Agli occhi degli sfruttati di Baghdad, di Ramallah e di tutto il Sud del mondo...

Come si disonora il comunismo

Alcuni lavoratori si chiedono: "Ma perché le iniziative contro l’occupazione occidentale dell’Iraq si raccolgono attorno a programmi e organizzazioni islamici o nazionalisti, e non invece attorno alla bandiera rossa?"

La risposta sta anche in quello che, nel nome di questa bandiera, è stato fatto in Iraq e nel mondo intero dalla seconda guerra mondiale in poi. In ciò che, sempre nel suo nome, viene compiuto oggi. In Iraq e, ad esempio sotto la firma di Bertinotti, in Europa.

 


In Iraq operano attualmente (per quello che sappiamo) due formazioni politiche che si rifanno, nella loro denominazione, al comunismo.

La prima è il Partito comunista iracheno, lontano discendente dall’omonimo partito fondato nel 1935, il quale aveva nel suo programma l’annullamento dei trattati semi-coloniali e l’espulsione degli imperialisti dall’Iraq (con la requisizione di tutte le loro proprietà), l’abolizione dei debiti sulla terra, l’espropriazione dei latifondi e la distribuzione della terra ai contadini, la concentrazione del potere politico nelle mani degli operai e dei contadini, la completa indipendenza per il popolo curdo ed infine, ma non per ultimo, la formazione di una Unione delle repubbliche dei lavoratori e dei contadini del mondo arabo. Questo partito, il più influente partito "comunista" del mondo arabo, ha svolto, tra gli anni ’30 e la metà degli anni ’60, una parte di grande rilievo nell’organizzazione delle classi sfruttate in Iraq. Ma proprio nello svolto storico in cui la "rivoluzione araba" avrebbe potuto trovare un momento di unità al di sopra delle artificiali frontiere tracciate dal colonialismo, il Pci, interprete in Iraq della politica stalinista di nazionalizzazione delle masse proletarie, ne rinchiuse e depotenziò la energia di lotta in un quadro strettamente iracheno, staccandole dalla prospettiva di una rivoluzione anti-imperialista capace di sollevare ed unire l’intero mondo degli sfruttati arabi.

Nella congiuntura attuale i capi di quel che di esso è sopravvissuto alla repressione saddamita hanno fatto perfino di peggio, accettando di entrare nel governo-fantoccio costituito dagli Usa e di "aprire uffici dappertutto sotto la protezione delle forze di occupazione statunitensi", secondo la denuncia di Ahmed Karim, uno dei dirigenti dissidenti del Pci, il quale afferma: "Prima di questo incredibile tradimento, la direzione del partito era già moribonda per il suo implicito sostegno all’embargo genocida (!) e all’aggressione militare (!). Ma ora essa è completamente bruciata, defunta. Ogni comunista degno di questo nome deve essere in prima fila nella resistenza, con le masse. Chiunque serva l’occupante, è un nemico del popolo e per tale va combattuto". Karim dice pure un’altra cosa sacrosanta, e cioè che "soltanto attraverso la lotta", soltanto cioè attraverso la partecipazione alla lotta di liberazione nazionale in corso, "sarà possibile ricostruire il movimento comunista" in Iraq. Verissimo. Salvo, però, che ancora una volta la lotta dei comunisti viene concepita come possibile solo all’interno di un indistinto fronte nazionale: e su questo naufraga in partenza -rispetto ai fini propri di un partito comunista autentico- anche il gruppo denominato "Opposizione patriottica del Pci". Lavorare per l’unità tra le masse sfruttate egemonizzate dalle correnti islamiste e nazionaliste con quelle che ancora fanno qualche riferimento al comunismo, per l’unità del nuovo moto anti-imperialista, è più che giusto, ma lo si può fare solo attraverso la più completa indipendenza programmatica e organizzativa dei comunisti. Ciò di cui, nelle parole di Karim, non vi è alcuna traccia.

Non meglio vanno le cose se consideriamo la politica del Partito comunista operaio dell’Iraq, una formazione di recente costituzione, nato dalla scomposizione del giovane, promettente movimento marxista iraniano degli anni ’80 e contrassegnato da una vera e propria deriva in senso economicista e riformista. In una recente presa di posizione di questa formazione si legge che "il Partito comunista operaio lotta per organizzare le masse e sviluppare la loro protesta nella forma di un movimento politico di massa attraverso tutto l’Iraq e lotta altresì per cacciare gli Stati Uniti ed i loro alleati e per costruire in Iraq un regime delle masse". Una intenzione più che lodevole, sebbene il tema del "regime delle masse" ("the masses’ own regime") risulti alquanto generico. Ma il fatto è che questa formazione politica, attivamente impegnata oggi, a quel che ci risulta, soprattutto nella organizzazione di leghe di disoccupati (e "regolarmente" repressa dai nostri "bravi ragazzi" in quel di Nassiriya), concepisce e pratica questa sua prospettiva di lotta separatamente ed in opposizione, anzi, rispetto alla resistenza armata all’occupante che infuria dappertutto in Iraq. Una resistenza che, incredibilmente, viene posta sullo stesso piano della guerra di aggressione degli Stati Uniti e degli alleati. Leggere per credere: "La guerra [scatenata dagli Stati Uniti] continua. La resistenza dei resti del regime baath, dei nazionalisti e dei gruppi islamici è parte di questa guerra. Tuttavia questa guerra e quelli che la conducono non hanno nulla a che vedere con i diritti ed il futuro del popolo dell’Iraq, ma sono completamente contro gli interessi delle masse. Per raggiungere i loro obiettivi reazionari questi gruppi sacrificano la gente e compromettono le fondamenta della vita sociale". Qui la più che comprensibile e ultra-giustificata presa di distanze dalle direzioni della resistenza in atto diventa squalifica del carattere popolare di questa resistenza ed estraniazione da essa, separazione dalle masse che la sostengono e vi partecipano, con l’accusa, inammissibile, rivolta alla resistenza irachena di compromettere le fondamenta della vita sociale, "dimenticando" quali sono le forze che dal 1990, almeno, sono le prime responsabili della devastazione della vita civile in Iraq. Del resto, questa formazione era tra quelle che, in modo non troppo diverso dal Pc iracheno, si collocò "in mezzo" tra l’aggressione all’Iraq dell’imperialismo (ecco un termine che non ritorna mai nei testi del Pcoi) e la resistenza ad essa, con il dichiararsi contro la guerra sì, ma senza alcuna reale mobilitazione in favore della resistenza all’aggressione.

Se a questo aggiungete che l’Internazionale socialista ha pienamente avallato ex -post l’operato statunitense con il riconoscimento del "governo iracheno" di Chalabi&C., allora non sarà difficile capire perché tornano ad ingrossarsi in Iraq le file dei raggruppamenti islamisti, nonostante le ambiguità dei loro capi, il "radicale" Muqtada Sadr compreso. Le masse sfruttate irachene non possono certo riconoscersi in chi collabora con le truppe occupanti o si estranea dalla lotta -necessariamente anche armata- contro di esse!

Non sono pochi, in Iraq come in Occidente (parliamo altrove dei Bertinotti), quelli che fanno il possibile per disonorare il comunismo agli occhi delle masse oppresse del mondo arabo-islamico (e non solo), sicché per ridare al comunismo l’onore di un tempo ci sarà davvero da lavorare sodo. Qui e lì.


Bertinotti si confessa

"Non sono più la bellissima algerina..."

Nella marcia di Rifondazione verso il nuovo governo Prodi, non poteva mancare la solita sequela di preventive abiure che costellano il cammino al "potere" (ancorché soltanto ipotetico, per ora) di quei partiti riformisti o sotto-riformisti che per forza di inerzia conservano ancora nel proprio nome il riferimento al comunismo. Attraverso le abiure si cerca di rassicurare i veri padroni del vapore che nulla più hanno da temere dai loro "antagonisti" di un tempo.

Ed ecco quindi Bertinotti, già candidato da D’Alema ad un futuro ministero nel futuribile Ministero, dare bella prova di sé abiurando per sempre, quale sorella gemella della "guerra preventiva" di Bush, la "violenza politica" degli sfruttati e degli oppressi. Il pretesto, c’è bisogno di dirlo?, gli è stato fornito da quel povero, malinconico fantasma che è "il terrorismo delle Br". Ma egli si guarda bene dal fermarsi lì e taglia il traguardo di questa nuova abiura come una saetta. Sentitelo, netto:

"Se con l’album di famiglia vogliamo evocare il tema della violenza politica propria della storia della sinistra e del movimento operaio, e dire dunque che chi abbiamo di fronte è figlio della nostra storia, sarò netto [‘lo devi essere, caro’]. Tutte le culture politiche che escono dall’esperienza del ‘900 hanno il loro album di famiglia. Tutti i pensieri forti, religiosi e politici, contengono un irrisolto problema con la violenza. (...) Le culture terzomondiste sono imbevute di violenza, lì dove arrivano a teorizzare che ‘l’identità del colonizzato passa per l’uccisione del colono’ [del colonizzatore, semmai]. Nell’intera storia del movimento operaio è presente la distruzione dell’avversario. Dunque tutti, ripeto: tutti, sono chiamati oggi a fare i conti con il concetto di violenza."

Viene spontaneo chiedersi: da chi e perché sono "chiamati" tutti; e poi: perché sono chiamati proprio "oggi"; ed infine: chi sono mai questi "tutti"? La risposta la dà lo stesso ex-sub-comandante in persona, attraverso un aneddoto davvero edificante che mostra quanto il suo animo, un tempo impuro, si è infine mondato dai cattivi pensieri (eh, nient’altro che pensieri). Sentitelo, come fosse già dentro il salotto buono:

"La racconto [sta parlando della conversione sulla via del governo, pardon: della non violenza] con un episodio significativo non solo del mio percorso, ma di quello del mio partito e del suo approdo. Conosce ‘La battaglia di Algeri’ di Pontecorvo? Bene, ho visto quel film almeno dieci volte. Ne conosco a memoria le sequenze. Ora, per una vita mi sono riconosciuto, di più, mi sono immedesimato nella bellissima algerina che si fa saltare in un bar affollato di vita e di civili nella parte francese di Algeri [affollato, cioè, di occupanti francesi che "si godono la vita" dentro Algeri occupata], durante l’operazione di insurrezione -anzi no, chiamiamo le cose con il loro nome [‘devi farlo, caro’]- durante l’operazione terroristica contro le truppe francesi [non violente? Il neo-ministro in pectore ha dimenticato di aggettivarle...]. Sarei voluto essere lei, se soltanto ne avessi avuto il coraggio [questo "se" è ben posto, invece]. Ero, lo dico senza timori, corresponsabile politico di quel massacro [quando ero ancora un peccatore]. Oggi, mi capita di rivedere quella sequenza e quella complicità si è dissolta."

Eccoci al punto: il problema non poteva essere i sei o sette "brigatisti" autoctoni, ma le "culture terzomondiste" e le prassi di lotta al nostro colonialismo imperialista, per chiamare le cose con il loro nome. Le "culture" (anche "religiose") e le prassi di lotta frontale al capitalismo, da cui non solo i colorati ma anche il "movimento operaio" occidentale tutto dovrebbe mondarsi. Chi "ci" chiama "tutti" a questa abiura? Banalissimo. La nostra appartenenza all’Occidente, anzi meglio: alle istituzioni statuali dell’Occidente, parlamenti, governi, stati e quant’altro, che sono le istituzioni della più bestiale violenza di oppressione concrentrata che mai la storia abbia conosciuto. E ci chiama "oggi" perché oggi, e ancor più domani, queste istituzioni sono e saranno impegnate in uno scontro violento con chi non vuole accettare le loro leggi di sfruttamento e di morte, e si deve perciò, condannare radicalmente e preventivamente tutte le forme di violenza a cui gli sfruttati dovranno far ricorso. La lotta di liberazione nazionale, l’insurrezione popolare, la rivoluzione sociale proletaria debbono essere messe al bando insieme con i "pensieri forti", il pensiero -Bertinotti sa qual è, sebbene non sia mai stato marxista- che osa sfidare quest’ordine sociale che sta di continuo delegittimando sé stesso, e che sempre più potrà far ricorso solo alla paura, al "monopolio legittimo dell’uso della forza" e della dittatura di classe.

L’Occidente, alle prese con la magnifica resistenza irachena, "ci" chiama a giurare sul suo ordine. Il sub-ministro ulivista in pectore prontamente risponde: "Presente! Non sono più la bellissima algerina del tempo che fu". Oh, non ne avevamo mai dubitato. È già sull’attenti? No, non ancora. Dategli il tempo di cambiarsi d’abito.