Per rilanciare la lotta contro la Fiat (e il governo)

 

Malgrado la lotta tenace di un settore dei lavoratori Fiat, il primo round è perso, l'accordo di programma della Fiat e del governo ha cominciato a passare dalla carta alla realtà.

Come mai?  Come si può uscire da questa situazione difficile? Sono le domande che si pongono i lavoratori protagonisti della lotta dei mesi scorsi e coloro che vi hanno guardato con attesa. Ad essi ci rivolgiamo con alcuni spunti di analisi di questa battaglia contro i licenziamenti e con la discussione delle sue prospettive.

 

 

A guardare i numeri dei posti di lavoro ufficialmente in gioco sembrerebbe il contrario. Eppure l'attacco della Fiat in corso è ancor più profondo di quello del 1980 per via del declino in atto della Fiat e del capitalismo italiano, che spinge l'insieme della borghesia italiana a spalleggiare il management Fiat per arrivare ad estesi secchi tagli occupazionali (finora c'è stato solo un assaggio), all'estensione del modello-Melfi, alla più spinta torchiatura della manodopera dell'indotto, alla liquidazione della presenza e del ruolo delle organizzazioni sindacali non totalmente compiacenti, alla frantumazione della residua contrattazione.

Lo scontro non è chiuso.

La lotta dei lavoratori della Fiat, particolarmente vivace a Termini e, seppur a scala più ridotta, ad Arese e accesasi solo in qualche frangente a Torino, è rimasta isolata. Ha addirittura stentato a coinvolgere tutti i dipendenti del settore automobilistico. Non che non si sia registrata simpatia verso la lotta dei lavoratori Fiat nel resto della classe proletaria (e anche oltre). Anzi, lo sciopero generale del 18 ottobre e la grande manifestazione di Firenze avevano mostrato che c'era la possibilità di far convergere, come lievito, le iniziative di lotta dei lavoratori della Fiat nella mobilitazione già in corso contro il governo Berlusconi. Di farne lo sprone per tradurre in lotta e organizzazione la volontà, spesso silenziosa, del proletariato più giovane di mettere un alt alla crescente precarizzazione del lavoro. Eppure tutto questo non è successo. Come mai?

Hanno pesato diversi fattori: la speranza di molti lavoratori di non essere investiti dai tagli occupazionali; i ricatti padronali sui settori precari; l'inesistenza o quasi di un'avanguardia sindacale e politica in fabbrica in grado di organizzare la risposta operaia... Questi comportamenti e sentimenti però non sono caduti dal cielo, e possono quindi essere ribaltati. Non svolgiamo qui un'analisi completa delle loro origini, che rimandano a tutto il corso (internazionale) della lotta di classe successivo agli anni Venti e alla durezza dell'attacco capitalistico lanciato dal padronato a partire dal 1980 con i 24 mila licenziamenti alla Fiat. Ci limitiamo a chiedere a quei dirigenti sindacali che oggi tentano di scaricare sull'"arretratezza" dei lavoratori le difficoltà della risposta di lotta generale contro i tagli Fiat se in ciò non abbia pesato anche la responsabilità della politica che essi hanno per anni e anni sostenuto e applicato, a partire dall'accordo-chiave del 1980.

La situazione, però, non è affatto irrimediabilmente perduta. E ce lo dicono alcuni segnali provenienti dalla stessa lotta dei lavoratori Fiat, per insufficiente che essa sia stata finora, dai quali emerge la direzione verso cui muoversi per organizzare una resistenza efficace ai piani dell'azienda.

Quali sono questi segnali?

In primo luogo, le forme di lotta. I lavoratori di Termini Imerese e di Arese (e in alcuni momenti anche di Mirafiori) hanno percepito che per far sentire le proprie ragioni ad Agnelli, alle banche e al governo occorre bloccare non solo la loro fabbrica ma anche il resto della vita produttiva e sociale attraverso il blocco delle vie di comunicazione. Il che permette di estendere di fatto lo sciopero a settori consistenti di lavoratori della zona e rivolgersi ad essi, durante i blocchi, per far conoscere le ragioni della propria (e collettiva) lotta.

Non è un caso che Berlusconi abbia detto che tali forme di lotta sono intollerabili. Già: i lavoratori possono anche scioperare contro il loro licenziamento, possono anche fare una manifestazione-sfilata, ma guai a far male alla fluidità della vita sociale capitalistica, guai a "contagiare" gli altri lavoratori, quelli che per il momento il posto di lavoro (al limite precario) lo hanno, pur se a ritmi forsennati e pur se li... uccide.

Lo hanno rilevato, sulla sponda opposta, anche alcuni giovani operai di Mirafiori: a cosa serve, si sono chiesti, scioperare e limitarsi a fare una passeggiata in città? Come possono i funzionari sindacali lamentarsi del fatto che gli scioperi sono talvolta riusciti solo in minima parte? Non sono riusciti anche perché i lavoratori percepiscono che quel metodo di resistenza ai piani dell'azienda è impotente. Hanno torto?

C'è da registrare poi l'iniziativa del coordinamento delle donne di Termini Imerese. Davanti alle mancate promesse o ai silenzi dei deputati del Polo delle Libertà eletti in Sicilia anche con un massiccio voto proletario, il coordinamento ha promosso la raccolta e la riconsegna dei certificati elettorali. L'iniziativa ha trovato un'adesione inaspettata ben oltre il comprensorio di Termini. È stata l'embrionale presa d'atto (certamente non completa e neppure irreversibile) che i proletari non possono affidare la difesa delle proprie condizioni al parlamento, ai propri eletti. Di centro-destra. Ma quelli di centro-sinistra hanno fatto qualcosa di sostanzialmente diverso? Lo ha rilevato con preoccupazione Farina su Libero del 10 novembre. E se non si può contare sulla delega elettorale, come farsi sentire? Anche su questo piano, da Termini sono emerse due spinte feconde.

Da un lato, è stata incoraggiata la scesa in lotta della massa degli sfruttati tradizionalmente passiva che vive nel territorio circostante la fabbrica, a partire dalle donne. L'azione del loro coordinamento ha mostrato quanto una vera lotta in difesa delle condizioni proletarie richieda l'organizzazione di tutti gli sfrutatti e la presa in carico diretta nelle loro mani della gestione della lotta, della vita della comunità lavoratrice in lotta.

Dall'altro lato, i lavoratori di Termini hanno cercato di costruire un fronte di lotta unitario con i lavoratori degli altri "territori", per spezzare l'arma più efficace nelle mani del padronato: la divisione e la concorrenza tra lavoratori. Contro l'orgia federalista incoraggiata da anni anche dai vertici sindacali e della sinistra, i lavoratori Fiat hanno compiuto alcuni tentativi (incoerenti se vogliamo, ma reali) di contrastare la politica di divisione dei lavoratori tra stabilimenti portata avanti dall'azienda, dai dirigenti regionali e dal governo. Ghigo, presidente della regione Piemonte, ha più o meno detto: "Il rilancio dell'azienda è incompatibile con la salvaguardia dell'occupazione, e poiché da qualche parte occorre tagliare, il posto giusto per farlo è la Sicilia, il posto meno competitivo". Da Cuffaro è arrivata una risposta uguale e contraria. Il presidente della Lombardia ha oliato l'illusione di una soluzione "particulare" per Arese se si fosse staccata dalla Fiat per una nicchia di auto di lusso e/o ecologiche.

Dai delegati Fiom e Cobas di Melfi è arrivata invece la proposta di spostare una parte delle auto prodotte in Basilicata (500 autovetture delle 1300 sfornate al giorno) a Termini in modo da salvaguardare l'occupazione in Sicilia e allentare la morsa dei ritmi e dei turni disumani che vige a Melfi. Una proposta nella stessa direzione è venuta dalla rsu di Termini con la richiesta di un eventuale riduzione d'orario se la produzione dovesse essere insufficiente a garantire tutti i posti di lavoro.

Qui c'è stato non solo il tentativo di porre un argine alla divisione territoriale tra lavoratori, ma anche la volontà embrionale di salvaguardare l'occupazione senza farla dipendere dalla domanda del mercato, cioè dalle compatibilità capitalistiche. E un primo tentativo è stato fatto, sulla base dell'incrinatura della pacifica convivenza tra sfruttatori e sfruttati all'interno del paese, di cercare un collegamento con i lavoratori degli stabilimenti Fiat degli altri paesi, nella confusa percezione che il problema è internazionale. Lo sciopero europeo del 16 dicembre, sollecitato dalle strutture di base della Fiom, ha incontrato una bassa partecipazione, ma ha posto il problema della scala reale a cui si svolge lo scontro. Le iniziative dei lavoratori di Termini hanno, infine, mostrato come una lotta seria sia in grado di raccogliere lo scontento che sta crescendo nella massa della gioventù (e che solo in parte si esprime nel movimento "no-global') e negli strati intermedi della società. Positive sono state, al riguardo, le iniziative di alcuni settori del movimento "no-global", che non a caso sono stati colpiti dalla repressione proprio quando tentavano di stabilire un rapporto con la lotta operaia.

Perché ci teniamo a sottolineare questi aspetti della lotta dei mesi scorsi? Perché essi esprimono, pur se in modo frammentario e incoerente, la direzione verso cui i lavoratori sono chiamati a muoversi: la difesa degli attuali livelli occupazionali passa attraverso la messa in discussione delle regole che hanno guidato finora la difesa degli interessi proletari (rispetto delle compatibilità aziendali e nazionali, aziendalismo, elettoralismo, delega ai vertici sindacali, ottica nazionale), che poi non sono altro che altrettanti aspetti dell'unitaria politica riformista.

Come prosegue la lotta

La lotta alla Fiat sta proseguendo con le iniziative di un solo sindacato, la Fiom. La parte più combattiva dei lavoratori Fiat guarda con speranza alle proposte della Fiom, che al contrario di quanto accaduto in passato non accetta di mediare con l'impostazione dei piani aziendali, una svolta rispetto alla tradizionale politica delle compatibilità. E in un certo senso è così, visto che il gruppo dirigente della Fiom rileva oggi l'impossibilità di difendere l'occupazione attraverso lo sviluppo dell'azienda nell'attuale mercato dell'automobile. Il duplice obiettivo (salvaguardia dei posti di lavoro e rilancio industriale) sarebbe invece realizzabile, sostiene la Fiom, se la Fiat puntasse su un altro segmento di mercato, ancora in fasce e non occupato da altre "case": sulla progettazione e sulla produzione di una nuova vettura ecologicamente compatibile (si parla dell'auto a idrogeno) in collegamento con la messa in opera di un nuovo sistema di trasporti in grado di risolvere il dramma dell'intasamento e dell'inquinamento delle città.

Non pochi lavoratori accolgono con favore una simile prospettiva (presentata ai cancelli di Mirafiori, in un'altra versione, anche da Beppe Grillo) e affidano ad essa l'unica possibilità di riprendere l'iniziativa. Noi siamo con loro, li appoggiamo nello sforzo (non facile) di far ripartire gli scioperi dopo l'esito negativo del primo round. Ogni ulteriore sviluppo dipende infatti dal non assuefarsi, dal non rinunciare a far valere con la mobilitazione l'esigenza di conservare tutti i posti di lavoro. Dalla realizzazione e dal consolidamento di alcuni passaggi di lotta proposti dagli stessi organismi sindacali di base o già parzialmente avviati: la costituzione di un coordinamento nazionale cassintegrati; il rifiuto della estensione dell'accordo di Melfi agli altri stabilimenti come condizione per il rientro dei cassintegrati (anzi: la volontà di rivederlo anche negli stabilimenti in cui esso è in vigore); la preoccupazione di contrastare la divisione territoriale tra stabilimenti e quella tra cassintegrati e operai in produzione; l'organizzazione di iniziative di lotta che "facciano male" all'azienda colpendola nei suoi "gioielli" (come ha detto un lavoratore: "per salvare Termini, occorre bloccare l'Iveco o la Rinascente!"); la costituzione di una cassa di resistenza; la preparazione di quello sciopero generale che può trovare, se affrontato nel modo giusto, un primo momento di tessitura nello sciopero del 21 febbraio.

Nello stesso tempo facciamo rilevare che lo stesso piano industriale della Fiom è inadeguato per il pieno sviluppo di una simile battaglia. Per due motivi. Innanzitutto è illusorio credere che la Fiat sarebbe la prima impresa a mettere il piede sul terreno dell'auto ecologica. Le altre case automobilistiche (e le strutture scientifiche dei rispettivi paesi) vi sono già presenti in forze. E poiché per lanciare il nuovo prodotto e renderlo competitivo rispetto al motore a benzina occorrono "tanti soldi" e l'azione coordinata del sistema imprese-centri di ricerca-istituzioni statali di un intero paese, si ripresenta per la Fiat in questa sfida la somma di difficoltà già incontrate con le automobili tradizionali.

Queste difficoltà potrebbero divenire superabili a una sola condizione: che l'apparato industriale e finanziario coinvolto trovi a disposizione il vero carburante su cui si gioca alla fin fine la concorrenza nel mercato capitalistico, anche nei settori d'avanguardia, e cioè lo schiacciamento dei salari, l'intensificazione dello sfruttamento operaio, la proliferazione (accanto a un settore ristretto di lavoratori qualificati ben pagati) di un esercito di lavoratori precari e privi di tutela sindacale. Il che richiede, se si vuol essere coerenti, che i lavoratori coinvolti si mettano in competizione con i lavoratori dell'analogo comparto degli altri paesi. Che essi sostengano la sola politica che in ambito capitalistico permette al sistema finanziario di un paese di racimolare i "tanti soldi" richiesti dal finanziamento del piano: il saccheggio delle periferie del mondo! Per non far mangiare la Fiat dalla General Motors e darle un futuro "all'idrogeno" entro i vincoli dell'economia capitalistica internazionale non c'è che una via: fare meglio, come Azienda-Italia, quello che sta facendo l'Azienda-Usa!

Si potrebbe obiettare che questi effetti "socialmente nefasti" verrebbero evitati grazie ad un intervento pubblico, che garantisca l'acquisto dei prodotti nazionali (a scapito di quelli sfornati da altre multinazionali) con la promozione del rinnovamento delle infrastrutture per la mobilità territoriale nel rispetto dei vincoli ambientali. Ma questa ricetta "nazional-autarchica", oltre ad essere totalmente illusoria (come mostrano anche le esperienze di paesi come l'ex-Urss, la "ex"-Jugoslavia, la Corea del Sud e l'Argentina) ha effetti non meno deleteri sia sui lavoratori in Italia che sulle masse lavoratrici del Sud del mondo "toccate" dal "nostro" paese.

La soluzione sociale
della Volkswagen

Non pochi dirigenti della Cgil invocano dalla Fiat e dal governo Berlusconi una soluzione "tedesca" alla crisi Fiat. In cosa consista questa soluzione ci viene chiarito da una notizia giunta nelle scorse settimane dalla Germania del social-democratico Schroeder.

Da mesi, la Volkswagen ha dichiarato un'eccedenza di 5000 lavoratori (anche lì errori manageriali?). La direzione aziendale ha per il momento accantonato i licenziamenti perché il sindacato metalmeccanico ha accettato di costituire nella Mirafiori di Wolfsburg "una fabbrica nella fabbrica ", nella quale si produrrà una nuova "auto popolare ", la Touran. I lavoratori che vi saranno impiegati avranno un salario più basso degli altri dipendenti della Volkswagen e, in più, agganciato ai parametri di profittabilità e persino all'andamento della domanda del nuovo modello. Essi inoltre sottostaranno a orari più lunghi e flessibili rispetto a quelli contrattuali.

E questa sarebbe la gestione solidale del periodo di crisi? E così difficile prevedere che queste condizioni peseranno poi come arma di ricatto sul resto della classe lavoratrice? Che aumenteranno la concorrenza tra lavoratori? Non sembra di vedere il film girato già a Melfi?

Ancora una volta:

sottrarsi alle compatibilità!

Noi affermiamo invece che è giunto il tempo di trarre fino in fondo la lezione contenuta nella esperienza dei lavoratori Fiat: va rivendicato il diritto dei lavoratori al lavoro e al reimpiego al di là delle possibilità capitalistiche della Fiat, al di là se l'azienda potrà o no rilanciarsi nell'ipotetico mercato dell'auto ecologica; e se il reimpiego non c'è, va rivendicato il diritto al salario garantito. Una richiesta che vale per i lavoratori Fiat e per tutti i lavoratori oggi colpiti dalle crisi industriali e dalla mannaia dei licenziamenti compiuti per rappresaglia alla resistenza sindacale. Una richiesta che va legata al rilancio di una lotta per la riduzione dell'orario di lavoro, come misura per il riassorbimento (anche parziale) della disoccupazione e l'alleggerimento dell'esaurimento psico-fisico prodotto dallo sfruttamento capitalistico.

L'invito di Berlusconi ai lavoratori Fiat "eccedenti" di rassegnarsi ad accettare la ricollocazione in altri settori è ovviamente provocatorio e finalizzato ad incoraggiare i proletari ad affidarsi alle virtù salvifiche del mercato. Esso coglie, però, un problema reale. Oggi il mercato capitalistico dell'auto, e più in generale l'industria capitalistica, non permette più di "offrire" i posti di lavoro che, in quantità e in qualità, ha garantito finora. La difesa di questi ultimi non può andare di pari passo, come in una certa misura è successo in passato, con l'espansione della produzione capitalistica. Essa può risultare solo dall'organizzazione di una battaglia generale contro il padronato e contro il governo che miri a scaricare sulle aziende e sul capitale la loro crisi. Che siano lor signori a pensare come meglio gestire le loro imprese!

A noi la preoccupazione di come organizzare le forze proletarie per imporre la difesa complessiva delle nostre condizioni e per buttare giù con la lotta il comitato d'affari con cui i nostri sfruttatori coordinano il loro attacco all'occupazione e ai "diritti": e cioè il governo Berlusconi. A noi il compito di costruire questo fronte unitario di lotta. I cui alleati stanno non certo nelle forze politiche uliviste che a parole sono con i lavoratori della Fiat, e nei fatti appoggiano ora questo ora quel capitano d'industria. O in un parlamento che è di fatto, lo hanno cominciato a denunciare le donne di Termini, il luogo dove, al più, si ratificano decisioni prese altrove contro i lavoratori. E nemmeno in Comuni, Province e Regioni che sono dirette da quelle forze del centro-destra o del centro-sinistra sottomesse alla stella polare del profitto e che, come è emerso nei mesi scorsi, se hanno speso una parola in favore dei "loro" operai, lo hanno fatto (al pari del governo centrale) per ostacolare l'unificazione della lotta operaia al di sopra degli steccati regionali.

Gli alleati stanno negli altri lavoratori, colpiti anch'essi dallo stesso apparato di potere economico e politico capitalistico. Anch'essi interessati e disposti (se chiamati in campo dietro un piano di battaglia serio, soprattutto nel settore giovanile e immigrato) a resistere al tentativo della classe sfruttatrice e parassitaria di scaricare il declino dell'Italia e del capitalismo internazionale su di loro (se non con il licenziamento, con il lavoro precario o i bassi salari o il supersfruttamento e il razzismo..). Gli alleati stanno in una fascia di ceti medi che è scontenta di questo apparato di potere per motivi non direttamente collegati al lavoro (informazione, giustizia, ambiente, pace-guerra), ma che nel lavoro trovano la loro radice, e che nel lavoro, nella lotta autonoma della classe proletaria, possono trovare la loro via risolutrice. In quell'immenso serbatoio di forza collocato al di là dei confini italiani e che ha cominciato a dare manifestazione di sé nella riaccensione degli scioperi avvenuta in Europa nell'ultimo anno e nello sviluppo a scala mondiale di tutta una serie di movimenti di resistenza agli effetti disastrosi del capitalismo globalizzato.