superare in avanti le loro (incoerenti ed in fin dei conti impotenti innanzi all’imperialismo) attuali direzioni.

 

 

L’assenza della componente cattolica

 

La recente iniziativa genovese ha visto praticamente assente quella massa cattolica giovanile che aveva contribuito alla riuscita delle mobilitazioni contro il G8 e che si era riaffacciata numerosa alla Perugia-Assisi del 2001 subendo gli strali ed i rimproveri tanto dei Berlusconi quanto dei D’Alema per non essersi integralmente e completamente allineata alla propaganda bellicista, razzista ed anti-islamica occidentale. Sarebbe riduttivo spiegare tale assenza esclusivamente con la presa di distanze operata dalla rete Lilliput o da altri esponenti di spicco di questa area. Come sarebbe sbagliato se la faccenda venisse liquidata con un "se non c’erano, sono fatti loro". No, sono fatti anche "nostri".

Questa area cattolica è popolata infatti da tanti lavoratori, da tanti giovani, da tante "brave persone" che sentono realmente e profondamente una ripulsa per le stridenti contraddizioni sociali che attanagliano il mondo e cercano a tentoni uno sbocco che dia coerenza alla loro sacrosanta sete di "giustizia sociale". L’istituzione-Chiesa, sulla base della sua consolidata connivenza con l’ordine capitalistico costituito e della sua storica ripulsa del rovesciamento rivoluzionario di questo stesso ordine, agisce in modo soggettivo e cosciente per bloccare allo stadio embrionale il processo di confluenza di queste energie nel movimento. Ed in questa medesima direzione opera il riflesso condizionato di un "solidarismo" cristiano che compiange i "poveri", ma non ha alcuna fiducia nella capacità e volontà degli sfruttati di battersi contro la macchina dello sfruttamento capitalistico-imperialistico, mentre viceversa alimenta più di qualche illusione sulla possibilità di conversione "umanitaria" dei poteri costituiti. Anche uno Zanotelli, tanto per dire, pur capace di vibranti denunzie delle condizioni in cui è tenuto il "Sud" del mondo dalla violenza sistematica del mercato globale, finisce per impantanarsi e per certi versi per auto-annullare la forza delle sue stesse denunzie quando nega alle popolazioni del Sud del mondo il diritto, diciamo noi: la necessità e il dovere, di combattere fino in fondo e con tutti i mezzi, quelli della forza e della violenza organizzata inclusi, la dominazione imperialista.

Emblematico il flop della mobilitazione di giugno in occasione del vertice Fao a Roma, che all’indomani delle giornate di Genova era visto da gran parte del movimento non solo come un’occasione per tornare in piazza con rinnovata forza, ma anche (ed a ragione) come una straordinaria opportunità per lanciare un ponte verso le lotte delle masse contadine e sfruttate di tutto il Sud del pianeta. Pur tra tante pericolose illusioni su una presunta "diversità" della Fao si puntava ad essere in tantissimi a Roma per dimostrare alle masse rurali ed oppresse dell’Asia, dell’America Latina e dell’Africa che qui in Occidente c’è un movimento di lotta che sta al loro fianco nella loro eroica e crescente battaglia per la terra, per il cibo e contro la rapina e la devastazione ambientale ed umana perpetrata dalle nostrane multinazionali agro-alimentari e dai nostrani governi. E’ bastato il rinvio del vertice a primavera e di tutto ciò all’interno del movimento (di quello stesso movimento – si badi bene - che appena un mese dopo avrebbe dimostrato la sua vitalità invadendo nuovamente le strade di Genova) si è spenta ogni eco. Se alla manifestazione dell’8 giugno invece che le preannunciate centinaia di migliaia di persone ve ne erano poco più di cinquemila e se i contenuti della mobilitazione sono stati davvero miserelli (salvo pochissime e lodevoli eccezioni non si è sentita una parola chiara e netta contro la Fao e contro l’Onu) ciò è dovuto innanzi tutto al fatto che nei mesi precedenti le tematiche (troppo estremiste???) relative alle lotte del Sud del mondo sono state di fatto messe sempre più in disparte e sempre più "dimenticate".

Ciò è l’ennesima e clamorosa dimostrazione di come, sempre, mettere la sordina a temi radicali porti a restringere anziché ad allargare il fronte di lotta. Temi che al contrario andrebbero svolti fino in fondo con una logica di classe, con la logica marxista, perché solo una chiara evidenziazione delle loro radici e degli sbocchi che essi attendono e pretendono può liberare singoli o gruppi di cristiani dalle superstizioni conservatrici che li attanagliano (a cominciare da quella sulla non-violenza assoluta).

Tutto ciò non è un "di più", ma una stringente necessità per lo stesso movimento no-global la cui tenuta ed il cui rafforzamento dipendono direttamente dalla capacità di non restare circoscritto (ed alla lunga asfissiato) alla metropoli, ma di sapersi intrecciare sempre più strettamente con le lotte che dalla sterminata periferia del pianeta le masse oppresse combattono contro l’imperialismo. Al nostro posto compagni!