Due, tre parole sugli "aiuti umanitari"

Appena "finita" la guerra in Iraq è scattata la macchina propagandistica e organizzativa degli "aiuti umanitari" alla popolazione irachena: protagonisti i medesimi poteri che hanno martoriato per un decennio, con embargo e bombe, la vita di quel popolo.

Contemporaneamente, non pochi tra quanti hanno manifestato contro l’aggressione all’Iraq e che sono impegnati in attività di volontariato più o meno legate agli "aiuti" (in Italia 700.000 persone, ben più di quanti siano impegnati in attività politiche) si sono chiesti: in che modo noi che non siamo riusciti ad evitare questa tragedia e ne siamo anzi in qualche modo corresponsabili, possiamo aiutare concretamente questo popolo? quali sono i canali sicuri che abbiamo a nostra disposizione per far pervenire ad esso i nostri eventuali aiuti materiali? come far sì che l’aiuto donato non ottenga l’effetto opposto di quello desiderato?

Lo si è chiesto talvolta direttamente anche a noi, compagni del che fare, per sapere cosa ne pensassimo.

Già in un numero precedente (subito dopo la guerra contro la "ex"-Jugoslavia) abbiamo detto la nostra. Torniamo a farlo oggi, cominciando a fare una netta distinzione tra gli "aiuti" di stato, che sono un’arma di dominazione economica e politica non diversamente dai mezzi bellici, e perciò una pratica politica da denunziare in tutto e per tutto, e la genuina tensione "popolare" ad aiutare le popolazioni colpite dai nostri stati. Questa tensione nasce da un sentimento sano. Il sentimento di chi, "impegnandosi nelle varie organizzazioni, pensa di percorrere una strada alternativa all’egoismo sociale, alla mancanza di diritti, a un’economia che provoca diseguaglianze, a comportamenti consumistici"(1). Il sentimento su cui cerca di speculare la macchina degli aiuti di stato, come inizia ad essere denunziato a chiare lettere anche dall’interno del mondo delle Ong: "Non sono i militari a servire da protezione degli aiuti, piuttosto gli aiuti a servire di copertura all’invio di truppe"(2).

In questo nostro ragionamento ci serviremo ampiamente di un volume pubblicato di recente (Giulio Marcon, Le ambiguità degli aiuti umanitari. Indagine critica sul Terzo settore, Feltrinelli, 2002), che contiene una panoramica e una critica sia degli "aiuti umanitari" in genere che delle "organizzazioni non governative" (Ong); una critica tanto più significativa in quanto portata dall’interno di questo campo (Marcon è il presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà, Ics, un coordinamento che raggruppa oltre cento organizzazioni).

 

Guerra&Affari

Per affrontare la questione degli aiuti all’Iraq non si può che partire dal contesto complessivo del "dopoguerra" in cui i cosiddetti aiuti agiscono. La propaganda ufficiale di stato si è compiaciuta di mostrarci un paese allo sbando. In realtà, come ha ben scritto Vauro sul manifesto (v. riquadro), questo caos non piove dal cielo, è "la conseguenza di un disegno politico-militare preciso." L’Iraq è volutamente lasciato dalle potenze occupanti senza acqua potabile, senza cibo, senza energia elettrica, con gli ospedali pieni di feriti... Perché? Per completare l’opera iniziata anni e anni fa: annichilire nel corpo e nello spirito il popolo iracheno e poter procedere all’espropriazione delle sue ricchezze e della sua forza lavoro.

Un popolo che non si è arreso alla prima guerra del Golfo né alle conseguenze devastanti per generazioni dell’uranio impoverito, che non si è piegato a 12 anni di un embargo che ha riportato al medioevo uno dei paesi più avanzati del Medioriente; un popolo che, dopo aver resistito come ha potuto a una seconda più dura guerra, da solo e contro il più forte esercito del mondo, ha ancora la forza, la fierezza, il coraggio di scendere in piazza, di manifestare esplicitamente contro l’invasore e fronteggiare a mani nude le mitragliatrici: questo popolo deve essere piegato completamente, gettato nella disperazione, frantumato in microcellule contrapposte l’una all’altra nella selvaggia lotta per la sopravvivenza. Ecco allora comparire e mettersi all’opera i solidi alleati degli eserciti invasori, apparentemente fatali, apparentemente anonimi: sete, fame, epidemie. "Credo -ha dichiarato un chirurgo dell’ospedale di Kerbala all’inviato del manifesto- che vogliano azzerare la nostra civilizzazione, farci odiare l’uno contro l’altro per finire di disgregare il paese." Questo è il transito dai bombardieri agli uomini d’affari. Che infatti, come avvoltoi, sono già piombati sul territorio occupato dai "nostri".

"Parte la corsa alla ricostruzione dell’Iraq e il Bel Paese punta ad una prima ‘fetta’ da 2 miliardi di euro. È questo il dividendo bellico che si aspetta il ministro Antonio Marzano per l’appoggio fornito dall’Italia agli anglo-americani nella seconda guerra del Golfo. Si stima che le commesse irachene possano far crescere il nostro pil dello 0,1%. In pole position per una torta che la Rice University di Houston valuta fino a un massimo di 100 miliardi di dollari in alcuni anni." Inizia così un articolo di Giorgio Lonardi sulla Repubblica (del 19 aprile) dal titolo esplicito: "La ricostruzione. L’Italia ‘fiuta’ l’affare, aiuti statali a 250 imprese". Dettagliate schede ci fanno sapere chi sono i vampiri che si apprestano a banchettare con il sangue iracheno: ce n’è per tutti, dalla Siemens all’Eni, dalla Fiat alla Finmeccanica, dalla Breda all’Ansaldo. Duecentocinquanta imprese, questo solo per quanto riguarda l’Italia. Insieme alle aziende e agli uomini d’affari partono le nostre gloriose truppe, i nostri mercenari che si affiancano a quelli della coalizione: di polizia non ce n’è mai troppa… E insieme a tutti, gli aiuti, il luccicante ospedale italiano...

A chi gli aiuti? A chi li dà!

Nell’era della falsificazione, come più di un secolo fa Paul Lafargue chiamò il capitalismo, sempre meno le parole assomigliano alle cose. Per molti di coloro che ne sono stati oggetto l’espressione "aiuto umanitario", che nel nostro Occidente possiede ancora un alone filantropico, è diventato sinonimo di beffa, di nuova mistificante copertura alla macchina di rapina economica, politica, sociale, attraverso la quale le potenze imperialiste operano -e legittimano- lo sfruttamento dei paesi e dei popoli neo-colonizzati.

Un caos programmato

"Alla popolazione di Baghdad ‘liberata’ lasciata senz’acqua, senza corrente elettrica, senza cibo, senza ospedali, in una città devastata dalle bombe si è lasciata una ‘libertà disorganizzata’ come la ha simpaticamente definita Donald Rumsfeld: la libertà di saccheggiare, di spararsi addosso in regolamenti di conti sanguinosi, la libertà di rischiare di non sopravvivere alla propria stessa disperazione. Non è il caos, è la conseguenza di un disegno politico militare preciso. Non farsi carico in quanto occupanti di garantire almeno i minimi standard di vita civile agli occupati, obbligo sancito del resto dalla convenzione di Ginevra, significa determinare e mantenere fra i vinti l’arcaica legge del più forte.

Si tratterà con il più forte dei deboli non appena esso emergerà dal conflitto e dalla disintegrazione delle relazioni sociali e umane della comunità vinta, pensando che sia comunque più governabile una popolazione stremata e abbrutita dalla miseria indotta dalla guerra che una popolazione che invece conservi una propria dignità collettiva. Non c’è sistema più efficace per distruggere la singola dignità delle persone, costringendole ad una primitiva lotta per la sopravvivenza."

Vauro,

dal manifesto del 25 aprile

Chi sono i promotori degli aiuti? I governi, la Banca mondiale, l’Onu, le Ong. Ossia, tralasciando per il momento le Ong a cui riserviamo un discorso a parte, gli artefici primi della rapina globale e dei conseguenti mezzi per attuarla (dagli embarghi alle guerre…). Schizofrenia, come più volte si è sentito ripetere? Un Occidente irrisolto tra l’essere il dottor Jekyll e mister Hyde? Niente di ciò. Nessuna dissociazione. Coerente metodologia imperialista. I paesi donatori sono infatti i principali beneficiari dei "doni". Vediamo come.

Sia nel caso di paesi transitati pacificamente (posto che la rapina possa esser mai pacifica…) dal ruolo di colonie a quello di neo-colonie, sia in quello di paesi la cui resistenza alla rapina occidentale ha imposto il diretto intervento militare, il ruolo dell’aiuto non cambia. Lo stesso Marcon offre degli esempi chiari, che riportiamo nella scheda a fianco (*). Gli aiuti sono "un ottimo strumento di intromissione negli affari interni di un paese" (p. 59). Portano alla distruzione dell’economia locale e allo sviluppo della dipendenza dai prodotti importati dal paese donatore, all’indebitamento estero. In conseguenza di ciò, creano degenerazione sociale, dipendenza della vittima dal carnefice: "Nel caso di condizioni socio-economiche drammatiche (create dai meccanismi della dominazione imperialista, n.), gli aiuti corrompono il già precario tessuto sociale (…) con la creazione di un mercato parallelo degli aiuti controllato dall’Occidente e dai sistemi mafiosi locali (legati all’Occidente, n.). Gli aiuti creano dipendenza, assuefazione. Sono una droga (innanzitutto sociale e politica, n.) e creano economie drogate" (p. 64, i grassetti sono nostri).

L’aiuto serve inoltre a creare consenso alla guerra nelle "opinioni pubbliche occidentali". "Una delle caratteristiche delle guerre umanitarie è proprio la necessità di costruire in parallelo un apparato (ideologico e materiale) di intervento a soccorso delle vittime del conflitto, per accrescere il consenso intorno all’operazione militare" (p. 75). "Bombe e aiuti arrivano insieme, nel senso autentico della parola. Nel mese di ottobre del 2001, i B-52 americani hanno sganciato sulle teste degli afghani più o meno contemporaneamente bombe a grappolo e pacchi umanitari: grosso modo nei primi giorni delle azioni militari diecimila tonnellate di bombe e 37.000 razioni alimentari (lo 0,46% del fabbisogno alimentare afgano in un mese). Avevano in comune lo stesso colore, giallo" (p. 76). Servono, gli aiuti, per tacitare la coscienza delle opinioni pubbliche dell’Occidente con una specie di "fiera delle indulgenze umanitarie".

Molto istruttive in proposito, soprattutto per chi allora ne è stato ingannato, le pagine sulla missione Arcobaleno: "L’idea nasce nell’ambito della presidenza del Consiglio tra lo staff del premier D’Alema che cerca in questo modo, mentre il suo governo bombarda la Serbia, di costruire un consenso umanitario dell’opinione pubblica. Pare che proprio il suo consigliere Velardi abbia perorato la denominazione ‘arcobaleno’, anche ‘per mettere in difficoltà i pacifisti’" (p.79). E, sempre riguardo a tale missione, un bell’esempio in cifre circa la "equa" distribuzione dei fondi: "Per ogni volontario lo stato ha speso approssimativamente oltre 200.000 lire al giorno (…), per ogni profugo mediamente ogni giorno 38.000 lire" (p. 86). Volete mettere i kosovari "da aiutare" con gli aiutanti italiani? E si potrebbe continuare poiché il libro è pieno di denunzie generali e particolari ben documentate. Ma preferiamo passare alle Ong per vedere se e quanto esse siano realmente indipendenti da tutto ciò.

E le Ong?

Lo stesso Marcon denuncia la proliferazioni di Ong governative o mafiose, sorte da grandi o piccoli pescecani, com’è nella natura del nostro libero e democratico mondo dell’Impresa. Come vuole la legge che vi domina, quella del capitale monopolistico, anche tra le Ong un numero ristretto detiene la maggior parte delle risorse: "Lo dice l’Istat (Rapporto sul non profit, 2001): solo poco più di 44.000 organizzazioni non profit (20,8%) su 221.412 hanno lavoratori retribuiti. Il 74,8% di queste, ha un bilancio inferiore ai 100 milioni ed è composta solo di volontari. Nel 10% più ‘ricco’ del non profit circolano cifre ben diverse: bilanci annui da 2-3 miliardi in su di vecchie lire" (p. 11). Non ci conforta sapere che "oggi più di 1500 Ong hanno lo status consultivo presso l’Ecosoc, il Consiglio economico e sociale delle Nazioni unite" (p.28). Tanto meno che "in occasione dell’anniversario della fondazione dell’Onu, si è deciso di dar vita al cosiddetto ‘Patto globale’, uno strumento di collaborazione sui temi della globalizzazione tra Ong, governi e multinazionali, tra cui aziende che non sono certo un esempio di rispettabilità dei diritti umani e dei lavoratori, come Nike, Shell, Bp, Amoco…"(p. 41). Semmai tutto ciò dovrebbe far riflettere sulla profonda compromissione delle Ong con i governi e gli stati (altro che non governative!) affamatori e aggressori e le rispettive aziende di riferimento. Anche a questo riguardo non mancano nel libro utili informazioni e considerazioni: "Ormai il 65% di tutto l’aiuto umanitario mondiale viene veicolato tramite le Ong (…). Nel corso del tempo, molte di queste organizzazioni hanno cambiato pelle. Nigrizia, la rivista dei comboniani, ha affermato: ‘L’anima propria degli aiuti sta cambiando: la valenza solidarietà è sempre più sottile, la valenza di auto-perpetuazione delle agenzie umanitarie è sempre più pesante.’ (…) Secondo The Economist quello dell’umanitario è un vero e proprio mercato: 5,5 miliardi di dollari (a parte i fondi dei donatori pubblici) raccolti dalle Ong nel 1997, una fiera annuale (Aid and Trade) a New York delle imprese specializzate in forniture umanitarie" (p. 58).

Né sfugge al doppio "diavolo" del "business e della cooptazione istituzionale" l’altra gamba delle attività di solidarietà, il commercio equo e solidale. "Negli anni scorsi si è progressivamente affermato il marchio di garanzia Transfair (1994) per il commercio equo e solidale. Proprio il rapporto tra commercio equo e solidale e Transfair ha evidenziato crisi e conflitti interni. In una lettera al direttore di Transfair, il sacerdote comboniano Alex Zanotelli ha ricordato che i ‘rappresentanti del commercio equo e solidale (Ces) hanno affermato a chiare lettere che la via battuta da Transfair non era consona con il Ces’. E ricorda qual è a suo parere, il punto di contrasto: ‘Ritengo fondamentale che il commercio equo e solidale sia alternativo al sistema!’, e sottolinea: ‘Riuscire a imporre i prodotti del commercio equo e solidale o dell’agricoltura biologica negli scaffali dei supermercati, a fianco dei prodotti "non equi" e "anti-biologici" non è un obiettivo in sé (…). È più importante assicurarsi del carattere equo del processo, dal trasporto alla commercializzazione, cosa che esclude in prima battuta il supermercato.’ La conclusione di Zanotelli è amara: ‘A me resta solo di ritirare il mio nome da Transfair. Lo faccio con dolore e sofferenza. (…) e conclude: ‘Il sistema economico finanziario attuale è capace di fagocitare tutto, anche le cose più belle che ci inventiamo per resistergli!’" (pp.125-6)

Questo sarà sicuramente anche il sentimento di molti giovani volontari. Ecco perché qualsiasi resistenza che si ostini a combattere soltanto gli effetti del "sistema economico" capitalistico che ci domina e liquidi come ideologica ogni proposta di lotta contro di esso in quanto causa unitaria di tutti gli effetti perversi che sono sotto i nostri occhi, è destinata al fallimento. "Il sistema economico fagocita tutto!" Vero! Non è dunque l’intero sistema che va cambiato?

Per un vero fronte di solidarietà

In alternativa a questa deriva (per noi non casuale) del "terzo settore", Marcon tenta di prospettare una via di uscita. Lo fa tornando indietro, riflettendo sui sentimenti di chi vi è impegnato come volontario. Racconta come, a partire dagli anni ottanta, molte energie si siano dirette verso il volontariato e la solidarietà internazionale piuttosto che verso le attività del movimento operaio e della politica tradizionali, in quanto queste ultime erano e sono percepite come meno efficaci delle precedenti e come mortificanti del proprio protagonismo. Non c’è voluto molto tempo, però, perché emergesse il vicolo cieco verso cui viaggiava la galassia umanitaria: quella di fare l’ambulanza mondiale, di medicalizzare il mondo affinché esso continui a sopportare le sue malattie. L’alternativa, afferma Marcon, sta nella "riscoperta della politica", in un "allargamento del proprio impegno verso gli altri movimenti sociali e sindacali" in modo da arrivare a colpire le cause dei disastri compiuti dalla mano del capitalismo globalizzato.

Chi aiuta chi?

Il capo-banda

"La legge americana ‘umanitaria’ del 1951 (‘Alimenti per la pace’) con la motivazione filantropica di aiutare i paesi poveri afflitti da carestia e denutrizione ha perseguito l’obbiettivo di liberarsi dalle eccedenze cerealicole statunitensi costruendo le condizioni per la loro esportazione nei paesi poveri. L’obbiettivo è stato raggiunto, al costo della consistente distruzione dell’agricoltura dei paesi in via di sviluppo: infatti a causa dell’immissione di tali quantità di cereali rivendute poi sul mercato interno, è avvenuto il crollo dei prezzi e la drastica riduzione della produzione locale. I doni sono stati sostituiti progressivamente dalle esportazioni (g. n.). In dieci anni di applicazione della legge ‘Alimenti per la pace’, l’aumento delle esportazioni (americane) di riso è stato del 50% e quello di grano del 68%. Tutto ciò ha suscitato il plauso del Fondo monetario internazionale (ti credo!… n.)" (pp.45-46).

E ora l’Italia

"L’esempio americano è stato prontamente seguito dagli altri paesi occidentali. Tra cui l’Italia, che ha imposto negli anni ottanta ai paesi in via di sviluppo i propri prodotti liofilizzati (arance, carni, minestroni, ecc.), con grande vantaggio per i produttori italiani: mentre il riso costava all’amministrazione italiana 116.000 lire al quintale, i liofilizzati venivano pagati 2.058.000 lire al quintale. E il vantaggio per i paesi in via di sviluppo? Una beffa. Oltre al crollo della produzione interna, un minore apporto calorico e nutritivo (…). Ha una logica questa spirale perversa? Ancora una volta la risposta è sì. È quella dei profitti e degli interessi dei paesi ricchi" (pp. 45-6). Per i quali è normale e razionale amministrazione compiere azioni come quella denunciata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: "Il 45% dei medicinali spediti nella ex- Jugoslavia durante gli anni della guerra fossero scaduti o inservibili, a testimonianza che in questo caso -come per gli aiuti alimentari- questo sistema di aiuti sia assolutamente congeniale all’eliminazione delle eccedenze e a procurare qualche vantaggio fiscale o qualche entrata diretta alle imprese" (p. 63).

Siamo d’accordo. A patto di intendersi sulla politica che si vuole riscoprire. Può sembrare incredibile, ma Marcon propone il ritorno proprio a quella politica tradizionale che, giustamente, molti attivisti del "non profit" hanno sentito e sentono come estranea, corrotta ed inefficace. Egli propone di puntare su "lo sviluppo e il potenziamento della democrazia e del diritto internazionale, a partire dalla riforma e dal rafforzamento dell’Onu fino all’entrata in funzione del Tribunale penale internazionale." Propone cioè di affidarsi direttamente a chi sta "fagocitando" le energie genuine dei tanti che si impegnano nel campo degli aiuti: alle democrazie, all’Onu, al Tribunale penale internazionale, ai soggetti cioè che altro non sono che i covi dei briganti del profitto e dell’oppressione imperialista.

L’ultima guerra ha mostrato ancora una volta quanto questi briganti non vogliano ascoltare la "sete di giustizia" dei sei miliardi che ne subiscono gli effetti (differenziati). C’è un solo modo a disposizione di noi-sei-miliardi per imporla, la nostra "sete di giustizia": la lotta e la ricostruzione di un fronte di lotta internazionale degli sfruttati contro la macchina di rapina e di guerra del capitale. L’aiuto materiale alle popolazioni terzo-mondiali ha un senso se serve a costruire questo fronte di battaglia, se serve a colmare l’abisso che il capitalismo globalizzato cerca di scavare tra lavoratori occidentali e popoli di colore, tra lavoratori occidentali e lavoratori immigrati. Pure noi, dunque, mettiamo nel conto l’aiuto materiale, anche nel caso dell’Iraq ovviamente. In anni recenti, ad esempio, ci siamo impegnati nella raccolta di medicine e di fondi a sostegno degli operai jugoslavi della Zastava. Lo abbiamo fatto per portare avanti, anche attraverso di essa, un’azione politica opposta a quella veicolata dall’aiuto umanitario pilotato o fagocitato dallo stato, tutta rivolta a mantenere distinti, disorganizzati e impotenti i due reparti del fronte internazionale di lotta al capitalismo: i lavoratori occidentali da un lato, gli sfruttati e gli oppressi dei continenti periferici dall’altro.

Noi chiamiamo quindi i giovani e i lavoratori impegnati nel "fronte della solidarietà" ad aprirsi al fronte della lotta di classe, a contribuire a ricostruirlo. Il fronte che mette in crisi i governi guerrafondai, che non dà respiro alle loro manovre, che li butta giù in piazza, che impone con la forza la propria alternativa di potere. Il fronte che saluta la resistenza dei popoli aggrediti e la sostiene incondizionatamente. Che, per quanto riguarda la solidarietà con i rappresentanti dei popoli di colore nei paesi avanzati: cioè con gli immigrati, unisce la disponibilità a farsi carico delle loro esigenze di emergenza quotidiana con l’impegno a favorirne e a sostenerne l’auto-organizzazione di lotta. È questa innanzitutto la solidarietà che essi ci chiedono: quella di demarcarci dai nostri governi, di abbracciare incondizionatamente la loro causa (che poi è la nostra stessa causa!), di bloccare -noi che lo teniamo in piedi con il nostro quotidiano lavoro!- il paese che li aggredisce. Ieri con le bombe e l’embargo. Oggi con gli aiuti e i contingenti di polizia.


(*) Segnaliamo inoltre sullo stesso tema una bella tesa di laurea: Gli aiuti alimentari: salvezza o rovina?", consultabile presso il Centro di documentazione W. Wolff di Marghera.