Un altro mondo (senza guerre)

è possibile. Senza capitalismo


"Un altro mondo è possibile"?

Anzitutto cominciamo a vedere che mondo è questo da cui vogliamo "evadere", come e perché i suoi meccanismi funzionino in questo e non in un altro modo.

Sappiamo quali interessi concreti ed assai sordidi spingano alla guerra; e sappiamo quali sono, o dovrebbero essere, i contrari interessi sociali, umani, da difendere e affermare in contrapposizione ad essi: pace, solidarietà, socialità. Questa l’alternativa agognata, questo il senso comune del movimento vivo. Un altro mondo (senza guerre) è possibile. Senza i Bush o i Berlusconi. E, per noi pure, anche senza i Saddam, se è questo che vi preoccupa, a misura che proprio noi comunisti non diamo ai Saddam il diritto di presentarsi quale guida (dittatoriale in quanto borghese) del proprio popolo in nome di una resistenza, vera e legittima, contro la manomissione neo-coloniale dell’Occidente.

Benissimo. Noi non abbiamo nulla da contrapporre a tutto ciò in via "ideologica", ma crediamo di avere talune risposte da poter dare a delle giuste esigenze e ad una salutare attivizzazione dal basso, visto e considerato che la virtù prima di un movimento è quella di allargarsi via via gli orizzonti, di porsi sempre nuove domande e tentare di darsi nuove ed adeguate strutture per nuovi e ben definiti programmi. Nessun vero militante del movimento si indignerà se noi gli mostriamo i passi falsi del movimento in passato, allorché guerre sporche non meno della presente, e propedeutiche a questa, venivano avversate con molti se e molti ma, sino ai limiti (e in certi casi oltre) della partecipazione alle operazioni di "pulizia democratica" con l’imprimatur dell’Onu e la controfirma delle "sinistre" governative. Non s’indignerà di questa verità che gli mettiamo davanti (non per "rivangare" un passato trascorso, ma per riflettere sull’oggi e il domani) perché egli stesso se n’è reso conto e l’ha fatta sua nel corso delle esperienze di maturazione del movimento.

Allo stesso modo, l’invitiamo a riflettere più a fondo su due domande essenziali che i suoi stessi bisogni di militanza gli pongono. Primo: cos’è veramente questa barbarie di guerra che ci assale, e qual è quel "sogno di una cosa" alternativa (l’altro "mondo possibile") a cui possiamo concretamente tendere? Secondo: come lottare per rendere vincente sul serio la nostra prospettiva? L’analisi teorica e il che fare, due facce dello stesso problema.

Non si può combattere contro l’attuale, tutt’altro che contingente e localizzata, deriva di barbarie, bellica e "pacifica" (non meno indegna e sanguinosa), se non le si dà un nome e un cognome. Bush? Ma questa è solo un’etichetta del prodotto. Il prodotto è il sistema imperialista del capitale con le sue leggi determinate, che i vari capi di stato si limitano ad applicare a seconda dei propri appetiti e coefficienti di forza chiamati a saziarli. "Un altro mondo è possibile"? Anzitutto cominciamo a vedere che mondo è questo da cui vogliamo "evadere", come e perché i suoi meccanismi funzionino in questo e non in un altro modo. Ci sono fior di maestri nell’arte della denunzia degli orrori che incombono su di noi, ma, spesso, il loro è solo un elenco incoerente di fatti privi di spiegazione o "spiegati" con trabocchetti (come il buon Ramonet su Le Monde Diplomatique) del tipo "liberismo selvaggio", quasi che il liberismo del capitalismo nella sua fase imperialista potesse essere temperato e "civile".

"Un altro mondo è possibile", si gridava a Porto Alegre due. Vero, e bellissimo. In molti hanno ben completato la frase dandole un’assai maggiore concretezza: "Un altro mondo è possibile senza il capitalismo". Non era un’aggiunta lessicale, ma il risultato di un passo in più compiuto da fette del movimento e la premessa di quelli a venire. Questo dicevano forte soprattutto quegli operai e quei contadini che, nella loro lotta quotidiana, non si erano scontrati con "persone ed opinioni diverse", ma con interessi antagonisti "anonimi", al di là dei vari target, del capitale; interessi armati, e tutt’altro che a parole. Dentro e fuori i singoli confini nazionali, e in uno stretto intreccio tra loro. E in questo stava la sfida lanciata a chi, dentro il palazzo (perché anche un certo "no global" ha i suoi palazzi!), cercava di rassicurarli: non vi è affatto bisogno di "uscire" dal capitalismo perché un altro mondo è possibile se si muovono le diplomazie, se si aprono i giusti "canali di comunicazione", se si mette in atto una partecipazione "democratica", "dal basso", alle briciole del banchetto delle classi proprietarie e dei paesi ricchi (salvo poi che per l’immensa maggioranza dell’umanità di queste briciole non c’è neppure l’ombra).

Un nuovo mondo senza sfruttamento e senza guerre ci sarà davvero solo se noi ci battiamo, se prendiamo coscienza della reale sfida in campo, e se ci organizziamo conseguentemente. E noi significa noi tutti, sfruttati delle periferie e delle metropoli uniti, perché è inutile chiedersi per chi suona la campana; essa suona per tutti noi. E solidarietà, dunque, ma solidarietà vera, di battaglia, e non "carità" che una parte offre e l’altra, quella composta di "pezzenti", si limita a ricevere. La guerra? Essa è dovunque, anche se con armi ed effetti (al momento) diversi. È guerra contro l’Iraq, contro l’Afghanistan, contro l’Africa (c’è chi se ne dimentica, ma ormai l’intero continente nero è insanguinato da guerre gabellate per essere "etniche", dietro cui ci sono sempre le solite mani rapaci dell’Europa e degli Stati Uniti), contro la Jugoslavia e poi via via contro altri paesi "canaglia", visto che dappertutto dove ci sono delle masse da sfruttare che resistono indomite, c’è della canaglia da mettere in catene. È guerra anche in America Latina, magari, per ora, senza portaerei, bensì "solo" attraverso le forze di sfondamento del Fmi (dietro cui, statene ben certi, stanno anche le truppe armate vere e proprie dell’imperialismo, surrogate per il momento dalle bande assassine dei padroni locali e però sempre più spesso, come in Colombia, inquadrate dai "nostri" consiglieri militari). Ed è guerra nelle stesse metropoli, anche negli stessi Stati Uniti dal volto affluente, dove un sempre più ristretto angolo della società aggredisce in permanenza una massa di salariati sempre più sfruttata e vilipesa nei suoi più elementari "diritti". E la radice unitaria, che va riconosciuta e recisa, di questo processo (diseguale) di guerra generalizzata agli sfruttati, ai lavoratori di tutte le razze ed i colori altro non è che il capitalismo, il sistema capitalistico, il solo "mondo", il solo sistema economico-sociale, che sia oggi reale.

Questo passaggio dal rifiuto di questa guerra al rifiuto ed alla lotta contro l’intero meccanismo che la produce stenta a compiersi soprattutto nelle metropoli, e chiunque può comprenderne le ragioni. Ad esso, nondimeno, il movimento è chiamato, pena una sconfitta generale, qua e là. Perché, se è vero com’è vero, che nella parte del mondo che più soffre, più dura e decisa è la battaglia, questa battaglia globale non può essere vincente al di fuori della necessaria solidarietà internazionale. Lenin parlava di "pulcini spaiati di una stessa chioccia", e l’immagine ben rende il senso della lotta ed i compiti ad essa relativi.

Lucio Magri, nella Rivista del Manifesto di febbraio, scrive: "Affermare oggi [come in passato, n.] che in una crisi di sistema ogni azione riformatrice è illusoria e deviante -rivoluzione o barbarie- è sbagliato. L’emergere di forze o idee riformiste autentiche non sarebbe un equivoco da "smascherare", ma una contraddizione reale su cui lavorare. Ma è altrettanto importante collocare tutto ciò in una prospettiva, in un progetto più radicale e altrettanto razionale di trasformazione complessiva della società, e costruire forze che siano capaci di farlo o semplicemente si sforzino di farlo".

C’è una parte (una parte!) di vero in queste affermazioni. La crisi del sistema, -poiché di questo si tratta, non di una "semplice" guerra devastante da prendere a sé come venisse fuori da chissà dove-, muove forze antagoniste. Ed è giusto affermare, in relazione al movimento delle forze sociali in campo, che il riformismo rappresenta non un qualcosa da "smascherare", ma una contraddizione da "portare avanti" per scioglierla per il verso giusto. "Non importa per che cosa le masse si immaginano di lottare; l’importante è che lottino": parafrasiamo una "vecchia" indicazione di Marx, perché da ciò discende la possibilità di superare l’equivoco di partenza (che tale rimane). Si impara a vedere cosa c’è dietro il muro imparando a cozzarci contro e ad abbatterlo. E allora, sì, quale che sia il parere dei "riformatori" a riguardo, si arriverà a vedere che è "o rivoluzione o barbarie". Non una prospettiva "più radicale" (per un mondo migliore, ovvero per questo mondo migliorato, ciò che ci riconsegnerebbe i problemi drammatici di oggi irrisolti), ma una prospettiva collocata su un piano antagonista (un altro mondo, sul serio).

Da dove sbuca questa prospettiva? Dalle condizioni oggettive dello scontro, questo è certo, ma anche, se permettete, dall’azione soggettiva di chi è in grado di farlo. E noi, senza scioccamente gonfiarci delle piume del pavone, ma anche senza esitazione alcuna, lo diciamo apertamente: questo compito spetta ai comunisti. Ai comunisti che stanno nel movimento non per "accompagnarlo" ai margini e seguirne via via passivamente i passi, ma per capitalizzare in esso e per esso le lezioni di una pluricentenaria esperienza di lotte. Un’esperienza da cui si sono tratte tutte le lezioni teoriche, e perciò pratiche, di cui i movimenti attuali devono reimpossessarsi, se non vogliono essere battuti e dispersi, ad onta dell’ampiezza, anche enorme, da essi conseguita.

Ci sono o no, per ritornare qui in Italia, una serie di debolezze, di immaturità, di contraddizioni anche interne al movimento? Crediamo che sarebbe stupido far finta di non vederle né ci aiuterebbe molto la falsa attesa che esse si sciolgano da sé in corso d’opera. Peggio ancora sarebbe da parte nostra astenerci dal dichiararle per timore di staccarci dal movimento stesso.

In Italia abbiamo assistito, dopo varie prove del movimento "no global", alla scesa in campo della classe operaia. Dopo, ma non indipendentemente e neppure come risultato di una lotta "altrui", se è vero che alla nascita del movimento qui non era stata estranea una prima ripresa della conflittualità operaia già nei mesi precedenti Genova 2001. Diciamo dunque, una volta di più: movimento "no global" e classe operaia sono oggi in campo per le stesse ragioni, che tendono ad unificarsi, che debbono unificarsi in un’unica e risolutrice prospettiva. Già il semplice contatto tra questi due pulcini ha dato la misura della forza potenziale che si potrà gettare sul terreno di lotta. Ma è altrettanto vero che il "cofferatismo" a cui si attribuisce, e non del tutto a torto, di aver persino dato "impulso" alla lotta operaia (a sua volta impulsato dal crescente scontento operaio per l’infinita serie di cedimenti da esso stesso operati…), l’ha rapidamente ed organicamente portata a svuotarsi dei suoi potenziali contenuti antagonistici. E sta operando per rinserrarla nella miseranda cornice di un "nuovo Ulivo" di cui dovrebbe costituire lo sgabello elettorale, e per tentare di inglobare in essa lo stesso movimento "no global" con cui… costruire le liste per le prossime "battaglie" schedaiole. Non sono stati in pochi a cadere nel tranello, scambiando per influenza sulla sinistra istituzionale il suo esatto contrario, e per un allargamento del fronte di lotta il tentativo di annacquare quello che di positivo era già stato messo in campo.

Un nuovo mondo senza sfruttamento e senza guerre ci sarà davvero solo se noi ci battiamo, se prendiamo coscienza della reale sfida in campo, e se ci organizziamo conseguentemente.

E noi significa noi tutti, sfruttati delle periferie e delle metropoli uniti, perché è inutile chiedersi per chi suona la campana; essa suona per tutti noi. E solidarietà, dunque, ma solidarietà vera, di battaglia, e non "carità" che una parte offre e l’altra, quella composta di "pezzenti", si limita a ricevere.

Meglio, allora, se si fosse stati a casa? Al contrario! Quello che noi chiediamo agli operai ed ai "no global" è precisamente di non tornare a casa, di non disperdere la propria forza per un’operazione che -una volta tanto Bertinotti ha ragione!- divide e deprime il movimento nel suo insieme deviandolo dal tragitto su cui avrebbe potuto e potrebbe accrescere le sue forze e la sua radicalità. Lo possiamo, lo dobbiamo dire, o dicendolo incorriamo nel delitto di lesa maestà? Lo dice, a metà, ma con buoni argomenti, anche Giorgio Cremaschi: "Una sincera volontà di lotta e di mobilitazione teme prima di tutto di essere costretta a schierarsi", ma "indietro non si torna", "la guerra e l’inasprimento del conflitto sociale pongono scelte che non si possono evitare". Giusto. Non si può evitare di schierarsi: o per lo sviluppo della lotta in un senso coerente, per l’appunto, e dunque nel senso dell’antagonismo di classe; o per il convogliamento dei movimenti nelle sabbie mobili delle trame istituzionali (cosa sempre possibile).

Non chiediamo la luna, ossia la scelta immediata della rivoluzione socialista oggi, anche se non avrebbe senso alcuno sottacere che questo è, per noi, il solo sbocco ultimo risolutore delle crisi, delle guerre, dei mali sociali che ci affliggono. Semplicemente, chiediamo a questo movimento, a questa classe operaia, quello che un capo dei Sem Terra ha brillantemente esposto in un numero precedente della Rivista del Manifesto: siamo stati anche pronti a votare Lula, ma con le armi in pugno, puntate contro i "comuni" nemici (metti qui Berlusconi), e però anche per tenere sotto controllo i "nostri" rappresentanti istituzionali, per condizionarli ai nostri bisogni, alle nostre battaglie; ed eventualmente, qualora essi si dovessero mostrare imbelli e traditori, per riprendere al di là e contro di essi una nostra battaglia mai dismessa. A questa stregua il movimento ha un senso nostro, cioè può andare nel senso della nostra alternativa al capitalismo (e sempre che noi facciamo la nostra parte specifica, dall’inizio alla fine).