Il lavoro precario avanza anche in Europa.

 

È pura propaganda quella che ciancia di un’Europa "ancorata a regole difensive e a un’elevata protezione sociale del lavoro". Un’indagine del 2000 evidenzia mediamente nel vecchio continente un 20% della popolazione che "sopporta a diverso titolo (condizioni di lavoro, salari, orari, protezione sociale, formazione) le conseguenze della flessibilità del lavoro e dell’occupazione": i lavoratori a part-time e a termine, messi insieme, vi rappresentano mediamente il 29% degli occupati (il 18% gli uni, l’11,4% gli altri) (1). La vasta area del lavoro flessibile e atipico, peraltro, si è sviluppata nei diversi paesi dando la preferenza all’una o all’altra tipologia di rapporto: in Olanda sono occupati a part-time il 41% del totale, in Spagna lo sono a termine il 26%. Le percentuali italiane (8% part-time, 7,5% a termine, 12% collaborazioni coordinate continuative -co.co.co.-) risultano più variegate e mettono in chiaro la preferenza per le collaborazioni, tipologia che affida la caratterizzazione della precarietà alla regolamentazione del rapporto come se si trattasse di lavoro autonomo o assimilato (2). Altra e più recente indagine Eurispes-Ispesl conferma che negli ultimi anni gli atipici in Italia sono passati dal 20,4% al 27,7% della forza-lavoro totale e ne stima la crescita ulteriore entro fine 2003 fino al 30%: "una situazione che riguarda più di 6.000.000 di lavoratori tra co.co.co., interinali, impiegati a tempo determinato o parziale, apprendisti e giovani in formazione lavoro".

I dati riferiti sono in continua trasformazione, perché il turn over privilegia enormemente "i nuovi lavori". In paesi come Francia, Regno Unito e Stati Uniti oltre l’80% del totale degli occupati sono -alla data del 2000- lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, ma contemporaneamente l’80% dei nuovi assunti vengono assunti a termine. Un’indagine riferita all’Italia attribuisce la crescita occupazionale registrata negli ultimi anni dall’Istat all’aumento dei lavoratori atipici, e innanzitutto a quello considerevole delle collaborazioni coordinate continuative (3).

Altro aspetto di rilievo è che "le donne sono state le prime a sperimentare la flessibilità dell’occupazione e a subirne gli inconvenienti". La componente femminile dei co.co.co. è pari al 46,2% contro una presenza del 37,7% sul totale dell’occupazione in Italia5. Mentre sui 256.000 occupati in più rilevati dall’Istat da luglio ’98 a luglio ’99, ascrivibili quasi totalmente al lavoro atipico, le donne rappresentano ben il 77,3%. Infine le donne co.co.co. sono massicciamente presenti nelle fasce più basse di reddito (quelle fino a 250 euro e tra 250 e 500) e del tutto assenti in quelle superiori.

I co.co.co. sono passati dagli 882.000 del ’96, al 1.700.000 del ’99, ai 2.800.000 attuali. Già a settembre ’99 corrispondevano in termini numerici "quasi alla realtà occupazionale dell’intero settore metalmeccanico". Dato questo che non risulta contraddetto dal fatto che una quota di co.co.co. sarebbero, come possono essere, dei professionisti, perché una fonte insospettabile ci suggerisce la realtà evidente a tutti: "soltanto un quarto dei parasubordinati sono realmente collaboratori", mentre "gli altri sono dipendenti camuffati" e ciò anche in base alla circostanza che l’87% di essi hanno un solo committente.

(1) Barbier-Nadel, La flessibilità del lavoro e dell’occupazione, Donzelli Editore, ?, 2002. Il part-time -che riguarda il 17,4% dell’occupazione femminile a fronte del 3,5% di quella maschile- è spesso involontario, soprattutto nella piccola impresa.

(2) Ovviamente la preferenza italica per il cosiddetto lavoro parasubordinato sta insieme a percentuali di tutto rispetto del lavoro semplicemente in nero, che secondo le stime ufficiali rappresenta il 23% del volume complessivo di lavoro, con un tasso di irregolarità medio del 34% nel Mezzogiorno, contro il 17,5% del Centro-Nord.

(3) Vedi l’indagine di Altieri-Oteri in Altieri-Carrieri, Il popolo del 10%, Donzelli Editore, ?, 2000. Da luglio ’98 a luglio ’99 le assunzioni in Italia hanno riguardato per il 55% il lavoro dipendente a tempo determinato (che rappresenta invece il 10% del lavoro dipendente complessivo) e per il 39% il part-time (che rappresenta l’8% del lavoro dipendente complessivo, di cui un terzo a tempo determinato).