È dall’inizio degli anni ’80 che –tra accelerazioni e (sempre più relativi) rallentamenti– è in corso una costante e montante azione padronale e governativa finalizzata ad erodere e cancellare completamente l’insieme delle conquiste e delle garanzie strappate dai lavoratori con le lotte sviluppatesi a cavallo degli anni ’60 e ’70. I primi nitidi segnali si ebbero nel 1980 con i ventimila cassintegrati alla Fiat e, successivamente, con il taglio dei quattro punti di scala mobile (cioè di quel meccanismo che in un certo qual modo adeguava i salari all’inflazione) operati dal governo Craxi nell’84. Il tutto accompagnato e seguito da varie "punzecchiature d’assaggio" alle pensioni, agli automatismi contrattuali ed alle modalità d’inquadramento per i neoassunti. Colpi e "colpetti" che aprono delle prime crepe nel muro di cinta della difesa dei lavoratori e che servono alla borghesia anche per tastare il polso al movimento operaio e valutarne la sua capacità di risposta. Insomma –rifacendoci al pugilato - un continuo, e a tratti pesante, lavoro ai fianchi per preparare i…

…primi pugni in faccia.

Iniziano gli anni ’90. Scatta la prima guerra d’aggressione contro il popolo iracheno ed in Italia "esplode" tangentopoli. La cosiddetta "prima repubblica"-quella del dopoguerra, dei democristiani "papponi", delle stragi di stato e del sistema proporzionale– è al tramonto. La "seconda" già si intravede all’orizzonte e -dicono- porterà con se la "fine della corruzione, delle ruberie, dei privilegi, ed il rinnovamento e la moralizzazione delle istituzioni al servizio di tutti i cittadini". A tal proposito ci sia consentita una parentesi: sarebbe davvero istruttivo poter rivedere oggi le trasmissioni televisive e i giornali di quel periodo per rendersi conto del mare di interessate cazzate che viene propinato abitualmente e con aria serissima da esperti e opinionisti vari, ma… torniamo a noi.

A far da traghettatore tra le "due" fasi istituzionali viene chiamato Amato che in qualità di presidente del consiglio nel ’92 si fa carico di lanciare contro l’insieme dei lavoratori un attacco molto più netto e concentrato dei precedenti. Per evitare la "bancarotta" dello Stato (e tanto per non lasciare dubbi sul mandato che la "prima repubblica" trasmette e che la "seconda" dovrà eseguire ed intensificare) viene approntata un’autentica cura da cavallo. Abolizione definitiva e completa della scala mobile e due vicinissime e consecutive manovre economiche per un complesso di oltre 120 mila miliardi di lire. "Ovviamente" le pensioni e la sanità sono al centro dei tagli.

Nelle fabbriche si intuisce che questa volta l’attacco è più deciso e che non sarà facile far fare retromarcia al governo. Partono gli scioperi che dalle industrie si estendono anche agli altri settori lavorativi sviluppandosi in ampiezza e determinazione. I vertici sindacali -che pochi mesi prima avevano dato il loro consenso all’eliminazione della scala mobile- sono costretti dalla spinta operaia a prendere in carico la lotta. La mobilitazione cresce. Cresce, ma non riesce a mettere al centro la necessità di una chiara battaglia contro il governo. Da parte loro le direzioni sindacali fanno di tutto affinché tale tema -che qua e là aveva fatto capolino- venga prima messo ai margini e poi dimenticato del tutto. Le mobilitazioni dell’autunno ’92 vengono quindi finalizzate interamente a modificare i punti "più iniqui" della manovra governativa sulla cui necessità, però, si concorda. Un movimento capace di svuotare le fabbriche e di riempire le piazze accetta di subordinare con senso di "responsabilità" le proprie esigenze alla necessità (tutta capitalistica) di "risanamento" del deficit pubblico. Conseguentemente cessa di battersi contro l’insieme della politica governativa e confindustriale per limitarsi a contrastarne gli aspetti più aspri. Con quali esiti? Che di fronte a questa sorta di auto limitazione della lotta il governo acquista maggiore sicurezza e procede con accresciuta fermezza per la sua strada. Non solo non si ottiene praticamente alcuna sostanziale concessione, ma, ed è la cosa principale, si inizia ad insinuare nel movimento la sfiducia verso le proprie forze, se ne favorisce il riflusso e per tal via si presta il fianco a sempre nuovi e più duri attacchi. Ed infatti di lì a poco…

…arriva il cavaliere.

La "seconda repubblica" viene inaugurata con la vittoria del "Polo delle libertà" alle elezioni del marzo ’94. Dopo pochi mesi il governo lancia il più chiaro ed aperto attacco contro il sistema pensionistico mai registrato in Italia. È un guanto di sfida gettato con disprezzo ed arroganza in faccia ai lavoratori. Berlusconi non mira "solo" a far cassa per fronteggiare il debito pubblico (che, detto in sintesi, significa esclusivamente travasare dai salari verso i profitti e le rendite quote crescenti di ricchezza). Il cavaliere e la Confindustria puntano anche, ed in un certo senso principalmente, a cancellare, dopo la scala mobile, un ulteriore ed importante elemento di unità materiale del proletariato. L’obiettivo padronale è quello di dividere e spezzettare in tante parti il mondo del lavoro per frantumarne la capacità di resistenza collettiva, per azzerarne la forza politica.

La sfida viene raccolta. Di nuovo dalle fabbriche la mobilitazione si estende a tutti gli altri comparti. Dopo una serie di riusciti scioperi si da vita a Roma ad una manifestazione sindacale dalle dimensioni letteralmente imponenti. Ma ancora una volta il movimento si ferma a metà e fa suoi i richiami al "senso di responsabilità e moderazione" lanciati dai vertici sindacali e dei partiti dell’opposizione. Un esercito enorme è dispiegato sul campo, ma il suo obiettivo non è quello di dare battaglia alla complessiva politica del governo per cacciarlo con la lotta, bensì quello più "ragionevole" del ritiro e di una riformulazione della riforma pensionistica. La cosa sembra funzionare. Di lì a poco le misure previdenziali vengono stralciate dalla finanziaria e dopo qualche mese – a mobilitazione pienamente chiusa – la Lega passa all’opposizione e Berlusconi è costretto a rassegnare le dimissioni. Gli succede il governo "tecnico" Dini. Si, la cosa sembra funzionare, ma a ben vedere si tratta di…

..un’apparente "tregua" utile solo ai padroni.

La nuova situazione è accolta tra i lavoratori con un moderato sollievo: "Dini non sarà il massimo dalla vita, ma almeno il peggio è alle spalle ed ora, passo dopo passo, le cose torneranno a posto". Un ragionamento simile avrebbe potuto avere un senso se Berlusconi fosse stato cacciato dall’impeto delle lotte di piazza. In tal caso il nuovo governo (qualunque esso fosse) avrebbe avuto sul collo il fiato della mobilitazione operaia e con essa avrebbe dovuto fare i conti. Ma le cose non erano affatto andate così. Anzi, la preventiva ed inequivoca smobilitazione della piazza era stato il prezzo chiesto dai "poteri forti" per scaricare (transitoriamente!) il cavaliere. La borghesia italiana è restata infatti quasi sorpresa dalla capacità di reazione messa in campo dai lavoratori e capisce che la situazione non è ancora pienamente matura per un’offensiva tanto aperta. Meglio quindi prendere tempo e darsi ad un’opera meno "sfacciata" di erosione in profondità dei diritti dei lavoratori rimettendo su una parvenza di "concertazione sociale": il governo Dini risponde a questa precisa esigenza. La sua riforma pensionistica, tanto apprezzata dalle direzioni sindacali, è sicuramente meno frontale di quella berlusconiana, ma va esattamente nella stessa direzione. Abbassamento tutt’altro che inconsistente del grado di copertura della previdenza pubblica, innalzamento dell’età pensionabile e, soprattutto, diversificazione dei regimi pensionistici con forti penalizzazioni per le giovani generazioni.

Con Dini comincia di fatto la sequela dei cosiddetti governi "amici". Inizia quel periodo in cui si accettano passivamente tutta una serie di misure che attaccano, a volte neanche troppo sotterraneamente, le nostre condizioni. Nel silenzio quasi assoluto passa il "pacchetto Treu" che apre le porte al lavoro in affitto ed interinale. E passano tanti e tanti contratti in cui, in cambio di un certo qual mantenimento delle garanzie per "chi già lavora", si accetta che i neo assunti siano sottoposti a regimi di precarietà e sottosalario.

Ma non solo. È il periodo in cui viene scagliata l’aperta aggressione militare Nato (sotto guida di Usa e Italia) contro la Jugoslavia. Per 72 giorni su Belgrado e dintorni vengono scaricate tonnellate di bombe all’uranio impoverito e "convenzionali" che colpiscono ferocemente la popolazione, le infrastrutture e l’apparato produttivo. Cofferati ed i vertici sindacali benedicono la guerra "umanitaria" introducendo il concetto di "contingente necessità". Cioè -parlando terra terra- di necessità per "noi" Occidente, di colpire e dividere all’occorrenza quei popoli che non si inginocchiano ai "nostri" diktat. Colpirli e dividerli in "casa loro" ed allo stesso tempo qui "da noi", dove viene promulgata sull’immigrazione la legge Turco-Napolitano, autentica progenitrice dell’attuale e razzista legge Bossi-Fini.

La "tregua" c’è, regge ed i padroni la usano bene soprattutto per frantumare in mille rivoli il mondo del lavoro e per preparare il terreno a nuovi violenti affondi con…

…il ritorno di Berlusconi.

E’ cronaca. Da un lato: legge Cirami, condoni per i grandi evasori e ladri di Stato, depenalizzazione del "falso in bilancio", defiscalizzazione per le imprese, ecc. ecc.

Dall’altro: attacco all’articolo 18, alle pensioni, alla scuola ed alla sanità pubblica, ulteriore spinta alla precarizzazione del mercato del lavoro, attacco al contratto metalmeccanico (che come nel caso del "patto per l’Italia" vede Cisl e Uil al fianco di governo e Confindustria), legge Bossi-Fini finalizzata a fare degli immigrati dei lavoratori di serie "C". Il tutto mentre l’Italia è sempre più partecipe alla guerra schiavista e permanente dell’Occidente contro i popoli del Sud e dell’Est del mondo. Non c’è che dire. Il colpo d’acceleratore che la borghesia ha dato attraverso il cavaliere è notevole.

E noi lavoratori? A difesa dell’articolo 18 abbiamo scioperato compatti e, a Roma il 23 marzo 2002, abbiamo dato vita alla "più grande manifestazione sindacale di tutti i tempi". Di fronte a ciò il governo si è limitato a ritoccare leggermente e a rimandare una parte dei suoi provvedimenti in materia. Tanto, di fatto, è bastato per rassicurare la piazza ed indurla ad andare verso la smobilitazione piuttosto che – come invece sarebbe stato possibile e necessario - ad intensificare la lotta intorno all’obiettivo di buttare giù Berlusconi. Il governo ha preso fiato ed è tornato all’offensiva ampliandone il raggio d’azione. In rapida successione: approvazione della controriforma scolastica Moratti, della "legge 30" (con il suo carico di legalizzazione del lavoro nero, super precario, sotto pagato e del caporalato) e, da ultimo, aggressione diretta alle pensioni. Altro che governo ridotto a "più miti consigli"!

Nella primavera del 2002 eravamo tantissimi in piazza. Eppure, ancora una volta, i risultati che abbiamo ottenuto sono stati assolutamente sproporzionati rispetto al potenziale di forza di cui disponevamo. Non ci sono mancati i numeri, la quantità, quello che è mancato e di cui c’è assoluto bisogno è…

…la conquista di una politica di classe.

"Il governo Berlusconi si sta delegittimando agli occhi della maggioranza del paese, se sapremo far trascorrere il prossimo anno e mezzo senza lasciarci andare a colpi di testa vi sono discrete possibilità di vincere le prossime elezioni". Questo, ad occhio e croce, il ragionamento che viene proposto dall’opposizione e che è fatto proprio da una consistente parte del mondo del lavoro.

Ma davvero attraverso tale prospettiva potremo cominciare a risalire la china, o quanto meno, a non arretrare ulteriormente? L’esperienza dovrebbe dirci qualcosa in proposito. Ma, se non bastasse, ecco i vari Fassino e Rutelli chiarire quotidianamente che gli assi portanti dell’azione di un ipotetico nuovo esecutivo dell’Ulivo saranno, ancor più che nel passato, il mercato, la competitività e le compatibilità del capitalismo aziendale e nazionale. Eccoli dunque criticare la riforma delle pensioni o la "legge 30" non per la loro sostanza, ma per la mancanza di gradualità e per lo "scarso coinvolgimento delle parti sociali". Ed eccoli quindi da lunga pezza impegnati, assieme ai vertici della stessa Cgil, per evitare che le lotte contro Berlusconi si "politicizzino eccessivamente", per far si che queste restino al più battaglie contro "singoli" provvedimenti e non trascrescano in mobilitazione generale contro la complessiva politica del governo e per il suo licenziamento in piazza.

I leader del centrosinistra (e dintorni) sanno infatti molto bene che se il cavaliere venisse licenziato a "furor di popolo", un loro eventuale governo sarebbe da questo stesso "furor di popolo" sorvegliato a vista. Hanno dunque le loro più che buone ragioni per temere il dispiegarsi di una generale battaglia di piazza contro Berlusconi. Di una tale "paura", invece, noi lavoratori dobbiamo liberarcene. Si, dobbiamo cestinare la logica per cui le mobilitazioni debbono essere condotte col freno a mano tirato in modo da non mettere in pericolo "delicati" equilibri interni all’Ulivo e non "compromettere" la prospettiva elettorale.

E, parimenti, dobbiamo cominciare a disfarci di quell’idea che ci porta ad auto limitare – nelle forme e negli obiettivi - le nostre lotte per il timore che, altrimenti, resteremmo isolati e perderemmo consensi nel resto della società. La forza di trascinamento che il movimento del 1994 e del 2002 ha denotato soprattutto nelle fasi in cui è stato ed è apparso più risoluto, ci dice che la cosa funziona in modo esattamente opposto. Infatti soltanto una battaglia a tutto campo che si dimostri decisa e determinata può compattare l’intero mondo salariato ed, inoltre, aggregare e disciplinare ad essa anche settori sociali che salariati non sono, ma che comunque subiscono la pressione e le angherie del grande capitale industriale, finanziario e commerciale. Ma, soprattutto, come, se non per tal via, si può saldare quell’autentica e gravissima spaccatura generazionale che ormai attraversa in profondità il mondo del lavoro?

Quando partì la lotta per la difesa dell’articolo 18 tanti precari, interinali, a "partita iva"., in "nero", "co.co.co". e via dicendo, riempirono le piazze insieme ai cosiddetti "garantiti". Questi giovani lavoratori non avevano alcun articolo 18 da difendere, eppure erano attratti dalla freschezza iniziale della mobilitazione montante. Giustamente intuivano che solo nell’ambito di un più generale e vasto movimento anche la loro "particolare" situazione avrebbe potuto essere affrontata efficacemente. La conduzione della mobilitazione - con la sua più che prematura sospensione e con il suo non avere fatto proprio in modo esplicito e chiaro anche il problema del lavoro giovanile e precario - non ha certo aiutato a rafforzare e stabilizzare questi primi ed importanti segnali di "avvicinamento". Ennesima dimostrazione, questa, di come pensare di difendere i nostri diritti nel rispetto delle compatibilità di "sistema" e senza voler intaccare le esigenze di concorrenzialità e di profitto delle imprese, porta a risultati sempre più scarsi sul piano immediato ed ancor peggiori su quello generale.

Salari ridotti, diritti striminziti, precarietà a iosa e pensione che a chi è entrato nell’ultimo decennio "a lavorare" appare un miraggio o una barzelletta: è su queste materiali basi che in questi anni è stato edificato quel muro di vera e propria incomunicabilità tra le "vecchie" e le "nuove" generazioni lavoratrici. Questo muro deve essere abbattuto. Come deve essere abbattuto ogni muro tra lavoratori italiani ed immigrati, tra lavoratori del Nord e del Sud. E questi muri li potremo buttare giù solo iniziando a porci su un terreno di lotta contro la complessiva politica governativa e padronale, contro le sue necessità e le sue compatibilità. E cominciando a dare battaglia per andare in questa direzione anche nella necessaria, e affatto semplice, mobilitazione per la difesa delle pensioni; non nella prospettiva di un Ulivo-bis, ma in quella di un ricompattamento e di una riorganizzazione della nostra forza di classe a scala interna ed internazionale.