Sulla resistenza irachena

(e arabo-islamica):

quella che c’è stata,

quella che è mancata,

quella che ci sarà.

Il leader degli Hezbollah in Libano ha dichiarato di recente che "la minaccia più pericolosa che gli arabi hanno oggi davanti è lo stato di stupore e disperazione in cui sono caduti dopo l’occupazione di Baghdad." Ciò che pesa come un macigno è la resa di Baghdad senza l’accanita resistenza nelle sue strade che ci si aspettava e augurava. Un giovane palestinese intervistato il 13 aprile da al-Jazeera ha dichiarato amaramente: "Pensavamo che la città di Baghdad avrebbe combattuto e risollevato l’orgoglio arabo. È un giorno di vergogna per tutti gli arabi. Persino a Jenin c’è stata più resistenza che a Baghdad."

Questo sentimento è del tutto comprensibile. Ma ciò che è caduto a Baghdad non è la resistenza delle masse arabo-islamiche all’imperialismo, è solo un certo modo di resistere all’imperialismo: quello rappresentanto dal Ba’ath di Saddam Hussein, quello a cui le masse lavoratrici irachene (e, in altre forme, dell’intero Medio Oriente) hanno affidato dagli anni cinquanta le loro aspirazioni di riscatto nazionale e sociale.

Baghdad, la gente di Baghdad, gli sfruttati dell’Iraq hanno fatto quello che potevano fare nelle condizioni date. Si poteva fare di più e meglio? Certo, ma a condizione che nell’area si sviluppasse un incendio generale contro gli interessi e la macchina da guerra dell’imperialismo e i regimi ad esso compiacenti. E che questo incendio trovasse qui, in Occidente, un movimento anti-guerra, un movimento proletario pronto a sostenere incondizionatamente la causa rivoluzionaria del popolo iracheno e dei popoli oppressi dai nostri stati. Tutto ciò è mancato, nei fatti, e bisogna trarne la lezione del caso. Che vale per gli sfruttati dell’Iraq e del Medio Oriente, come per quelli del mondo intero.

 

Perché è crollata Baghdad?

Eppure questa nuova battaglia era cominciata sotto altre stelle.

La guerra lampo prevista dai comandi anglo-americani sembrava accantonata già a pochi giorni dall’inizio dei bombardamenti. La strombazzata rivolta di Bassora era risultata una menzogna. Il contadino di Kerbala che col suo fucile aveva abbattuto un elicottero Apache, i visi impauriti teletrasmessi in tutto il mondo dei marines catturati dalle forze irachene avevano risvegliato l’orgoglio delle piazze arabe, tornate a riempirsi, come in Egitto, dopo anni e anni di silenzio. Inviati e televisioni mostravano i gruppi di combattenti giunti a Baghdad da varie parti del mondo arabo. Attraverso la cortina fumogena dell’informazione ufficiale iniziava a filtrare l’effetto "depressivo" della resistenza irachena sulle truppe anglo-americane e sulla loro volontà di combattimento (v. riquadro a destra). I criminali installati a Washington e a Londra erano stati "costretti", a questo punto, a dare il via ai bombardamenti dei quartieri popolari e dei mercati (soprattutto quelli a maggioranza sciita) di Baghdad e delle altre città per colpire l’anima di questa resistenza. Stava cominciando a diventare evidente, agli occhi dell’"opinione pubblica mondiale", il vero soggetto che l’operazione shock and awe si prefiggeva di disarmare, terrorizzare e annichilire: la volontà della popolazione irachena di non accettare, Saddam o non Saddam, il saccheggio del petrolio e la schiavizzazione del mondo musulmano richiesti dalle magnifiche e progressive sorti del capitalismo globalizzato. Perfino in Italia, si era aperto di riflesso, in vista della "battaglia per Baghdad", il dibattito "guerra breve o guerra lunga"...

Baghdad, scusaci!

Da un articolo di ‘Abd al-Bari Atwan pubblicato l’11 aprile 2003 sul quotidiano di Londra al-Quds al-Arabi (Gerusalemme araba)

"Provo, come decine di milioni di arabi, un senso di fallimento e di dolore per la caduta di Baghdad, avvenuta in modo vergognoso senza alcuna resistenza. E credo che ora la tappa che è di qui a venire forse sarà più pericolosa di quelle precedenti. (...) Nel nostro giornale ci siamo schierati con la Nazione araba ed islamica e ci siamo gettati anche noi nelle trincee nell’affrontare qualsiasi tentativo di predominio americano-sionista. La caduta di Baghdad non ci piegherà e non cambierà le nostre convinzioni e le nostre posizioni. Noi continueremo ad ardere, mantenendo salde le nostre aspirazioni, fossero anche fantascientifiche, per riscattare la nostra Nazione, il nostro credo, la sua posizione tra le altre Nazioni, libera da tutte le dittature, dalla corruzione e dall’egemonia straniera.

(...) Sappiamo di essere una voce fuori dal coro americano; sappiamo che a tanti arabi americanizzati potremmo sembrare fuori dalla realtà o sentimentalisti. Ma siamo anche coscienti di essere i più vicini ai sentimenti e ai pensieri di centinaia di milioni di arabi e musulmani poiché noi inneggiamo alla difesa della nostra Patria, non alla difesa di singoli individui. Inneggiamo alla difesa di un credo eterno, dei suoi valori, del suo immenso patrimonio umano. Inneggiamo alla resistenza e alla vittoria dei deboli contro l’arroganza e i soprusi. La guerra all’Iraq non è stato uno scontro alla pari: sapevamo bene che l’Iraq non avrebbe fatto altro che subìre. Se il regime iracheno è stato sconfitto, i responsabili di tale sconfitta sono gli arabi, sia i governanti che le popolazioni, che lo hanno abbandonato a resistere alla minaccia della più grande potenza della Storia, da solo e senza appoggio. Ma nonostante la sconfitta del regime, siamo certi che il popolo iracheno non è stato sconfitto né mai lo sarà."

Poi, d’improvviso, l’occupazione "quasi indolore" della capitale. Come mai un simile "crollo"? Non certo perché gli iracheni abbiano visto tutto d’un tratto come liberatrici le forze anglo-americane. È durato lo spazio di un mattino il tentativo propagandistico di attribuire ad una folla festante di 150 prezzolati diretti dal banchiere Chalabi l’abbattimento della statua di Saddam. E allora perché? Per l’effetto dei bombardamenti e la gigantesca sproporzione delle forze militari? Senza dubbio. Questo, però, potrebbe spiegare la sconfitta, non l’assenza di una resistenza accanita casa per casa. E allora perché? Forse perché a un certo punto la direzione ba’athista ha "preferito" dileguarsi e salvare la pellaccia piuttosto che impegnarsi in battaglia? Ecco un altro fatto innegabile, che va capitalizzato come lezione memorabile da parte degli oppressi iracheni e mediorientali (1). Ma perché la gente e i soldati iracheni non hanno continuato da soli, senza la direzione del governo? Non c’era forse un fucile in ogni casa?

Arriviamo così al cuore della questione. Che -limitandoci qui (formalmente) a ragionare sull’Iraq- non sta certo in una fantomatica incapacità genetica delle masse lavoratrici mediorientali di essere qualcos’altro da un gregge al servizio di un raìs. La storia dell’Iraq mostra, al contrario, l’eroica capacità delle masse lavoratrici e oppresse del paese di rivoltarsi contro il dominio colonialista e semi-colonialista e la propria classe dominante ad esso asservita. L’intero periodo che va dal 1917 alla fine degli anni cinquanta è la storia dello sviluppo dell’auto-organizzazione delle masse irachene e del loro sforzo, fecondato da brucianti sconfitte e repressioni, di darsi una direzione politica corrispondente ai loro interessi.

Il cuore della questione sta nella politica che ha diretto questo moto popolare e proletario, e nelle conseguenze disastrose che essa ha prodotto. Tornare su di essa, e sui momenti cruciali della rivoluzione antimperialista irachena, non è una fuga dall’attualità. È il modo per comprenderla, e per attrezzarsi alla inevitabile ripresa e continuazione -lì e qui- della lotta. Ché, come scrive il quotidiano al-Quds al-Arabi in un articolo dell’11 aprile e come vediamo dalle prime cronache dall’Iraq neo-colonizzato dei nostri giorni, è tuttora più viva che mai.

La resa della direzione ba’athista

C’è chi declassa ad un "colpo di stato" la sollevazione che nel 1958 cacciò dall’Iraq la monarchia hashemita asservita all’Inghilterra. In realtà l’azione militare degli "Ufficiali Liberi" fu insieme il risultato e il punto di partenza di una crescente lotta popolare di massa, segnando l’irruzione delle masse lavoratrici nella vita politica del paese. Esse erano mosse dall’obiettivo di farla finita con la dipendenza dalla Gran Bretagna e dall’Occidente, di liberarsi dalla catene delle alleanze militari in cui l’Iraq era stato incastrato da Londra, di effettuare una riforma agraria che ponesse fine all’accentramento delle terre nelle mani di un pugno di proprietari e alla fame generalizzata per i contadini poveri, di conquistare il diritto alla libera attività sindacale e politica, di costruire una moderna economia industriale che assicurasse un’esistenza degna di esseri umani. Insomma, l’obiettivo condiviso, in quegli stessi anni, dalle masse lavoratrici e diseredate dell’Asia e dell’Africa nel corso del loro incandescente risveglio contro il dominio dell’Occidente.

In Iraq, gli sfruttati credettero di poter realizzare queste aspirazioni dietro un programma di sviluppo capitalistico nazionale inserito nel quadro del sistema capitalistico mondiale. Questo progetto, sostenuto con diverse sfumature da varie organizzazioni politiche irachene e, tra queste, dal partito comunista, ha trovato alfine il suo alfiere ed esecutore nel Ba’ath. Negli anni settanta, grazie alla nazionalizzazione del petrolio e all’impennata dei prezzi dell’oro nero, il programma sembrava essere sul punto di realizzarsi (come sembrava esserlo, tanto per dire, nella Jugoslavia). Senonché, procedendo verso il futuro si è ripiombati nel passato... Per capire l’arcano, vai alla voce: imperialismo.

Tra le truppe statunitensi, dopo gli entusiasmi della prima ora

e l’incontro diretto con il popolo iracheno...

Il 30 marzo Il Corriere della Sera riporta la notizia che ai militari statunitensi in prima linea sul fronte di Najaf e Nassiriya è stato vietato l’uso del telefonino, anche durante i turni di riposo.

"I comandi Usa sono preoccupati dal flusso crescente di brutte notizie comunicate dai soldati alle famiglie in patria: ne risentirebbe il morale del paese e si alimenterebbe la protesta di chi nella guerra non ha mai creduto. (...) Niente telefonate alla fidanzata o alla mamma, sia perché il segnale potrebbe essere captato dai nemici ma anche per via del ‘contagio psicologico’ portato dalle notizie tristi. Dopo gli entusiasmi della prima ora, durante la rapidissima avanzata nel cuore del paese, vi sarebbero segni di fatica, disagio e depressione fra le truppe di linea. La stanchezza, la mancanza di sonno, le tempeste di sabbia, lo stress delle imboscate con un nemico che non conosce regole [!!] cominciano a intaccare il morale dei più giovani e meno esperti. Fatti come l’attentato suicida di ieri seminano la paura. Come anche gli agguati condotti da miliziani in abiti civili, le raffiche improvvise che giungono nella notte da un normale casolare di campagna, i ragazzotti che si avvicinano sorridenti e con le mani alzate per poi impugnare il kalashnikov nascosto sotto il sedile. (...) E la battaglia più dura, quella per Baghdad, deve ancora cominciare."

Infatti, i grandi poteri del sistema capitalistico internazionale, le banche occidentali e i mostri militaristi che ne sono al servizio, dopo aver subìto il risveglio della nazione araba in Iraq (e non solo), dai primi anni ottanta sono passati al contrattacco: prima fanno mancare l’ossigeno allo sviluppo economico che si è appena avviato; poi sospingono l’Iraq di Saddam contro l’Iran "khomeinista" in una criminale guerra fratricida; quindi, dal 1990, anche per mezzo della guerra benedetta dall’Onu, ne distruggono le basi materiali facendo tornare l’Iraq, come è scritto in un dossier… dell’Onu, allo stadio pre-industriale; infine, anno di disgrazia 2003, lo occupano militarmente, prendono in mano i rubinetti del petrolio, vi installano quattro basi militari da cui sorvegliare l’ordine imperialistico in tutta l’area... Per le masse lavoratrici irachene torna così prepotentemente all’ordine del giorno, ed elevata al cubo per la maggiore potenza dei nuovi padroni occupanti, la somma dei problemi a cui esse avevano lanciato la sfida nel 1958. Con un’altra differenza non da poco. Oggi, seppure più numerose di allora e con una componente proletaria più estesa, esse sono giunte all’appuntamento disorganizzate, disarmate politicamente, abituate a delegare all’apparato statale e alla politica ba’athista la propria difesa dalla piovra dell’imperialismo. Un apparato statale e una politica che, però, si sono rivelati incapaci di tenere botta. Gli sfruttati iracheni -questo ci è ben chiaro- non potevano riforgiare in pochi giorni, e da soli, una politica e un’organizzazione di massa all’altezza dell’aggressione imperialista: e tuttavia di questo si tratta, per loro e per noi.

Quale può essere questa politica ed organizzazione? Nella sostanza, con i pochi "aggiornamenti" del caso, quella che negli anni venti l’Internazionale Comunista di Lenin propugnò per i paesi dell’Oriente nel quadro del processo internazionale di sovvertimento del sistema capitalistico mondiale in vista dell’obiettivo del socialismo. Quella che, con Marx, è stata chiamata la politica della "rivoluzione in permanenza". E che lo stalinismo ribaltò, anche in Iraq e nel mondo arabo, a favore delle "vie nazionali al socialismo". A cui non si deve imputare tanto di non aver realizzato il socialismo nei vari paesi in cui arrivò al potere (obiettivo impossibile entro i loro confini), quanto di aver disciplinato e passivizzato le classi lavoratrici dell’Iraq e del Medioriente dietro un progetto destinato in partenza a fallire, come è poi puntualmente avvenuto. Di averle cullate nella illusione di poter uscire dal sotto-sviluppo restando però dentro le relazioni del mercato capitalistico mondiale giunto alla fase imperialista; di potersi liberare davvero senza dover continuare la lotta intrapresa e collegarla al risveglio della lotta del proletariato occidentale per la comune liberazione dal sistema capitalistico. Mentre invece o il sotto-sviluppo del Medio Oriente e l’iper-sviluppo dell’Occidente cadranno insieme o l’uno è condannato ad essere il piedistallo dell’altro.

Se teniamo conto di questo corso storico, e se teniamo conto di quanto poco dall’Occidente si sia fatto, nonostante le "oceaniche" manifestazioni pacifiste, per sostenere davvero la resistenza armata degli iracheni, invece di meravigliarci del fatto che gli sfruttati iracheni non abbiano trasformato Baghdad in una gigantesca Jenin o non siano insorti in una Comune dei tempi moderni, c’è da rimanere ammirati per la loro capacità di aver tenuto duro durante i terribili anni dell’embargo, di aver retto per settimane agli ultimi bombardamenti, di aver fatto correre qualche brivido nella schiena degli Stati Uniti e dell’imperialismo. E per l’odio con cui hanno accolto i "liberatori", per le mille prove con le quali già oggi dimostrano di volerne combattere la dittatura.

Di più, da soli, cosa potevano fare i lavoratori di Baghdad?

Si sono trovati privi dell’apparato statale a cui tanti di loro avevano, più o meno consensualmente, affidato il compito di fare da ombrello alle pietre dell’imperialismo. Disabituati ad una vita politica militante. Affranti dall’embargo che li ha costretti a ripiegare in una specie di "atomizzazione" generalizzata indotta dalle necessità primarie della sopravvivenza. Cosa potevano fare di più, in queste condizioni? Cosa potevano fare privi com’erano di un nucleo politico di partito che avesse per tempo organizzato la risposta all’imperialismo sulla base della lezione consegnata dal primo tempo della rivoluzione anti-imperialista? Non potevano certo svolgere una tale funzione i gruppi dell’opposizione irachena direttamente al soldo di Washington. E non lo poteva neanche il raggruppamento verso cui maggioritariamente vanno, al presente, le speranze e le simpatie degli sfruttati iracheni: quello che fa capo alla rete delle moschee sciite.

La (apparente) "neutralità" dei capi sciiti

Quest’ultima forza politica, in tandem con la classe dirigente iraniana, non è salita sul carro dei conquistatori. Ha giustamente denunciato nella volontà di schiacciare il risveglio del "mondo musulmano" il vero scopo dell’aggressione anglo-americana. Ma davanti all’invasione del paese, si è limitata a invitare le popolazioni "islamiche" alla neutralità, con la motivazione che il regime di Saddam era indifendibile (così, però, a non esser difeso era il popolo iracheno!). Forse costoro coltivano la remota speranza di mettere a frutto a proprio favore, a favore della propria "bottega", il rovesciamento di Saddam da parte di Stati Uniti e Occidente. Incredibile, ma vero! Da un lato si denunciano gli Stati Uniti come malvagi, assatanati di potere… e dall’altro ci si immagina che si comportino da galantuomini. Hai voglia a chiedere agli Usa, con dichiarazioni risentite, di desistere dal piano d’impiantare la loro dittatura nel paese e rammaricarsi per la sanzione dell’Onu a questo piano anglo-americano. I "nuovi" colonizzatori potranno essere cacciati solo con la forza, e la lotta di resistenza richiederà l’indipendenza da tutte le forze conciliatrici (i capi sciiti sono tra queste), la diretta iniziativa degli sfruttati, il superamento della divisione tra le varie componenti nazionali e religiose della classe lavoratrice irachena, l’organizzazione e la lotta per far pesare le proprie esigenze nella gestione della vita sociale ed economica, lo sforzo di non farsi contrapporre dalle forze d’occupazione ai lavoratori del resto del Medioriente, la conquista di un vero programma anti-imperialista.

La "neutralità" dell’Iran e dei principali "movimenti sciiti" ha di fatto favorito, in modo inconsapevole (sempre?) quanto si vuole, l’aggressione imperialista. Gli Stati Uniti hanno buttato giù lo stato ba’athista perché esso rappresentava comunque un ostacolo sulla via della riconquista neo-coloniale del Medioriente. E lo han fatto per imporre un regime più asservito ai loro interessi, più dittatoriale rispetto alle esigenze delle masse lavoratrici. Ecco cosa era in gioco nella guerra. Ed è su questo terreno che andava data la battaglia, come ha intuito quella parte della popolazione lavoratrice dell’Iraq, "sciita", "sunnita", "baathista", "curda", che si è battuta comechesia contro gli aggressori. È su questo terreno che si sarebbe aperto il baratro -da sinistra, ci si passi il termine- anche per il regime di Saddam, incoerente, titubante, e alla fin fine impotente nella sua resistenza all’imperialismo.

A differenza dei partiti di Khamenei ed al-Hakim, una vera organizzazione anti-imperialista, cioè a dire comunista, avrebbe chiamato alla resistenza attiva, non alla neutralità. All’interventismo. In Iraq e nel resto dell’area. Non avrebbe accettato di lasciare soli gli iracheni. Non avrebbe accettato l’ingiunzione degli Usa a non interferire negli affari iracheni. Avrebbe puntato sull’iniziativa internazionale e internazionalista delle masse arabo-islamiche e terzomondiali, scese in campo assai più numerose e disponibili alla lotta che nel caso dell’aggressione all’Afghanistan, per realizzare i passi che "spontaneamente" là e qua nel mondo arabo sono stati invocati come i soli efficaci mezzi di opposizione alla guerra: il blocco del canale di Suez, l’uso dell’arma del petrolio contro l’Occidente che da esso dipende, la formazione di una brigata di solidarietà internazionale, la sollevazione contro i regimi arabi complici degli aggressori. E invece di rivolgersi alla "comunità internazionale" (dei briganti), all’Europa degli Chirac e degli Schroeder e di trescare in vario modo con gli stessi anglo-americani, questa organizzazione si sarebbe rivolta ai lavoratori e ai tanti dimostranti dell’Occidente per richiamarli con forza ai loro compiti di lotta conseguente sul "fronte interno" contro i loro governi, i loro capitalisti e le loro armate.

Invece, gli sfruttati iraniani e del mondo musulmano sono stati invitati da Khamenei e soci solo a rimanere all’erta (in attesa di cosa?), a pregare per l’Iraq (per bloccare così l’aggressione?), ad esser pronti a sostenere prove decisive se gli Usa avessero attaccato l’Iran o il Libano o la Siria. Peccato che l’attacco fosse già in atto, e che, entrando in Iraq, il lupo stava entrando anche in casa vostra! Il documento del Senato degli Stati Uniti che pubblichiamo nella pagina accanto lo conferma in pieno. E fa vedere come l’imperialismo (statunitense ed europeo) tenterà di arrivare ad occupare Teheran facendo leva sulla frazione occidentalizzante della classe dirigente iraniana, quella che con Rafsanjani è arrivata a chiedere un referendum per ristabilire le relazioni ufficiali con gli Usa interrotte dopo il 1979. In un servizio da Teheran l’inviata del manifesto ha scritto: "L’Iran è sull’orlo di grandi cambiamenti. I riformisti sono convinti che il terremoto geo-politico con epicentro a Baghdad farà gioco proprio a loro, sostenitori di riforme liberali e democratiche in Iran". Con la "pacifista" Europa, a fare da battistrada al nuovo assalto: "I Quindici hanno aperto da tempo un ‘dialogo costruttivo’ con Teheran, fatto di relazioni economiche (l’Italia si compiace di essere il primo partner europeo dell’Iran) e di sostegno diplomatico, ma anche di pressioni al rispetto dei diritti umani, della libertà di stampa, e delle libertà individuali." I ben noti "diritti umani" di Wall Street e delle umanissime borse europee, la ben nota nostra libertà di diffondere impunemente nel mondo intero le nostre menzogne, le note libertà individuali della Esso, della Shell, della Chevron, dell’Agip e via elencando. A cui anche la "neutralità" iraniana e "sciita" ha spalancato le porte…

Per una vera e coerente resistenza all’imperialismo

Questa prima cattiva prova delle forze sciite fuori dall’Iraq e in Iraq deve far riflettere gli sfruttati: in Iraq e nel resto del Medioriente. Essa non è il frutto del caso. Ma del fatto che tali forze sono, al di sotto delle loro vesti religiose, delle forze borghesi, abbarbicate all’illusione di poter realizzare uno sviluppo nazionale dei singoli paesi arabi e islamici senza mettere in discussione per davvero il quadro dell’imperialismo. Sappiamo che le masse lavoratrici irachene vedono nel raggruppamento delle forze islamiche sciite una speranza. Ve ne sono tutte le ragioni storiche (ne diamo un cenno nella scheda a fianco), la principale delle quali è data dal fallimento del Pci e dalla scomparsa dalla scena internazionale del movimento proletario comunista. Come scrive il Corriere del 20 aprile, nella cronaca del grande pellegrinaggio alle città sante di Kerbala e Najaf, "la gente pensa che solo loro [i gruppi "sciiti"] possono tener testa agli Usa". Noi non siamo dello stesso avviso.

Posizione pregiudiziale fondata da una pregiudiziale ostilità marxista verso le forze religiose? No. Ci atteniamo ai fatti. Cosa significa, per esempio, dire, come ha fatto al-Hakim al suo ritorno in Iraq: non vogliamo un "islam estremista"? Significa semplicemente che i possidenti "sciiti", la borghesia "sciita" non vogliono condurre realmente una lotta a fondo contro le basi strutturali del sottosviluppo del Medioriente, perché temono, a buona ragione, che una tale lotta terremoterebbe, insieme con l’ordine imperialista, anche i loro privilegi di classe. Il proclama di al-Hakim fa il paio con la dichiarazione con cui Hamas ha preso le distanze dalla guerra globale all’imperialismo proclamata dalla galassia di organizzazioni islamiche che fa riferimento ad al-Qaeda. Ci si vuole così demarcare da al-Qaeda per sottrarsi al rischio di subire la rappresaglia Usa? Vana speranza, come mostra il cammino della Road Map (vedi p. 13).

Così come è vana la speranza della classe dirigente iraniana, delle direzioni sciite in Iraq e Libano, della dirigenza di Hamas di poter contare sulle potenze europee per difendersi dal rullo compressore statunitense. La Francia e la Germania sono entrate in contrasto con gli Usa solo sui mezzi attraverso cui piegare il popolo iracheno e sui criteri di spartizione dei relativi dividendi.

Non passerà tanto tempo, crediamo, e la resistenza delle masse irachene tornerà a farsi sentire ben al di là di singole azioni di guerra, di singole città, di singole dimostrazioni. È più che probabile che una tale resistenza inizierà sotto le insegne "sciite", se non anche vetero-ba’athiste, poiché nuove insegne, più adeguate alla bisogna, non ce ne sono ancora, né lì né altrove. Ma in questo percorso di ripresa sarà giocoforza per gli sfruttati iracheni e mediorientali, per evitare che si ripetano con le organizzazioni "islamiche" le sconfitte patìte con le versioni locali dello stalinismo e il ba’athismo, sviluppare la propria iniziativa diretta, la propria autonomia organizzativa e politica, dotarsi di una politica coerentemente internazionalista, e basare su delle fondamenta di classe quella jihad anti-imperialista globale che al-Qaeda proclama a parole, salvo non saper e voler coinvolgere in essa attivamente le masse (femminili e maschili) degli oppressi islamici. Una via ardua, non breve, che gli sfruttati iracheni non potranno percorrere che in stretta unità con quelli di tutto il mondo. Ma davanti al gap militare e tecnologico che anche l’ultima guerra ha evidenziato tra il Pentagono e il "resto del mondo", c’è un solo elemento che può fare la differenza a nostro favore: la lotta, la forza organizzata della classe lavoratrice, irachena e mondiale. Quella contro cui Churchill nel 1920 usò le armi chimiche, quella che terrorizzò nel 1958-’59 Foster Dulles, quella per cui Bush padre e figlio sono passati allo shock and awe... La rinascita delle popolazioni lavoratrici dell’Islam -un’aspirazione che sempre più si radica, ad ogni sconfitta, nel cuore di milioni e milioni di oppressi "islamici"- potrà darsi solo come una rinascita di classe, legata alla distruzione delle relazioni di mercato capitalistiche internazionali e alla riconquista del comunismo internazionalista.


Note

(1) Vedi la cronaca della battaglia di Baghdad scritta da Walid Rabbah il 14 aprile sul giornale libanese Sawt al-’Urouba.


Dalle tesi sulla "questione d’Oriente"

del IV congresso dell’Internazionale Comunista (1922)

Oppressione imperialista

e liberazione dell’Oriente:

una strategia di bruciante attualità

"La guerra imperialistica del 1914-1918 e la lunga crisi del capitalismo, soprattutto del capitalismo europeo, che ne è seguita, hanno infirmato la tutela economica delle colonie. (...) La rivendicazione di un’autonomia nazionale ed economica ventilata dal movimento nazionalista [dei paesi coloniali e semi-coloniali, n.] è l’espressione della necessità di sviluppo borghese sentita da questi paesi. Il costante progredire delle forze produttive indigene si trova così in irriducibile contraddizione con gli interessi del capitalismo mondiale, poiché l’essenza stessa dell’imperialismo comporta l’uso delle differenza di livelli esistente nello sviluppo delle forze produttive dei diversi settori dell’economia mondiale, al fine di assicurarsi la totalità del pluvalore monopolizzato.

(...) Il compito fondamentale comune a tutti i movimenti nazionalisti-rivoluzionari consiste nel realizzare l’unità nazionale e l’autonomia politica. La soluzione reale e la logica di questo compito dipende dall’importanza delle masse lavoratrici che tale o tal’altro movimento sapranno coinvolgere nel loro cammino, dopo aver rotto ogni relazione con gli elementi feudali e reazionari e dopo aver incorporato nel loro programma le rivendicazioni sociali di queste masse. Rendendosi conto del fatto che, in differenti condizioni storiche, gli elementi più diversi possono essere i portavoce dell’autonomia politica, l’Internazionale Comunista sostiene ogni movimento nazional-rivoluzionario diretto contro l’imperialismo. Tuttavia essa, nello stesso tempo, non perde di vista che soltanto una linea rivoluzionaria conseguente, basata sulla partecipazione delle grandi masse alla lotta attiva, nonché la rottura senza riserve con tutti i partigiani della collaborazione con l’imperialismo, possono condurre le masse oppresse alla vittoria. (...)

"I compiti obiettivi della rivoluzione coloniale scavalcano i limiti della democrazia borghese. In realtà la sua vittoria decisiva è incompatibile con la dominazione dell’imperialismo. All’inizio la borghesia indigena e gli intellettuali indigeni assumono il ruolo di pionieri dei movimenti rivoluzionari coloniali; ma, dal momento in cui le masse proletarie e contadine cominciano a partecipare a questo movimento, gli elementi della grande borghesia e della borghesia fondaria se ne tirano fuori, lasciando il passo agli interessi sociali degli strati inferiori del popolo. Una lunga lotta, che durerà per tutta una epoca storica, attende il giovane proletariato delle colonie: lotta contro lo sfruttamento imperialistico e contro le classi dominanti indigene che aspirano a monopolizzare tutti i benefici dello sviluppo industriale e intellettuale, e che vogliono che le masse restino, come per il passato, in una situazione preistorica. (...)

"Il rifiuto dei comunisti delle colonie di prender parte alla lotta contro l’oppressione imperialista con il pretesto di ‘difendere’ esclusivamente gli interessi della classe lavoratrice non è altro che opportunismo della peggior specie, che può soltanto screditare la rivoluzione proletaria in Oriente. Non è meno nocivo il tentativo di metter da parte la lotta per gli interessi quotidiani e immediati della classe proletaria in nome di un ‘unificazione nazionale’ o di una ‘pace sociale’ con i democratico-borghesi. Due compiti, fusi in uno, incombono ai partiti comunisti coloniali e semi-coloniali: da un lato essi lottano per una soluzione radicale dei problemi della rivoluzione democratico-borghese avendo per obiettivo la conquista dell’indipendenza politica; dall’altro lato essi organizzano le masse operaie e contadine per permettere loro di lottare per gli interessi particolari di classe e utilizzano a tal fine tutte le contraddizioni del regime nazionalista democratico-borghese. Formulando rivendicazioni sociali, essi stimolano e liberano l’energia rivoluzionaria che non trova alcuno sbocco nelle colonie e nelle semi-colonie. La classe operaia delle colonie e delle semi-colonie deve sapere per certo che soltanto l’estensione e l’intensificazione della lotta contro il giogo imperialistico delle metropoli può conferire un ruolo dirigente nella rivoluzione e che soltanto l’organizzazione economica e politica della classe operaia e degli elementi semi-proletari può allargare il respiro rivoluzionario della lotta contro l’imperialismo.

"I partiti comunisti dei paesi coloniali e semi-coloniali d’Oriente, che sono ancora in uno stato più o meno embrionale, devono partecipare a ogni movimento suscettibile di aprir loro un’udienza presso le masse. Ma essi devono condurre una lotta energica contro i pregiudizi patriarcal-corporativi e contro l’influenza borghese nelle organizzazioni operaie, per difendere queste forme embrionali di organizzazioni professionali contro le tendenze riformistiche e trasformarle in organi combattivi delle masse. Esse devono dedicarsi con tutte le loro forze a organizzare i numerosi lavoratori giornalieri e giornalieri rurali, come pure gli apprendisti dei due sessi, sul terreno della difesa dei loro interessi quotidiani."