Argentina:

anche dalle elezioni,

un monito al movimento

di classe proletario

Il disastroso risultato elettorale fotografa un già avvenuto mutamento dei rapporti di forza tra le classi, e richiama con urgenza il proletariato a superare le divisioni e a dotarsi di una propria organizzazione di partito per affrontare i nuovi durissimi scontri che sono alle porte.

Convocate dopo la giornata di sangue del 26 giugno 2002 e celebrate poco dopo lo sgombero violento degli operai Bruckman dalla fabbrica da essi occupata, le elezioni hanno avuto un’esito a prima vista paradossale e sconcertante.

Al contrario delle attese e degli auspici di molti nel "campo popolare" (una voce per tutti, quella delle Madres, che avevano previsto un astensionismo di massa) la partecipazione è stata elevata. Certo, una partecipazione stanca, disincantata, nella quale dell’80% che si è presentato alle urne ben il 63% ha votato per i tre candidati presentati dalle fazioni peroniste. E il più gettonato di tutti è risultato quel Carlos Menem, dichiaratamente schierato su una linea ultraliberista e per il ripristino dell’ordine e della legalità nel paese, fino all’utilizzo dell’esercito "per porre fine al tempo dei delinquenti e dei piqueteros". Un tema, questo dell’"ordine e legalità", cioè di come abbattere la resistenza di classe, messo così al centro della trappola elettorale che persino la candidata "progressista", la cattolica Alicia Carriò (16% dei voti), si è dichiarata a favore del "pugno di ferro contro i piqueteros e per mettere un freno alle mediazioni sui piani sociali". Ed è questo il vero nodo dell’Argentinazo il cui scioglimento né per l’ordine costituito borghese né per il proletariato può "essere messo ai voti", ma sarà deciso coi mezzi tutt’altro che democratici della guerra di classe.

Alla fine della giostra elettorale il vincitore è stato il secondo eletto, Nestor Kirchner, sul quale si apprestavano a confluire i voti della sinistra e dei progressisti prima che la fazione Menem decidesse di ritirarsi dal ballottaggio. Il suo programma è quello di Duhalde: tentativo di rilancio e protezione dell’industria nazionale, "dialogo sociale" con la parte moderata dei movimenti di lotta, uso "mirato" e non sistematico, finora, della repressione. Ma lo sconfitto Menem e, ciò che conta davvero, i capitalisti argentini e i grandi poteri finanziari internazionali che hanno in pugno l’Argentina già chiedono al nuovo presidente di fare "finalmente" fino in fondo lo sporco lavoro cui è prioritariamente chiamato il nuovo "legittimo" governo: chiudere la partita con la resistenza popolare e con l’insubordinazione sociale, impartendo una lezione agli sfruttati che hanno osato levarsi contro i delinquenti, quelli veri!, della borghesia argentina, e contro i banditi dell’Fmi, delle banche e delle borse occidentali.

Una débâcle elettorale su cui riflettere

Dall’altra parte della barricata, il "campo popolare", dei movimenti di lotta e delle organizzazioni della "sinistra radicale" che hanno chiamato all’astensione o all’annullamento delle schede, oppure hanno presentato candidati di "autentico cambiamento" come nel caso di Izquierda Unida e del Partido Obrero, ha subito un’autentica débâcle elettorale. Percentuali irrisorie per i candidati di Iu e Po, mentre le astensioni e le schede di protesta sono rimaste ad un livello fisiologico. Una débâcle alla quale, sciaguratamente, la parte maggioritaria del movimento si appresta a rispondere utilizzando le mobilitazioni e il proprio radicamento sociale come "forza di condizionamento" del nuovo governo Kirchner: allo scopo di "spostare in favore del popolo" e di evitare "che scivoli a destra" verso il menemismo quel nuovo governo cui i poteri reali, quelli che "votano tutti i giorni" senza bisogno di votare, hanno già assegnato la funzione del boja.

Una parte minoritaria, la più radicale e non concertativa dei movimenti di lotta, invece, appare pronta ad affrontare e denunciare il nuovo governo, ma sembra non aver compreso quali sono, oggi, i reali rapporti di forza tra le classi, e quali i compiti prioritari per capovolgerli a nostro vantaggio. Sì che si mostra incline ad avventurarsi in azioni minoritarie in campo generale e nel proprio stesso campo diretto di influenza; un "avventurismo" a cui si accompagna il solito minimalismo che mette al centro delle proprie preoccupazioni e azioni di lotta una data situazione "locale" o "particolare". In realtà, l’episodio elettorale fotografa e riflette un già avvenuto mutamento dei rapporti forza nella guerra di classe in atto, e chiama ad affrontare con decisione i temi della riunificazione rivoluzionaria del fronte di classe, oggi disperso e frammentato più di un anno fa, e dell’organizzazione di partito a ciò necessaria.

I fatti dicono che la borghesia argentina è debole e divisa, ma ancora ben in grado di difendere il suo potere. E che il proletariato argentino, affamato e sospinto oggettivamente alla lotta, è ancor più diviso della sua stessa borghesia, restando in una sua larga parte ancora avvinto nelle gabbie dei sindacati di regime, ancora ideologicamente prigioniero del ruolo e della funzione "nazionale e patriottica" cui il peronismo lo chiama, ancora privo di una sua propria organizzazione indipendente politica, autentica e riconosciuta dalla massa degli sfruttati. Ma con questi indubitabili fatti non si vuol o non si sa fare i conti fino in fondo.

Nel "campo popolare", inoltre, sia l’ala moderata che quella radicale (con rarissime eccezioni in quest’ultima) avevano denunciato il carattere di "truffa" delle elezioni, non solo e non tanto perché servivano a distogliere e deviare le lotte dal loro terreno reale mistificando la questione del potere posta dall’Argentinazo, quanto perché esse hanno riguardato soltanto l’elezione del presidente e di alcuni organi dello stato, non sono state cioè consultazioni elettorali generali tali da permettere un autentico ricambio della classe dirigente. Sicché ora, per tutti o quasi, è pronta la contestazione a Kirchner sul terreno fasullo e disarmante di "una vera democrazia" che questi violerebbe, pretendendo di governare col 20% dei voti... Figurarsi!

Il quadro che queste elezioni riflettono è quello di un potere borghese che addirittura senza riciclarsi più di tanto, è riuscito a cavalcare la tigre dei movimenti di lotta, a ridarsi una certa "legittimità popolare" in vista degli scontri di classe decisivi che si approssimano. Il grido ribelle "Que se vayan todos!" echeggiato in migliaia di lotte appare, nel segreto delle urne, essersi eclissato. Nessun borghese, nessun potere forte se n’è andato. Anzi, sfrontatamente ladri e assassini mostrano minacciosi i denti. Per paradosso (ma è la norma nel gioco truccato, una testa un voto, della democrazia borghese, dice bene un graffito dei compagni argentini di area anarchica: "Se le elezioni potessero cambiare qualcosa, sarebbero illegali") è una larga parte degli oppressi stessi "a scegliere", "a votare liberamente" per i propri affamatori.

Non dovremmo stupircene noi qui in Italia ed in Europa dove, per restare alla stretta attualità, gli schiavi salariati son chiamati a "scegliere liberamente" fra le margherite pro-capitaliste e i cavalieri miliardari, fra gli Chirac e i Le Pen, e via dicendo. Tuttavia, la cosa può risultare sconcertante e addirittura inspiegabile in un paese in cui il proletariato ha a che fare con problemi di stomaco vuoto, una larga fetta di piccola borghesia ha avuto le tasche svuotate ed in cui una serie di vigorose e dure lotte di classe hanno avuto ed hanno tuttora corso.

Fronte unico e partito: due nodi ineludibili

Per noi che ci sforziamo di tenerci ancorati al metodo marxista, non è un fatto inspiegabile la fotografia sfuocata e "balorda" che l’esito elettorale ci dà dello scontro di classe in atto. Tutta la storia del movimento di classe insegna che non c’è alcun automatismo fra crisi capitalistica-organizzazione di classe-lotta rivoluzionaria cosciente per il socialismo. Le esperienze delle lotte, sia sul piano nazionale che internazionale, devono potere e sapere intrecciarsi e fecondare una organizzazione politica indipendente del proletariato, un partito di classe, senza il quale nessuna spontaneità di lotta proletaria, per quanto ampia e vigorosa -si pensi alle battaglie rivoluzionarie tedesche del primo dopoguerra-, può vincere il potere concentrato della borghesia e dell’imperialismo.

In Argentina l’esito della tornata elettorale non significa affatto la fine del movimento uscito dall’Argentinazo. Esso ha sancito un punto a favore della borghesia, ma si tratta di un punto che questa aveva conquistato sul campo ben prima della "competizione" del 27 aprile. Come e dove una tale conquista, ed il rispettivo nostro arretramento? Dobbiamo richiamare quanto scritto nei numeri precedenti del che fare.

Ricordiamo in primo luogo che nessuno sciopero generale ha potuto darsi contro il governo affamatore di Duhalde (mentre tutto il 2001, prima dei moti del dicembre, era stato segnato da una serie di mobilitazioni nazionali). Gli apparati delle Cgt, i due sindacati maggioritari di matrice peronista, sono riusciti a tenere sotto controllo la parte decisiva della classe operaia ancora attiva. Le straordinarie esperienze di occupazione e "controllo operaio" quali le lotte dei lavoratori Zanon e Bruckman, sono rimaste appunto straordinarie. Nella grande maggioranza dei casi le occupazioni di fabbriche (oltre 200) avvengono sotto forma di cooperative, spesso sotto il controllo delle burocrazie sindacali e della chiesa; le quali istituzioni badano bene a che la legalità capitalistica non venga violata, prevenendo il diffondersi di lotte più radicali e dirette da parte degli operai.

Sul fronte dei disoccupati, il governo Duhalde è riuscito ad estendere i sussidi, seppur riducendoli, attraverso i meccanismi di svalutazione ed inflazione, alla miserabile soglia di 50 $ al mese, gestendo la stragrande maggioranza degli stessi (quasi 2 milioni) attraverso gli apparati peronisti. Le organizzazioni dei piqueteros controllano circa 150.000 piani di sussidio, ed al loro interno sono maggioritarie forze come la Cta e la Ccc che hanno accettato la negoziazione e il dialogo col governo. La parte più radicale dei piqueteros, legata all’estrema sinistra, ha sì denunciato la collaborazione con il governo delle direzioni dei movimenti di lotta moderati, ma non è stata finora in grado di lanciare un reale lavoro fronteunitario verso la massa dei disoccupati; così come non è riuscita a farlo, ed in molti casi non si è neppure proposta di farlo, verso la massa degli operai attivi.

La piccola borghesia derubata, protagonista dei cacelorazos e delle assemblee popolari nei barrios, ha dovuto rassegnarsi alla perdita secca fino al 50% dei propri risparmi in cambio della fine del corralito (meglio salvare il 50% che niente!) ritraendosi in buona parte dalla lotta attiva, non essendo stato in grado il movimento di classe di disegnare per essa una reale alternativa.

In tutti i mesi passati dalla data-simbolo del 26 giugno 2002, le avanguardie di lotta ed i militanti di classe si sono molto spesso letteralmente impantanati in dispute ed in disfide fra gruppi e gruppetti per una conquista "dell’egemonia" giocata in termini meramente "burocratici" e "particolaristici". Senza che si sia stabilmente costituito alcun coordinamento fra i movimenti di lotta; senza che sia stata messa in cantiere alcuna seria azione verso la massa proletaria "arretrata"; senza che fosse seriamente denunciata e combattuta all’interno degli stessi movimenti di lotta l’infezione della collaborazione di classe e della subordinazione degli interessi proletari a quelli della Patria; senza che alcuna azione sistematica venisse svolta per collegare la lotta in Argentina al grande risveglio in atto, se non altro, nell’America Latina, per non dire del restante mondo.

Vi è stato (ci riferiamo ad un movimento fra i più combattivi ed avanzati come il coordinamento Anibal Veron) una sorta di ritrarsi su se stessi, volendo "difendere e creare contropotere dal basso" ma estraniandosi dalla battaglia politica aperta al potere concentrato dello stato borghese, con una rinuncia di fatto, del tutto suicìda, alla demolizione dell’attuale stato, nonostante l’instancabile denuncia del terrorismo di stato, e dall’altro lato con la rinuncia, non meno suicìda, alla creazione di un nuovo potere di classe.

Di tutta questa impasse, di tutti questi limiti ed errori i compagni argentini, così come tutti noi, devono saper trarre le dovute lezioni, per uscire dallo smarrimento e scoraggiamento che la trappola elettorale sta provocando nelle loro fila.

Nessuna pietra tombale è stata messa sulla lotta rivoluzionaria né in Argentina né altrove. Il vulcano non è spento, tutt’altro. Nuovi, durissimi scontri sono alle porte. "Gli inviati del Fmi sono in questi giorni in Argentina e hanno già comunicato a Kirchner che il suo governo dovrà pagare nel secondo semestre di quest’anno 6.500 milioni di dollari di scadenze. Pagare detta somma significa niente meno che distrarre un terzo delle spese dello stato in un anno. Non ci vuole molta perspicacia per sapere da dove proverranno queste risorse." (il manifesto-Alias, 27 maggio). Quando anche le masse oggi "arretrate", avvilite e soggiogate dalle imboniture della democrazia borghese, dovranno rompere gli indugi e le maglie del controllo sociale sospinte dalla miseria e dal bisogno, dovranno trovare sul campo una salda avanguardia di classe. Ecco perché il lavoro per il partito della rivoluzione, che con tanta -possiamo dirlo?- arroganza e irresponsabilità, a volte, viene respinto dagli stessi valorosi compagni argentini, è oggi più che mai urgente e necessario. Se si continuerà ad eludere questo nodo e quello, ad esso dialetticamente collegato, del fronte unico di classe, le debolezze del movimento di lotta argentino ne verranno moltiplicate.