A quelli che sono scesi

in piazza,

e non vogliono

tornare a casa.

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Caro Riccardo (Barenghi), non sono assolutamente d’accordo con te.

 

Il primo dei punti deboli del "movimento" è stata la sua scarsa chiarezza sulle ragioni profonde della guerra all’Iraq, la sottovalutazione della sua necessità, sia per gli Stati Uniti che per il capitalismo globalizzato nel suo insieme. Ed una tale sottovalutazione ha portato con sé l’illusione, o per lo meno l’attesa, che potesse bastare una sorta di maxi-referendum di piazza contro la guerra (tenutosi, e "vinto", il 15 febbraio) per fermarla.

Certo, in tanti hanno espresso un netto rifiuto della guerra all’Iraq dicendo: la guerra è brutta. Fin troppo ovvio, per noi (anche se non per tutti: per gli alfieri del capitalismo, infatti, essa continua a essere "la sola igiene del mondo"… dei profitti). Ma il punto essenziale da chiarire, rimasto invece alquanto oscuro, è: dove nasce questa bruttura? dove affonda le sue radici? e come si può riuscire a sradicarla?

La risposta più diffusa nel "movimento" ha puntato in una precisa direzione: gli Usa, anzi, spesso, un dato gruppo di potere negli Usa, i "petrolieri texani" o giù di lì (1). E vi è chi aggiunge altri protagonisti "di settore", le aziende belliche, ad esempio, o individuali: i Blair, i Berlusconi, od altro ancora. Per questo il grido più frequente nelle piazze è stato: "No alla guerra per il petrolio", "No alla guerra di Bush". D’accordo. Si è trattato in primo luogo (non solo!) di una guerra per il petrolio e di una guerra voluta dagli Stati Uniti. Ma una guerra del genere non è un accidente dal quale le grandi potenze capitalistiche si possano tirare indietro. Questa è soltanto l’ennesima guerra per il petrolio. Si combatte per il petrolio da più di un secolo, da molto, molto prima che nascessero la "dinastia" Bush, il cavaliere nero e quant’altri criminali a noi coevi. E a combattere sono, l’un contro l’altra armate e tutte insieme armate contro i popoli terzi e contro i "propri" lavoratori, le massime potenze capitaliste del mondo. La prima e la seconda guerra mondiale sono state fatte anche per decidere a chi dovesse appartenere il petrolio mondiale. Né si è trattatto o si tratta solo del petrolio. La guerra civile in Cile non fu scatenata per il suo rame? Stati Uniti, Francia, Belgio, etc. etc. non insanguinano da decenni la regione del Congo ed il Ruanda per accaparrarsi i loro favolosi metalli preziosi? La Jugoslavia e l’Albania non sono state distrutte -con il concorso determinante dei "nostri" bravi Prodi, D’Alema, Cofferati&C.- anche per depredarne le risorse minerarie, agricole ed umane? E le guerre più o meno striscianti nel Chiapas o in Colombia non hanno forse il medesimo contenuto?

La catena di guerre che ci aspettano e che si è aperta con la prima aggressione all’Iraq (1991) non è questione di singoli stati, di singoli gruppi di potere o di singoli governanti particolarmente "brutali", "fondamentalisti" o "folli". Il fatto di cui prendere atto è che la rapina generalizzata del mondo "non civile" (così si chiamava un tempo il mondo "arretrato") da parte dei paesi ricchi, civili e democratici è la regola. Che si afferma o con i mezzi militari (Iraq, Jugoslavia…), o per via "pacifica" (vedi il depredamento di tre quarti del globo per mano di FMI, Banca mondiale, WTO, etc.). E in entrambi i casi si esprime la stessa sostanza di violenza: si può benissimo morire, e si muore infatti a frotte!, sotto le "pacifiche" bombe dell’affamamento, degli embarghi, delle carestie e delle epidemie indotte, della distruzione degli eco-sistemi e delle strutture sanitarie, etc. Ciascuna di queste brutture trova una qualche forma di denunzia all’interno dei "movimenti"; il problema, però, è arrivare a coglierne senza ulteriori esitazioni e sviamenti l’unitarietà.

Se tu che sei sceso in piazza vuoi davvero che non vi siano più "guerre per il petrolio" e consimili, non puoi esimerti dal comprendere che stai andando ad urtare, al di là del gruppo dei fisici banditi che sta davanti ai tuoi occhi e che come noi detesti, contro un meccanismo impersonale che collega e salda tra loro tutte queste forme di oppressione e di sfruttamento: l’imperialismo. E se vuoi davvero quel che dici di volere, lo devi combattere coerentemente.

Imperialismo: è questa la categoria-chiave.

Imperialismo: è questa la categoria-chiave dell’analisi del mondo presente perché lo è della realtà dell’economia e della politica internazionale. E se questo nodo dell’imperialismo non viene reciso, non può esserci pace vera. Può esserci e ci sarà solo una guerra in permanenza, quali che ne siano le (provvisorie) modalità. Del resto, i capi della massima potenza parlano apertamente di guerra infinita e di quarta guerra mondiale (2), e sarebbe il caso di prenderli sul serio.

A quelli che sono scesi in piazza,

e non vogliono tornare a casa.

La minaccia di una nuova guerra contro l’Iraq ha visto, in ogni parte del mondo, una serie di "movimenti" manifestare preventivamente la propria contrarietà all’aggressione, per tentare di fermarla e di spostare l’asse della politica internazionale dal linguaggio della guerra a quello, in un modo o nell’altro, della pace.

Questi "movimenti" -lo diciamo con amarezza- non sono riusciti a conseguire gli obiettivi che si erano prefissi. Non sono riusciti né a impedire lo scoppio della guerra né a rispondere efficacemente ad essa nel suo corso. E in questo "dopo-guerra", che tutto è salvo una vera pace, non sanno proporsi come valida alternativa ai piani di Bush&C. Anzi: proprio ora, quando l’Iraq è invaso da legioni di faccendieri-avvoltoi, marines, soldati, etc. anche italiani -se non ci sbagliamo-, il "movimento" sembra sparito, come se non ci fosse più niente contro cui e per cui battersi.

Su questo occorre ragionare in modo sereno. Non certo per celebrare un funerale, ma al contrario per prepararci in modo adeguato a ciò che verrà. Siamo infatti solo alle prime puntate del serial (dal vivo, purtroppo!) "la guerra infinita"; se vogliamo che le successive finiscano in modo diverso da quella sull’Iraq, dobbiamo mettere in campo qualcosa di più e di meglio di quanto abbiamo fatto finora, soprattutto per quello che riguarda le prospettive della lotta contro la guerra e la sua organizzazione.

Noi ne discutiamo qui, in questo articolo e in questo numero, da comunisti. Che sono stati dentro il "movimento" e intendono restarvi, ad onta di chi vorrebbe rappresentarci estranei ad esso, ma che non hanno esitato, anche quando si era al top delle mobilitazioni, a dichiararne i punti deboli per tentare di dare ad essi una risposta concreta in avanti.

"I comunisti disdegnano di nascondere i propri scopi, il proprio programma" (Marx). Per questo conosciamo un solo modo per mostrare agli interlocutori a cui ci rivolgiamo, e cioè alla grande massa della gente contraria alla logica della guerra e non disposta a omologarsi, il nostro "rispetto", la nostra capacità di "ragionare (ed agire) insieme": dire la verità. La nostra verità, si capisce. Che non è però una Verità di Fede, bensì un insieme di considerazioni che traducono in chiave teorica una lunga serie di esperienze vive che riguardano il "movimento antagonista", e su cui chiamiamo a ragionare e discutere tutto il campo di quanti aspirano ad un mondo completamente nuovo.

Nel quadro dell’imperialismo (che è poi ciò a cui si allude con il termine globalizzazione o, meglio, capitalismo globalizzato) la guerra non è uno strano incidente, un’anomalia, qualcosa che potrebbe esserci o non esserci, un errore dovuto al cattivo "carattere" o alla speciale "arretratezza" di tizio o di caio (3). È un prodotto di serie necessario sia sotto forma di guerra generale, sia sotto forma di guerre "locali" (ve ne sono state decine dalla "grande pace" di Jalta, con decine di milioni di morti che però, essendo di colore, non contano nulla, per cui si parla tranquillamente dell’"era" dal 1945 ad oggi come di un’"era di pace", uno dei tanti insulti ai popoli oppressi).

La guerra è nel dna dell’imperialismo, come lo è l’espropriazione e la rapina che ne costituisce il contenuto materiale. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole, sempre più malato, del capitalismo. Esso si è fatto le ossa aggredendo ed espropriando gli indios, i neri, gli asiatici, i nativi americani da un lato, e privando dall’altro con altrettanta violenza, economica ed extra-economica, i contadini e gli artigiani "bianchi" dei loro mezzi di sussistenza per farne delle braccia nullatenenti da assoldare a buon mercato. Nel contesto attuale di un capitalismo pienamente mondializzato, questo delizioso processo originario si ripete ingigantito e approfondito. Le multinazionali, cioè le imprese-giganti, lottano a coltello tra loro per il controllo del mercato mondiale, e così gli stati imperialisti. Non sarà mai troppo presto quando si comprenderà che le prime due guerre mondiali non sono state guerre tra opposti campi politici, stati democratici contro "imperi centrali" o democrazie contro nazi-fascismo, bensì guerre tra opposti campi capitalistici in mortale contesa tra di loro per la spartizione del mondo (sia dei paesi dominati, che degli stessi paesi dell’Occidente). Dunque guerre imperialistiche. Nelle quali, a differenza che nelle guerre "tipo" quella all’Iraq, non ha alcun senso parlare di aggressore e di aggredito, e stabilire preferenze. Giustamente repellente, per i proletari, il nazi-fascismo, ma fu davvero criminale da parte dei capi stalinisti (e un madornale auto-inganno da parte delle masse stalinizzate) "dimenticare" che le democrazie vincitrici sfruttavano, con metodi che nulla avevano da invidiare a quelli nazi-fascisti, una massa di proletari e semi-proletari delle colonie e delle semi-colonie immensamente maggiore di quella che il nazi-fascismo (in questo senso sfruttatore di secondo rango) aveva la possibilità di torchiare.

Dunque, la guerra di aggressione di questo 2003 contro l’Iraq non è una novità di oggi, priva di precedenti in anni passati; è, per contro, la naturale prosecuzione di un cammino venuto in evidenza fin dalla prima guerra mondiale, il cammino di un preciso soggetto: l’imperialismo capitalista. Questo dato teorico e pratico non può essere aggirato o eluso, pena l’inefficacia nell’azione anti-guerra, o molto peggio: l’arruolamento, magari "inconsapevole" (nel caso degli ingenui veri), dietro le bandiere dei governi che sanno e possono (o debbono, per la loro debolezza: leggi oggi Francia e Germania) più abilmente blandire i sentimenti pro-pace delle masse. È su questo che in particolare i più giovani sono chiamati a riflettere, anche se può essere loro di qualche fastidio il richiamo al passato. Una ferrea catena lega quello che accade oggi al passato e al futuro nostro e del nostro nemico, il capitalismo, e va ad essa ricollegato. E un "movimento" che non sapesse riconnettersi al proprio passato e non fosse in grado, su questa base, di prospettarsi un futuro, sarebbe condannato, nel migliore dei casi, all’inerzia. Poiché senza storia, senza passato, non c’è né presente né futuro.

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Note

(1) Soprattutto nell’area di matrice cattolica del movimento no war è presente anche un’altra spiegazione, in parte "alternativa": la guerra è radicata nella nostra coscienza e per cacciarla dalla storia, dobbiamo cacciarla dalla nostra coscienza, cambiare, riformare noi stessi, nel nostro "foro interno", in senso pacifista. A noi, però, non sembra proprio che nella guerra all’Iraq si sia trattato di uno scontro tra "coscienze": abbiamo visto in azione portaerei, missili, bombardieri, colonne corazzate, diplomazie, azioni armate di resistenza, ed a questa realtà ci atteniamo. Che si debba, invece, prender coscienza, e a fondo, di quanto noi occidentali "tutti" si parassiti, in diversa misura, sulla pelle del Terzo Mondo, altro tema molto caro a certi ambienti cristiani, questo ci trova pienamente d’accordo, salvo l’idea ingenua che si possa far crollare questa macchina di oppressione secolare sui continenti di colore riducendo o cambiando, individualmente o a piccoli gruppi, i nostri "consumi".

(2) L’ha fatto, ad esempio, J. Woolsey, che era a capo della Cia ai tempi della prima amministrazione Clinton e che Bush ha candidato a un "ruolo di primo piano nella ricostruzione dell’Iraq" (l’Unità, 4 aprile).

(3) È questa la "spiegazione" esilarante fornita da Toni Negri della guerra all’Iraq: Bush e soci non si sarebbero accorti, da testoni che non sono altro, che il tempo dell’imperialismo è finito, e con esso il tempo delle guerre, mentre si è dischiusa per sempre l’era dell’impero buono e pacifico. Chissà che con qualche "buona" lettura di aggiornamento essi cambino idea!

 

2. Quale alternativa alla guerra?

Il secondo punto debole del movimento è stato costituito dall’assenza di una chiara alternativa strategica da contrapporre alla prospettiva della "guerra infinita" ovvero dall’adozione, esplicita o implicita, di una "alternativa" -l’Europa- che, a date condizioni, al momento difficili da realizzare, alternativa agli Stati Uniti può esserlo davvero, ma solo ed esclusivamente sul terreno della "pace" e della guerra imperialiste.

Ci si può obiettare: il movimento contro la guerra una sua ipotesi generale l’ha prospettata: quella della pace. Vero: una genuina aspirazione alla pace ha attraversato tutta intera la grande massa dei manifestanti delle piazze occidentali. Il punto è che tale aspirazione alla pace non era e non è sufficiente a definire una strategia ed una politica per la conquista di una vera pace tra i popoli di tutto il mondo, di cui, al momento, non si vede neanche la più pallida ombra. E questa insufficienza è stata la porta spalancata attraverso cui sono entrate ed hanno potuto imperversare nel movimento "ipotesi" di alternativa alla politica dei Bush, dei Blair e dei Berlusconi che tutto sono fuorché politiche di pace nel senso vero del termine, ossia di un rapporto di scambio e cooperazione tra popoli liberi ed eguali.

Semplificando un po’, si può dire che le ipotesi "pacifiste" di cui sopra si sian ridotte a due: il riferimento all’Onu e quello all’Europa come ai due soggetti "forti" che potrebbero fare da assi di una politica di freno, se non altro, della deriva bellicista concepita come un’esclusiva americana.

Va detto subito che il riferimento all’Onu è risultato nei fatti, rispetto a un decennio fa, depotenziato. Soprattutto perché si è cominciato a comprendere il ruolo effettivo svolto dall’Onu nella prima guerra all’Iraq, nei dodici anni di embargo assassino e poi nel disarmo preventivo dell’Iraq prima della nuova aggressione Usa: a cos’altro son servite le ispezioni se non ad assicurare che le perdite statunitensi fossero le minime possibili e, viceversa, che gli iracheni fossero il più esposti possibile ai colpi degli eserciti aggressori? Ai settori più vivi del "movimento" questo ruolo è risultato inaccettabile, o almeno difficile da deglutire. Pochi, troppo pochi si sono spinti però oltre l’elementare presa d’atto che l’Onu ha avuto e ha una parte di primo piano nello strangolamento del popolo iracheno per domandarsi se per caso una parte identica l’Onu non l’abbia avuta in generale, lungo tutto l’arco della sua storia, in quanto docile strumento delle massime potenze capitalistiche, contro la massa dei paesi dominati o controllati da esse. E tuttavia è aleggiato più di un dubbio -è già qualcosa, benché sia totalmente insufficiente!- sulla possibilità di assegnare all’Onu la guida del "fronte" anti-guerra.

A tale funzione si è candidato oggettivamente e soggettivamente, in questa circostanza, il duo Francia-Germania, opponendo al piano di guerra statunitense un proprio piano di occupazione e di sfruttamento dell’Iraq per via "pacifica". E il movimento, bisogna dirlo, non si è affatto smarcato da esso, e tanto meno vi si è contrapposto. Si è "limitato" a chiedere e chiedersi: "Perché l’Europa non prende le distanze fino in fondo dagli Usa? Perché l’Europa non prende decisioni che guardino direttamente al Sud del mondo?"

Le ragioni del "pacifismo" di alcune potenze europee

Ecco il punto: perché l’Europa non prende decisioni, anche di modesto rilievo, a favore dei popoli del Sud del mondo? Per la semplicissima ragione, se ci è consentito andare per le spicce, che vive del loro sangue da secoli. Il suo (dell’Europa) grado di ricchezza e di potenza è fondato direttamente sulla spoliazione e l’asservimento del Sud del mondo. Ideologia, la nostra? E allora ci si spieghi con precisi e incontrovertibili elementi di fatto in cosa la penalizzata Chevron si differenzia dalle vincitrici Exxon e Shell; in cosa la Deutsche Bank si differenzia, nel rapporto con i paesi terzi indebitati, dalla Morgan Stanley; in cosa il neo-colonialismo francese (all’opera attivamente, senza alcunissimo bisogno dei solleciti di Agnoletto e Magri a "guardare al Sud del mondo", in Congo, a Gibuti, in Algeria, in Libano, in Costa d’Avorio, etc.) si differenzi dal neo-colonialismo yankee; in che cosa le politiche discriminatorie e razziste dell’Europa contro gli immigrati, di cui la Bossi-Fini è sempre più il modello, si demarchino da quelle statunitensi (che semmai, in qualche caso, risultano più liberal); in cosa gli intrighi omicidi dei servizi segreti italiani e tedeschi nella ex-Jugoslavia si differenzino da quelli targati Cia; in cosa l’eventuale, forte esercito europeo si differenzierebbe da quello statunitense.

Si può prendere a test di questa inesistente "diversità" europea il caso-Argentina (ma di esempi ce ne potrebbero essere altri cento) e il ruolo che vi hanno svolto le imprese europee e italiane.

Comprendiamo che ai suoi primi e contraddittorii passi, il "movimento" -parliamo qui della sua massa, non dei suoi "capi"- abbia reagito alla manifesta aggressività statunitense condannandola; e che l’abbia sentita come un’aggressione rivolta non solo contro l’Iraq ma anche contro l’Europa, e diciamo pure: contro le stesse genti dell’Europa. Così è, nel senso che la contesa inter-imperialistica comporta di necessità una permanente aggressione -reciproca, però- tra i contendenti, nella quale gli stati contendenti debbono fare di tutto per coinvolgere, come carne da macello e contro sé stessi, i rispettivi "popoli". I fatti passati e quelli presenti, e noi marxisti ci atteniamo rigorosamente al terreno dei fatti, dicono che la contesa tra gli Stati Uniti e gli stati, più o meno disuniti, dell’Europa non è uno scontro tra un imperialismo "aggressivo" e un imperialismo (o come altro vogliamo chiamarlo?) "pacifista"; è uno scontro tra potenze parimenti aggressive -sebbene dall’impari potenziale- con un obiettivo comune: la spartizione imperialistica del mondo sulle spalle dei popoli e degli stati dominati e controllati. Se una parte dell’Europa si è "opposta" ai piani di guerra Usa è solo perché ne sarebbe risultata penalizzata nei suoi interessi di rapina. Al momento più efficacemente tutelati attraverso la guerra chiamata pace fatta di embargo, ricatti economici, trame diplomatiche...

Né Onu né Europa, dunque, ma la prospettiva di una lotta generale all’imperialismo come tale, per distruggere il suo "ordine" di oppressione e aprire la strada al socialismo internazionale. È questa, per noi, la sola via d’uscita dall’impasse del presente e dagli orrori che esso fucina, e lo dichiariamo apertamente, anche se sappiamo quanto questo obiettivo sia oggi "lontano" dallo stato di coscienza non solo della massa dei manifestanti no war ma dello stesso proletariato. Per lungo e complicato che sia il cammino, altra via d’uscita che non sia illusoria non c’è.

E tu, compagno o fratello, se così vuoi esser chiamato, che sei sceso in campo contro la guerra, sei a favore o contro questo gigantesco riarmo europeo ormai sulla rampa di lancio, che dovrebbe fare dell’Europa un gigante della dominazione imperialista alla scala mondiale?

Ecco una questione bruciante che non può essere elusa, e su cui non si è sentita finora neanche una parola chiara in senso di classe e internazionalista, il solo che sia coerentemente anti-militarista. A quando la rottura del silenzio?

La questione, cruciale, è stata affrontata e posta già da Lenin nel corso della prima guerra mondiale con una chiarezza esemplare:

"Lo stato d’animo delle masse a favore della pace esprime spesso un principio di protesta, di indignazione e di coscienza del carattere reazionario della guerra [è, grosso modo, la situazione dei mesi scorsi con larghi settori di massa "istintivamente" contrari alla guerra –n.]. Sfruttare questo stato d’animo è dovere di tutti i socialdemocratici (1). Essi prenderanno parte vivissima a tutti i movimenti e a tutte le dimostrazioni su questo terreno, ma non inganneranno il popolo ammettendo che senza un movimento rivoluzionario sia possibile una pace senza annessioni, senza oppressione di nazioni, senza rapina, senza germi di nuove guerre tra i governi attuali, fra le classi attualmente dominanti. Un simile inganno al popolo favorirebbe la diplomazia segreta dei governi belligeranti ed i loro piani controrivoluzionari. Chi vuole la pace democratica e duratura deve essere per la guerra civile contro i governi e contro la borghesia." (Il socialismo e la guerra, 1915).

Può dispiacere il termine "sfruttare", se è preso come una manovra esterna, e per fini distinti o opposti, rispetto a quelli del "movimento". Ma significa, invece, soltanto che i comunisti si sforzano di mettere a frutto, in pieno, il potenziale di un movimento che già esprime un principio di lotta vera contro la macchina bellica ed a cui essi vivissimamente partecipano, con l’indicargli gli ineludibili passi ulteriori da compiere. A cominciare da un chiarimento essenziale su di una questione solo apparentemente scontata: che tipo di pace si vuole? Una "pace" del tipo di quella 1991-2002 per l’Iraq, targata Onu (dunque anche Europa), con la semi-annessione all’Occidente delle fasce nord e sud del paese, l’oppressione della nazione irachena, il genocidio dei suoi bambini via embargo, la rapina del suo petrolio, il germe di nuove guerre, etc.: è questa la rivoltante "pace" che si vuole? Sappiamo che per molti la pace invocata non è questa, ma è piuttosto una "pace democratica e duratura", fondata sulla "autodecisione dei popoli" e -aggiungono alcuni- su un "nuovo rapporto eguale tra Nord e Sud del mondo". Ebbene, se è questa la pace che si vuole, bisogna sapere che ci si arriverà solo attraverso una lotta a fondo contro il sistema capitalistico ("la guerra civile contro i governi e contro la borghesia"), solo attraverso la rivoluzione internazionale di classe.

Noi non diciamo che l’alternativa immediata è quella della rivoluzione, né chiediamo di schierarvi ora, anticipatamente, per essa. Chiediamo, questo sì, per essere in coerenza con le vostre stesse aspirazioni, di schierarvi in modo inequivoco contro il senso generale della politica che si sta facendo verso l’Iraq e verso i popoli dominati sia da parte degli Stati Uniti che da parte degli stati europei. Chiediamo di respingere tanto la politica "pro-Usa" (fino ad un certo punto) di Berlusconi, quanto quella "pro-Europa" (fino ad un certo punto) di Ulivo e dintorni perché entrambe contrarie ai bisogni dei proletari e dei popoli e contrarie ad una prospettiva di vera pace. E vi chiediamo di intraprendere un cammino di lotta e di organizzazione che sappia contrapporre al programma generale di guerra e di sfruttamento proprio, in modi diversi, di tutte le potenze imperialiste e di tutte le forze pro-imperialiste, un programma generale volto ad estirpare le cause dei conflitti bellici e delle mostruose diseguaglianze che affliggono il mondo presente. Se così non sarà, è facile prevedere che tre, dieci o fossero anche 110 milioni di persone in piazza non riusciranno ad incidere sul corso della politica mondiale.

3. Fare senza l’organizzazione?

Il "movimento" contro la guerra all’Iraq ha mostrato, lo hanno osservato in molti, una particolare riluttanza all’organizzazione. L’"idea" fondamentale che lo ha percorso è all’incirca questa: siamo tanti, siamo diversi, dobbiamo stare molto attenti ai discorsi "escludenti", perché la cosa essenziale è manifestare insieme il comune e più largo rifiuto della guerra. Questo sta al di sopra di tutto, e se il movimento manterrà il suo carattere "aperto", se la sbrigherà al meglio. Nessun bisogno, perciò, di una forma specifica di organizzazione, al di là delle auto-convocazioni per le grandi manifestazioni, perché ogni forma di organizzazione sarebbe un’auto-costrizione delle potenzialità del "movimento".

È davvero così? È andata davvero così? Non ci sembra proprio.

Per intanto cominciamo con il dire che questa lode apparentemente incondizionata della "diversità" si è subito arrestata dinanzi a quello che, con un linguaggio per noi fastidioso, si è soliti chiamare "il diverso" per eccellenza: cioè l’immigrato. Roma, 15 febbraio: tutti uniti, tutti insieme (abbiam visto applauditi anche quelli che bombardarono la Jugoslavia o ne giustificarono la duratura distruzione come "contingente necessità"…), ma niente bandiere irachene! Come, al tempo della guerra alla Jugo, alcuni lanzichenecchi dell’Ulivo aggredirono i manifestanti jugoslavi con le loro bandiere. Almeno in Italia, benché non sia stato così ovunque, il "clima" generale del "movimento" è stato tale da tenere lontane le popolazioni immigrate, ed in particolare quelle dei paesi arabi ed islamici. Perciò, si potrebbe dire, viva la diversità purché non si sia troppo diversi. Ma anche prescindendo da questa piccola-grande ipocrisia, la debolezza di fondo di una simile posizione sta nel fatto che dall’altra parte avevamo di fronte, come avversario (come nemico di classe), qualcosa di molto più complesso e strutturato di un "movimento". Avevamo di fronte un’organizzazione politica, economica, diplomatica, propagandistica, militare, estremamente forte, centralizzata e ramificata in un insieme di organizzazioni a loro volta protese tutte a creare dei movimenti di opinione a sé favorevoli anche dentro le fila del movimento no war, sia nel caso del fronte di guerra a guida anglo-americana, sia nel caso del fronte fintamente "pacifista" a guida franco-tedesca. E se si vuole avere una qualche chance di spuntarla contro avversari del genere, la si può avere solo mettendo in campo una contro-forza organizzata allo "stesso" livello. Non intendiamo dire, ovvio, una contro-forza che si disponga in campo con le atomiche!, ma che non rinunci insensatamente alla nostra vera arma "atomica", che è per l’appunto l’organizzazione della lotta secondo un programma e una strategia di azione adeguati a battere gli avversari.

Ecco quello che è mancato, perfino nelle sue premesse più elementari, come ad esempio avere dei luoghi che fossero di autentica discussione sulle cause e sulle prospettive della guerra all’Iraq, sugli schieramenti in campo, sulle reazioni nel mondo arabo-islamico, sulla resistenza all’aggressione, etc. etc. I social forum? Beh, ogni qualvolta si è cercato di immettervi reali elementi di discussione, ci si è sentiti opporre che il compito di quegli organismi era soltanto "organizzativo", nel senso però minimalistico del termine, di organizzazione delle manifestazioni. Che in questo modo si sono ridotte quasi sempre a "ben organizzate" sfilate

Niente di male, tutt’altro, che si parta da sensibilità e "angoli" della società differenti, ma se tutta questa forza rimane allo stato magmatico, se il movimento non si organizza sul serio e non riesce a dare una sua propria risposta, ecco che a dare le "risposte" ci pensano altri "per" il movimento. Con le azioni o le messinscena "dimostrative" che non dimostrano e non cambiano nulla, con la geniale idea di punire gli aggressori alla prossima puntata elettorale, etc. etc., e così il "movimento", che è stato "orgoglioso" di non organizzarsi, viene svuotato e soppiantato da quanti all’organizzazione, in vario grado e modo interconnessa con lo stato (l’anti-"movimento" per eccellenza), non intendono affatto rinunciare. Un risultato non troppo brillante, o no?

 

Il quarto punto debole del "movimento" è stato il mancato collegamento con il popolo iracheno e, più in generale, con i popoli quotidianamente aggrediti ed oppressi dall’imperialismo occidentale, e da quello di "casa nostra" per primo. A rigore, infatti, non si può parlare di un solo movimento contro la guerra, ma almeno di due diversi (molto diversi) movimenti, l’uno nel Nord del mondo (a sua volta molto differenziato) e l’altro nel Sud del mondo; due movimenti che nel corso dei mesi, invece di avvicinarsi e nonostante qualche coincidenza di date, sono andati, nel complesso, sempre più divaricandosi

Il movimento "anti-globalizzazione", da Seattle in poi, aveva cominciato a definirsi come risposta agli effetti più evidenti e devastanti del sistema capitalista sotto il segno di una iniziale "solidarietà" con i paesi più esposti, aveva anche cominciato a cogliere il legame tra la spoliazione e l’oppressione di quei paesi e l’attacco -nelle metropoli- all’insieme della condizione delle masse lavoratrici. La guerra all’Iraq poteva essere l’occasione per far maturare e cementare questa solidarietà. È invece accaduto il contrario.

Significativo è stato il modo in cui si è guardato alla resistenza del popolo iracheno. Per noi essa era (ed è) parte integrante del movimento contro la "guerra infinita". Non è stato e non è ancora così per la gran parte dei lavoratori e dei giovani in Occidente. Per tutto un periodo quella resistenza non la si è vista nemmeno, non ci si è resi conto che era proprio contro di essa che l’Occidente imperialista ha lanciato dal 1990 la sua shock and awe. Quando la si è cominciata a vedere, dopo i primi giorni di guerra, pochi l’hanno sentita come la propria lotta, da appoggiare incondizionatamente e con cui organizzare una battaglia comune contro l’imperialismo. In primo luogo, contro il nostro imperialismo pienamente coinvolto nelle operazioni. Al contrario, molti dirigenti "no-global" l’hanno vissuta e fatta vivere come una minaccia. A tal punto da arrivare ad augurarsi una rapida vittoria statunitense. La loro giustificazione? "Visto che non si può parteggiare né per Bush né per Saddam, e vista la straripante sproporzione di forze, una rapida vittoria Usa eviterà una carneficina!" Che ipocrisia! La ragione di fondo delle prese di posizione di Fassino, Rutelli, Agnoletto e di tanti altri esponenti dell’opposizione alla guerra "senza se e senza ma" è ben altra, e la denuncia bene la lettera di Kutaiba Younis al direttore del manifesto che riproduciamo a destra.

Proviamo a tradurre a modo nostro il loro discorso. A noi l’ordine imperialista non piace, vorremmo -con le nostre implorazioni e qualche sfilata dimostrativa- che diventasse meno ingiusto, ma guai allo sviluppo, anche per effetto dello scontro in corso in Iraq, di una sollevazione delle masse lavoratrici mediorientali contro tale ordine! Dove si prenderebbe sennò quel bottino di guerra da cui poter ricavare le briciole per tenere in piedi qui nelle metropoli uno straccio di riformismo, evitare che divampi la lotta di classe proletaria e che i lavoratori si mettano nelle condizioni di riconoscersi come fratelli negli sfruttati mediorientali e terzo-mondiali?

Nostre illazioni? Leggiamoci allora l’intervista di Cacciari o la lettera di due dirigenti di Legambiente pubblicate sul manifesto del 1° aprile o le dichiazioni di Rutelli al Corriere del 26 marzo. O andiamoci a leggere (stomaco permettendo) i resoconti della seduta con cui il parlamento italiano, con voto bipartisan, ha votato l’invio del contingente militare in Iraq.

In passato, quando l’Italia aggredì l’Africa, i socialisti di fine secolo e, negli anni trenta, anche gli stalinisti avevano il coraggio di gridare "viva Menelik" (o i corrispettivi di Menelik). Arrivavano a dire, come disse Togliatti al VII congresso dell’Internazionale Comunista nel 1935, che "se il Negus d’Abissinia, spezzando i piani di conquista del fascismo, aiuterà il proletariato italiano ad assestare un colpo tra capo e collo al regime delle camice nere, nessuno gli rimprovererà di essere ‘arretrato’. Il popolo abissino è alleato del popolo italiano contro il fascismo e noi gli esprimiamo la nostra simpatia." Ora -viceversa- ci si fa un punto d’onore di prendere le distanze dai capi dei popoli aggrediti, il che è un modo, alquanto esplicito peraltro, di prendere le distanze dai popoli oppressi. Un tempo si aveva la forza di mettere in questione la "civiltà" che andavamo ad esportare ai "baluba", oggi -da più parti- quasi si occhieggia ad almeno alcuni aspetti di essa. Ad esempio, alla condizione della donna, con pochissimi che osano dire chiaro e tondo che nei paesi islamici l’Occidente capitalista porta qualcosa di assai diverso dalla "libertà" e "parità" tra i sessi (in Afghanistan si è addirittura rispolverata la Loya Girga di fine ‘700 ed è evidente il ritorno -anche in Iraq- alla "valorizzazione" di quanto è rimasto, imputridito, delle vecchie strutture gerarchiche pre-borghesi, capi clan, capi "tribù", etc.: povere donne!).

La stessa "distanza di sicurezza" la si è posta qui in Italia rispetto agli immigrati (si veda anche la cronaca da Torino di p. 6), che non esistono, che non possono essere presi in considerazione come soggetti "autonomi" di iniziativa (per sé, non separata) ma soltanto come aggregati numerici che devono sottoporsi e disciplinarsi alla "nostra battaglia" contro il cavaliere. Negli Usa e in Inghilterra c’è stato qualcosa di più e di meglio, una sorta di potenziale incrociarsi di forze proletarie indigene e immigrate contro il "loro" imperialismo, e tuttavia anche lì c’è molto cammino ancora da fare…

Il risultato è stato non l’avvicinamento ma l’allontanamento e l’indebolimento dei due movimenti anti-guerra. In Occidente è cresciuto, almeno in alcuni ambiti del "movimento", un senso di estraneità, di paura, finanche di ostilità nei confronti dei popoli del Terzo Mondo, e non solo degli islamici. A cui concorrono attivamente molti dirigenti della sinistra, i quali all’avversione istintiva verso la Cina (1) vanno aggiungendo ora anche quella verso Cuba (ne parliamo nell’articolo di p. 19). Gli sfruttati del mondo islamico, da parte loro, hanno visto con favore le manifestazioni in Occidente, ma più che altro come supporto alla loro battaglia, non come una forza con cui intrecciare un’organizzazione comune e formare un solo fronte di lotta. A ben ragione, hanno sentito che "noi" non siamo loro fratelli, che ci siamo opposti per motivi che non hanno a che fare con la loro lotta, che la "pace" da noi invocata è diversa dalla "pace" da loro agognata, che davanti ai colpi dell’imperialismo essi sono soli.

Caro Riccardo (Barenghi),

non sono assolutamente d’accordo con te.

 

Questa è una lettera che un esponente del movimento palestinese in Italia ha spedito al direttore del manifesto, Riccardo Barenghi, a seguito dell’editoriale in cui, nel corso della guerra, egli si interrogava cosa fosse da desiderarsi: se una vittoria rapida, oppure lenta, degli Stati Uniti. Il giornale cui la lettera era destinata non l’ha pubblicata; lo fa ora il che fare con l’ovvio consenso dell’interessato.

 

Caro Riccardo,

inizierei con l’ultima domanda che hai posto, e ti dico che le mie speranze è che questa guerra duri il meno possibile con una disfatta epocale degli eserciti invasori, una capitolazione dolorosa ed umiliante per tutti coloro che hanno voluto questo crimine.

A differenza di te, io ho le idee molto chiare e le mie ragioni nascono da decenni di umiliazione, di sofferenze in quanto arabo e palestinese. Già, la Palestina è la grande questione irrisolta che rischia di uscire a pezzi da questa guerra qualora Bush, Blair e tutto ciò che rappresentano dovessero uscire vincitori. Le ripercussioni potranno essere gravi o meno a seconda di come e quanto resisteranno i fratelli iracheni, la guardia repubblicana ed infine Saddam. Cerca di immaginare uno scenario in cui la super-arroganza imperiale degli Usa e degli occidentali dovesse vincere la guerra sbaragliando la resistenza irachena: quali effetti questo potrà avere sulle masse arabe che oggi sono in strada a manifestare la loro solidarietà con gli iracheni e contro i loro regimi? Che ne sarà della speranza che loro stanno ponendo in Saddam, nella sua guardia repubblicana e in tutto il popolo iracheno, una speranza di liberazione e di emancipazione dai governi vassalli nonché dittatoriali e altrettanto tirannici? So perfettamente ciò che hanno fatto sia Saddam sia il suo esercito, e ciò mi provoca sgomento e disgusto, ma oggi, caro Riccardo, abbiamo una missione molto più nobile. Sperare nella liberazione, nell’emancipazione, sconfiggendo gli eserciti del male, quelli americani e inglesi. Ecco perché non sono assolutamente d’accordo con te e con il tuo rifiuto di schierarti a fianco del popolo iracheno e della sua guerra di sopravvivenza.

L’Iraq non è il Vietnam, e Saddam non è Ho Chi Minh. Non capisco la prima affermazione, ma sono pienamente d’accordo con la seconda. Caro compagno, temo di essere alla solita; già, gli iracheni sono arabi e sappiamo cosa si pensa degli arabi: malvagi, infidi, sanguinari, terroristi, arretrati e pidocchiosi. Tali sentimenti/pensieri sono alquanto diffusi anche all’interno delle forze di sinistra, anche all’interno del suo giornale (ti risparmio i nomi, ma credo d’essere stato chiaro).

Caro compagno, le masse arabe e la lotta dei palestinesi sono l’avanguardia, oggi come oggi, nella lotta contro l’imperialismo mondiale. Il tributo di sangue che stanno pagando è impareggiabile. Perciò, via con le ambiguità delle vostre posizioni, rincorrere le argomentazioni delle forze avverse, cercare di sottrarsi a delle accuse infamanti (tipo -chi non è con gli Usa, è con i terroristi o con Saddam, etc.), tutto ciò è una strategia perdente, l’hai detto anche tu. Allora, cerchiamo di portare avanti le nostre tesi politiche al di là degli Schifani e dei Fassini, cerchiamo di illustrare le nostre ragioni con coraggio e senza aver paura di remare contro corrente. Solo così eviteremo di creare caos di interpretazioni, disorientamento e smarrimento.

Un’ultima cosa: se gli Usa dovessero chiudere la partita in maniera trionfale, ne usciranno enormemente rafforzati, loro e i loro alleati nella regione, in particolar modo lo "stato" di Israele. Già, il primo a cogliere i primi frutti di questo trionfo a scapito della causa palestinese. Non credi?

Kutaiba Younis

Segr. UDAP in Italia

La nostra organizzazione si è battuta affinché i lavoratori e i giovani impegnati nelle iniziative vedessero la resistenza delle masse lavoratrici irachene e mediorientali, e la riconoscessero come la loro stessa lotta. Ci siamo battuti per la disfatta delle "nostre" forze armate sotto l’azione combinata di un vero movimento di lotta qui Occidente e dei colpi di quella resistenza. "Che per noi -abbiamo scritto in uno dei volantini diffusi- non è una minaccia, come vorrebbero farci credere giornali e tv. È una risorsa. È l’unica forza in grado di opporsi là alla guerra e alla ‘pace senza giustizia’ portatevi dall’Occidente. Come pensiamo, sennò, che gli oppressi mediorientali possano fermarne le mani rapaci? L’unica ragione che sentono gli Usa e la Cee è quella della forza: eccola, la lezione che gli Usa hanno sbattuto in faccia a miliardi di persone. Comunque gli sfruttati mediorientali la esercitino, la loro forza di resistenza, a noi proletari e giovani d’Occidente spetta di sostenerla. Spetta di sostenerla perché essa, inoltre, si mette di traverso ad un’aggressione che è rivolta anche contro di noi. Che serve per stringere le catene della precarietà e del controllo sociale attorno ai nostri polsi... Potremo difenderci da questo risvolto interno della ‘guerra infinita’ solo lottando insieme ai nostri fratelli di colore, organizzando un fronte comune di battaglia."

A questa lotta noi proletari e compagni d’Italia possiamo contribuire innanzitutto con la lotta contro il "nostro" imperialismo, contro il "nostro" governo, il quale proprio perché straccione e declinante ancor più è costretto a ricorrere al saccheggio e all’oppressione dei popoli terzo-mondiali. Lottare contro il nostro imperialismo vuol dire oggi denunciare il ruolo delle truppe italiane inviate in Iraq come gendarmi per reprimere ogni tentativo dei popoli e dei lavoratori iracheni di opporsi al saccheggio del petrolio che le imprese statunitensi, italiane e occidentali si preparano a compiere. Vuol dire organizzare la mobilitazione per imporne il ritiro e togliere così la cappa di piombo che sbarra la strada allo sviluppo e all’unificazione delle lotte dei nostri fratelli di classe mediorientali.

Non sia un alibi per sfuggire a questo compito il fatto che la direzione della resistenza degli iracheni, oggi come ieri, è nelle mani di organizzazioni e politiche incapaci di fronteggiare come si deve l’imperialismo. Questa "loro" insufficienza non è diversa dal limite che pesa su di noi, sullo sviluppo della nostra mobilitazione qui in Occidente, ancora impigliata nella speranza della rigenerazione di una sinistra sottomessa alle ragioni del capitalismo e nella possibilità di ribaltare la piega che hanno preso gli avvenimenti con un semplice ribaltone elettorale. Potremo superare questo comune limite, noi sfruttati delle metropoli e le masse lavoratrici del Medioriente, solo insieme. Ritrovando, noi e loro, il programma, la politica e l’organizzazione per una battaglia comune, per la loro e la nostra, la comune liberazione dalla dittatura (questa sì, vera!) del capitalismo globalizzato.

Naturalmente non crediamo che se il movimento avesse seguìto la nostra impostazione, allora i popoli aggrediti si sarebbero subito riconosciuti in noi-movimento; sappiamo bene quale fossato esista tuttora, e come essi si sentano istintivamente lontani ed estranei a "noi", anche a noi-comunisti internazionalisti! Ma è di qui che ripartiamo e -questo sì- soltanto seguendo il nostro indirizzo potremo risalire la china! E arrivare un giorno ad "occupare", con le nostre "truppe", cioè -in questo caso- a liberare realmente, Washington e tutto il resto...