"Contro la guerra del capitale,
sciopero, sciopero generale!
"

Questo, uno degli slogans gridati nel corteo di Firenze (nella foto) dai nostri militanti. Esso ha anche un’altra versione: "Contro la guerra del capitale, sciopero, sciopero internazionale!"

Lo sciopero generale, uno sciopero generale vero è il primo importante traguardo che deve darsi la mobilitazione di massa contro la guerra.

Che fare contro la guerra?

È per questo che possiamo dare per scontato (a 7 giorni dall’"evento") che essa parteciperà in massa alla giornata di mobilitazione europea indetta, con una decisione di grande importanza, dal Social Forum di Firenze e trasformatasi nel frattempo in una più ampia mobilitazione internazionale. Ciò nonostante, il modo in cui si sta arrivando in Italia a questa "scadenza" non ci pare sia adeguato alla bisogna, e cioè al fatto che siamo alla immediata vigilia di una aggressione devastante ad un intero popolo e nel mezzo di un formidabile salto di qualità del militarismo capitalistico ("esterno" ma anche interno) che Bush e soci stanno imponendo all’intero Occidente (e all’intero mondo).

Vorremmo volentieri sbagliarci in tronco, ma non ci sembra di essere, all’oggi, così tanto oltre un sanissimo sentimento di massa contrario alla guerra che per farsi valere contro il nostro agguerrito nemico di classe abbisogna di essere raccolto e trasformato in mobilitazione permanente, e non solo una tantum secondo la logica delle scadenze-evento. Una mobilitazione che sia insieme contro la guerra e contro il razzismo (una lezione "americana", il nesso tra questi due termini, "noi" bianchi e "loro" islamici e colorati, che qui si stenta a recepire). Al di là del già "vinto" referendum popolare anti-guerra, e magari sull’onda di esso, bisogna dare corso ad una vera e propria lotta organizzata contro la infame macchina della guerra per incepparla, bloccarla, mandarla in pezzi. I luoghi ed i momenti della stessa preparazione del 15 febbraio da parte dei Social Forum sono stati assai rari e radi, e perfino le ultime manifestazioni del 18 gennaio, a guerra ormai alle porte, hanno visto un esito contraddittorio: più vivace e combattivo a Napoli, anche per la presenza di un contingente di immigrati dietro il bellissimo striscione "contro le guerre, internazionalizziamo le lotte", molto più fiacco e, incredibile ma vero, quasi festaiolo a Vicenza (nonostante un testo di convocazione del corteo senz’altro valido).

Lo rileviamo non certo per dare un quadro deprimente delle potenzialità del movimento, ma giusto al contrario per spingerlo in avanti, e sollecitare ad esprimersi le spinte all’azione più genuine che in esso "covano". E che noi rinveniamo al momento già percepibili nell’area dei gruppi cattolici, nella gioventù che fa in qualche modo riferimento ai centri sociali (o almeno a dati centri sociali) e in piccoli settori di lavoratori per i quali la prospettiva dello sciopero generale contro la guerra non è una formula vuota.

L’Italia fuori dalla guerra?

"Il governo Berlusconi ha detto sì alla richiesta di George Bush. Nel caso, molto probabile di una guerra in Iraq, le forze armate italiane saranno al fianco degli americani. Non si tratterà soltanto di un contributo simbolico.

Il piano, rivelato all’Unità da una fonte del comando centrale di Tampa, prevede l’intervento di reparti di sminamento e di una squadra navale nel Golfo in appoggio alla flotta americana" (l’Unità, 1 dicembre 2002). E poi anche soldati italiani in Iraq a supporto di quelli statunitensi, come preannunciato da Fini. Oltre naturalmente all’uso delle basi americane in Italia, i 1.000 alpini in Afghanistan, le unità "anti-terrorismo", etc.

E c’è ancora qualcuno, che non si è accorto ancora che l’Italia è pienamente parte -a suo modo- di questa guerra, di questa infame aggressione all’Iraq! L’Italia fuori dalla guerra? Sì, solo se ce la porteremo noi con una vera lotta contro la guerra.

C’è, per cominciare, una massa di cattolici che sinceramente si interroga, ragionando, rigrazie a dio, sul cosa posso fare io, possiamo fare noi, senza passare per l’Ulivo, Cofferati, l’Europa. Io, noi, in prima persona. Ne prendiamo atto, così come prendiamo atto che le proposte che tra essi vengono veicolate non potranno avere vita lunga. "Quale impegno concreto?". Si risponde su Famiglia Cristiana (del 2 febbraio): "Il primo è di carattere personale, adottando modi di pensare ed atteggiamenti pacifici là dove si vive, perché è così che si crea una mentalità diffusa. L’altra risposta è quella di agire politicamente, a livello di opinione pubblica, per diffondere la consapevolezza che qualsiasi guerra porta solo sofferenze… far sentire la propria voce per indicare lo strumento della comprensione e conoscenza reciproca come unica strada". Ci piace, di questo passaggio, il richiamo all’impegno personale e quello alla mobilitazione dell’"opinione pubblica" da autoresponsabilizzare in luogo della abituale ricerca di sponde inaffidabili nelle istituzioni. Ma è certo che alle sofferenze della guerra annunciata che si fa beffe di un’opinione pubblica disarmata, quest’ultima non potrà accontentarsi di sé stessa, dovrà darsi strumenti adeguati per fermare quelle che non sono "altre" opinioni, ma un coacervo di interessi, di forze e di bombe. Non si tratterà, allora, di salvare la "propria" anima innocente, ma di salvare delle anime concrete, di gente in carne ed ossa, con azioni concrete.

È tutto il movimento ad essere chiamato a questo traguardo, e già a centinaia di migliaia i giovani non incapsulati nelle pastoie del politicantume s’interrogano sul che fare. Con difficoltà, è vero, ma spesso non dalle posizioni di retroguardia di certa "avanguardia" che suppone di essere concreta ed esperta. Noi li conosciamo, e con essi tentiamo un dialogo possibile. E pazienza se su questa strada ci pregiudicheremo il contatto per fare la stessa strada con quelli che contano, con le "avanguardie" di cui sopra che promettono, magari, fuoco e fiamme che non verranno. Il movimento vive, va avanti, si decanta e cresce ad un tempo. Realismo è vederlo in questa sua prospettiva, avere vera fiducia in esso.

Prendiamo ad esempio quei giovani "antifascisti" e "anti-istituzionali" che si interrogano con serietà intorno alla "guerra globale" del capitalismo. E che si chiedono "come costruire pratiche (di contrasto della guerra) che non finiscano per dar luogo a semplici eventi mediatici, magari targati ‘cattivi’ anziché ‘buoni’". Noi abbiamo fiducia che essi comprenderanno che le "pratiche" di lotta non si risolveranno in meri eventi mediatici, ed in quanto tali (e solo tali) impotenti, solo se si promuoveranno la denunzia, il chiarimento e l’organizzazione di massa. È forse inevitabile, e perfino positivo nel quadro attuale, che una certa spinta all’azione, in queste ed in altre aree giovanili, dia vita a una sorta di "azionismo esemplare", con una qualche tendenza, forse, a "separarsi" dallo stesso movimento "no global", visto in blocco (esagerando, e fissandolo a quel che esso è oggi) come troppo parolaio e legalitario. Chiamiamo questi giovani, questi compagni ad una riflessione sui "metodi" d’azione e sulla necessità di rapportarli sia agli obiettivi finali che, e non dovrebbe essere difficile per degli "animali in movimento" (come simpaticamente si auto-definiscono), alla prospettiva della messa in moto di grandi masse giovanili (e non) che sono ancora "in attesa", ancorché percorse da una rabbia e da uno scontento crescenti. È proprio su questa messa in moto che puntiamo!

 Invito ai lettori

Libano, Libia, Nicaragua, Iran, prima guerra del Golfo, Somalia, Ruanda, Panama, Palestina, guerre contro i popoli jugoslavi, Albania, Afghanistan... Da sempre siamo impegnati con tutte le nostre forze a contrastare attivamente le aggressioni dell’Occidente capitalista contro i popoli di colore. Torniamo a farlo oggi sulle posizioni di classe di sempre, pronti a discuterle a fondo con chiunque fosse realmente interessato a partecipare alla lotta contro la guerra.

Per questo, una volta di più, sollecitiamo i nostri lettori ad inviare alla nostra casella postale centrale ("che fare", c.p. 7032 -00162 Roma) le loro osservazioni, le loro critiche, le loro proposte. O anche le loro denunce e le loro iniziative. Troveranno nel nostro giornale una "tribuna" aperta.

Noi abbiamo altrettanta fiducia che quei piccoli (al momento) nuclei di lavoratori che già sentono la necessità di rispondere allo scatenamento della guerra con il blocco della produzione e dei servizi che sono essenziali al funzionamento degli apparati bellici almeno quanto le armi, non attendano ordini dall’alto. Ma si attivino da subito in prima persona, organizzando comitati trasversali alle diverse organizzazioni sindacali (guai a mettersi a fare una competizione di sigle anche su questo terreno!) e, soprattutto, intensificando la propaganda e l’agitazione nel corpo profondo della classe lavoratrice finora bombardato solo dalla grancassa bellicista e anti-islamica. Crediamo che giorno dopo giorno stiano emergendo i legami tra la aggressione "esterna" e l’attacco interno ai diritti, ai salari, ai posti di lavoro, alla libertà di organizzazione di cui ci gratifica il padronato, opportunamente spalleggiato da governo e parlamento. Rileviamoli e, a nostra volta, lavoriamo ad unificare la risposta di lotta sui due fronti.

Noi comunisti abbiamo fiducia nel movimento anti-guerra. Ci stiamo dentro, ma non in nome della pace. Non si può essere per qualcosa che non esiste. La guerra c’è, ed è di classe ed internazionale. Si tratta di prenderne atto. Il nostro nemico andrà comunque al conflitto, lo dicevamo già nel precedente numero del nostro giornale, perché noi, noi tutti non siamo stati in grado di troncargli preventivamente le ali. Ma possiamo sconfiggerlo sul campo di battaglia. Possiamo rendergli qui irrespirabile l’aria troncando ogni parvenza di "solidarietà nazionale" (o "europea"), estendendo la mobilitazione, assediando nelle piazze il potere assassino.

E lo possiamo fare soprattutto stringendo un legame serrato con la lotta di resistenza dei popoli aggrediti, cui va tutta la nostra solidarietà incondizionata tangibile, a cominciare dal collegamento fisico, diretto con la massa dei nostri fratelli immigrati (di cui troppo spesso, anche nel movimento, ci si dimentica se non riducendoli al ruolo di "soggetti estranei" cui offrire un’occasione "legale" di inserimento nella "nostra" realtà di "accoglienza"). Un punto, questo, assai dolente, un vero e proprio buco nero nel movimento attuale, su cui torniamo a parlare in un testo a sé.

Le forze a nostra disposizione sono insufficienti? Se la vedete come una pura fotografia dello stato delle cose qui ed ora, è possibile che, malinconicamente, si debba rispondere di sì. Ma se si vede l’intreccio tra il qui ed il là (la stragrande maggioranza del globo), le cose cambiano. I popoli aggrediti dall’imperialismo hanno già mostrato, sia come sia, di non limitarsi, di non volersi affatto limitare al ruolo di "vittime" designate dei videogames di guerra orditi dagli assassini professionali tipo Rumsfield. Hanno cominciato a reagire, a dare delle risposte concrete di resistenza e, quando possibile, di contrattacco ai fianchi del nostro comune nemico. E meno che mai in futuro l’aggressione imperialista potrà ridursi a semplici passeggiate indolori. Ne sanno qualcosa i macellai di Tel Aviv, di Kabul, dell’Africa, della stessa America Latina che, in un modo o nell’altro, sta impedendo all’Occidente di rimettere "ordine".

Se l’ordine imperialista abbisogna sempre più della guerra e del terrore è perché è sempre più in discussione. È il disordine salutare della rivoluzione che sta accendendo i suoi primi fuochi. Il nostro esercito è dislocato ovunque e sarà inarrestabile. A noi basta vederlo, coordinarlo, stringerlo ("idealmente", per ora) in una forza unitaria. Questo diciamo il 15 febbraio e diremo con sempre maggior vigore, corroborati dalle verifiche della realtà, in appresso.

Dentro il movimento, allora, come forza comunista che lo spinge in avanti mirando al suo allargamento, ma anche alla separazione in esso del grano dal loglio perché, come si è scritto, "se ci sarà la guerra, la prima unità, dominante rispetto a tutto il resto, sarà tra tutti coloro che ad essa si opporranno concretamente", ed "a volte il percorso per ricostruire le unità comincia da sane e sacrosante rotture sui contenuti". Non abbiamo altre pregiudiziali se non queste, ma ci paiono chiare e bastanti.