A proposito di "diversità"del

"modello sociale" europeo

Molteplici sono gli aspetti della vita economica, sociale e politica che mostrano quanto la "diversità" del modello capitalistico europeo rispetto a quello degli Usa sia nella sostanza inesistente. Uno, però, è particolarmente rivelatore: quello del trattamento che i paesi europei riservano agli immigrati. Ne parla, con una documentazione ricca ed estesa, un volume uscito di recente, curato da P. Basso e F. Perocco: Gli immigrati in Europa. Diseguaglianze, razzismo, lotte (Franco Angeli, Milano, 2003, 25,00 euro). Soprattutto nella sua seconda sezione vengono passate in rassegna la condizione lavorativa, la vita sociale e le politiche statali che gli immigrati conoscono in Svizzera, in Belgio, in Germania, in Francia, in Gran Bretagna, in Italia, in Spagna. L’"inconsueto" quadro che ne emerge è netto ed unitario: gli immigrati sono lavoratori e cittadini di serie B. I saggi relativi a questa parte del testo, sottolineano inoltre che tutto ciò non è una novità di giornata, introdotta dalla legge Bossi-Fini. In questa materia, la "diversa" Europa ha "una lunga tradizione, che attraversa (e collega tra loro) il liberalismo classico, il nazi-fascismo, le democrazie, il vecchio e il nuovo colonialismo." Oltre a questa articolata ricognizione, il volume si preoccupa anche di analizzare le cause strutturali dell’immigrazione per vedere meglio quale possa essere la via per lottare contro le diseguaglianze e il razzismo.

È senso comune nella cosiddetta "opinione pubblica" attribuire l’origine delle attuali migrazioni internazionali alla "povertà, i disastri ecologici, i conflitti armati, il razzismo, le persecuzioni politiche e religiose". Non c’è dubbio che le cose stiano empiricamente così. Ma queste cause vengono trattate, si afferma nel libro, "quasi fossero cause senza causa, e senza alcun legame tra loro e con il sistema dell’economia mondiale". Invece questo legame c’è. Il volume lo ricostruisce nella sua prima sezione, e lo fa con un’indagine della storia del capitalismo, da cui emerge che il meccanismo strutturale che ha trasformato l’Europa da continente di emigrazione in continente di immigrazione continuerà ad operare nel prevedibile futuro. Perché sono destinate a crescere le diseguaglianze di sviluppo tra Occidente e resto del mondo da cui esso nasce. Perché le masse lavoratrici sprofondate all’Est e al Sud da queste diseguaglianze in una vita senza speranza non sono disposte ad accettarla e cercano in Occidente un destino diverso. Perché il capitalismo europeo ha bisogno di manodopera abbondante a basso prezzo per rimpinguare il suo esangue tasso di accumulazione.

Non inganni, sottolineano gli autori, il fatto che ufficialmente i paesi europei brandiscano le politiche di "immigrazione zero". Esse non hanno l’obiettivo di fermare le migrazioni, di respingere gli immigrati alle porte della fortezza europea, ma di "accoglierli" mettendoli nella condizione di clandestini, e così renderli ricattati nel lavoro e nella società. Insieme con l’arrivo degli immigrati, continuera quindi a crescere, su questa base, l’offensiva razzista contro i lavoratori immigrati, vista dagli autori come il riflesso (agente) della sottomissione operata dagli stati capitalistici d’Occidente sui popoli del Sud e dell’Est del mondo. "Prima di esserne il sottoprodotto nel mondo dei pensieri e delle sensazioni, il razzismo è un rapporto sociale di oppressione tra classi, tra razze, tra nazioni, tra generi."

Proprio per questo, l’opposizione al razzismo che i curatori sollecitano, non ha niente a che fare con "le visioni e le pratiche paternalistiche che raffigurano gli immigrati come dei poveri disperati meritevoli della pietà della parte buona della società"; o "con un certo garantismo piagnone che li vede come dei condannati senza appello a una perpetua ‘invisibilità’ dall’onnipotenza di uno ‘stato penale’ a cui non si potrebbe opporre nient’altro se non lo sdegno della parte veramente democratica della società (bianca)"; o con chi si limita "a invocare ‘tolleranza’ e ‘rispetto’ per la cultura, la religione, gli usi diversi dai nostri delle popolazioni immigrate". La distruzione dell’apartheid che pesa sugli immigrati viene legata alla distruzione della ragnatela di rapporti economici, politici, militari che la determina e all’azione dell’unica forza in grado di compierla: la lotta di coloro che la subiscono, dei lavoratori immigrati; la loro organizzazione collettiva attorno al riconoscimento dei propri comuni interessi e della propria forza. Insieme, si afferma nell’introduzione e in altri saggi, all’"auto-attività" della classe lavoratrice mondiale di cui essi sono parte e contro cui, ugualmente, è rivolto l’apartheid verso gli immigrati.

Di questi tempi può sembrare una fantasticheria far riferimento al protagonismo storico degli immigrati e della classe sfruttata. Eppure il volume mostra come il novecento abbia visto gli immigrati partecipare per se stessi e per gli interessi generali della propria classe alle battaglie più significative di quest’ultima. Esemplare quello che accadde negli Usa all’inizio del novecento. Oppure in Germania sia a cavallo della prima guerra mondiale che alla ripresa di lotte della fine degli anni sessanta. Oppure ancora, quest’oggi, con le iniziative in corso in vari paesi europei da parte dei sans papier e degli immigrati in genere. Il volume affronta quest’ultimo, fondamentale momento nella sua terza sezione. Con un affresco che tocca le lotte per il riconoscimento dei sans papier in Francia, ricostruisce i percorsi di organizzazione degli immigrati in Italia dagli anni ottanta ad oggi, descrive i momenti più significativi delle lotte degli immigrati in Svizzera nel dopoguerra e il recente conflitto sulla regolarizzazione in Belgio. Il puzzle trova un altro tassello nel racconto, presentato nel saggio su El Ejido, della risposta dei proletari marocchini al pogrom subìto nel febbraio 2000: lo sciopero spontaneo di quasi una settimana. "I fatti di El Ejido, in questo senso, hanno avuto come effetto principale la presa di coscienza del loro ruolo-chiave da parte dei lavoratori immigrati che non sempre hanno trovato nei sindacati o nel ‘privato sociale’ dei sostenitori troppo convinti."

La condizione di doppia oppressione e d’isolamento dai lavoratori "bianchi" spiega una "particolarità" che ritorna nelle varie esperienze di lotta. L’immigrato sente di far parte del più generale mondo del lavoro, ma, allo stesso tempo "avverte che la sua è una condizione a parte all’interno di questo mondo; che per tentarne di uscire egli deve reagire in prima persona, in unità con quelli che vivono la sua stessa esperienza; e perciò la sua prima forma di autodifesa è negli organismi ‘comunitari’ o nelle associazioni ‘multinazionali’ degli immigrati".

Questo, si nota nel libro, non è sintomo di conservatorismo o di chiusura. Quando l’immigrato "ripiega in modo difensivo nelle proprie ‘comunità’, nell’esaltazione delle proprie tradizioni, della propria storia culturale (cioè del proprio popolo, della propria nazione), egli ne opera una trasformazione e se ne serve come mezzo di conflitto con le società metropolitane". Ma è proprio in questo conflitto che egli "sperimenta l’insufficienza di una resistenza separata rispetto ai lavoratori ed alla gente comune autoctona e si protende in questa direzione alla ricerca di contatti, di sostegni, di solidarietà più ampie, portandovi sempre con il suo caso ‘individuale’ la questione comune e collettiva della crescente rovina dei popoli di colore che resta lo sfondo incancellabile del dramma dell’emigrazione forzata dal Terzo Mondo".

Alla luce di tutto ciò, cosa prevedono gli autori per il futuro? Una riaccensione del conflitto di classe capace di incorporare in sé le aspettative, i bisogni e le forze dei lavoratori immigrati? Il rovesciamento di segno che il mercato istituisce tra lavoratori immigrati e indigeni, facendo della lotta degli uni la condizione per l’avanzamento degli altri e e per lo svilulppo di una comune battaglia anti-capitalistica? Oppure la riaccensione dei vecchi conflitti coloniali capace di scagliare gli uni contro gli altri lavoratori di colore e lavoratori bianchi?

"La partita è aperta -scrivono i curatori. E per le genti e i proletari dell’Europa sarà forse il caso di tenere a mente un paio di ‘osservazioni’ di Marx: ‘un popolo che ne opprime altri, non può essere libero"; "il lavoro in pelle bianca non può emanciparsi là dove è marchiato a fuoco quando è in pelle nera".