"Un’offerta del Sud al Nord del mondo":

è il biglietto con cui si presenta il libro di Tariq Ali Bush in Babilonia .

"Se si ripetono

i vecchi errori,

i nemici marceranno

come formiche sulla nostra  debolezza."

 

 

"L’Iraq, oggi, è il primo paese nel quale possiamo studiare l’impatto di una conquista e una colonizzazione datate ventunesimo secolo.

Era per prevenire una tale calamità che, il 15 febbraio 2003, più di dieci milioni di persone hanno marciato per le strade del mondo. Presumo che molti di voi fossero a Roma, ce n’erano due milioni. Presumo che molti di voi fossero a quella manifestazione.

Perché, allora, tante persone che si sono opposte attivamente alla guerra hanno assunto un atteggiamento passivo di fronte all’occupazione? E’ possibile che la mentalità coloniale, che molti di noi avevano sperato fosse un triste ricordo del passato, sia ancora radicata nell’inconscio collettivo del Nord del mondo? O lo è la convinzione, a essa collegata, che la civiltà occidentale debba essere imposta alle popolazioni degli Stati recalcitranti?"

Così inizia la prefazione al lettore italiano del bel libro di Tariq Ali Bush in Babilonia, la ricolonizzazione dell’Iraq (Fazi editore, Roma 2004, 14 euro). Già da queste prime battute si comprende che il testo non si limita a parlare tanto della politica con cui gli Stati Uniti e l’Occidente sono riusciti a "ricolonizzazare" l’Iraq. La sua preoccupazione centrale è vedere chi e come possa lottare contro di essa e batterla. L’autore è fulminante con i "campioni della pace" alla Chirac o alla Fischer (il ministro degli esteri "verde-morto" della Germania) o con l’Onu. Per Tariq Ali i protagonisti di questa opposizione possono essere solo da un lato il popolo iracheno e la sua resistenza (il "terrorismo" che ha di mira l’imperialismo) e dall’altro il movimento contro la guerra in Occidente. Ai quali, finora, non è riuscito di vincere, non solo per la forza dell’imperialismo. Hanno giocato e giocano, sostiene Tariq Ali, anche le loro debolezze interne. Per comprendere le quali, scrive l’autore, occorre prendere un lungo respiro e tornare indietro, scorrere la storia di questo orgoglioso e indomito popolo, dalla caduta dell’impero ottomano, alla dominazione occidentale, dalla lotta di liberazione nazionale alla nazionalizzazione del petrolio (il grande torto che l’Iraq ha verso l’Occidente e di cui se ne sta chiedendo il conto!) fino ai nostri giorni.

Perché

siamo accusati

di "terrorismo"

 

Siamo accusati di terrorismo

perché rifiutiamo di morire

con i bulldozer di Israele

che distruggono la nostra terra

distruggono la nostra storia

distruggono il nostro Vangelo

distruggono il nostro Corano

distruggono le tombe dei nostri profeti;

se questo fu il nostro peccato,

allora, non è bello il terrorismo?

(...)

Siamo accusati di terrorismo

perché abbiamo difeso la nostra terra

e l’onore della polvere

perché ci siamo rivoltati contro lo stupro della gente

e il nostro stupro

perché abbiamo difeso le ultime palme del nostro deserto

le ultime stelle del nostro cielo

le ultime sillabe dei nostri nomi

le ultime gocce di latte nel petto delle nostre madri.

Se questo fu il nostro peccato

com’è bello il terrorismo.

Londra, 15 aprile 1997

"Questo libro -scrive Tariq Ali- mette in relazione la storia araba e irachena alla politica mondiale. Senza conoscere il passato, è impossibile capire quello che sta accadendo oggi, e la storia è qui presentata come monito, sia per chi occupa che per chi resiste. Chi resiste eviterà, io spero, gli errori e non ripeterà le tragedie che hanno permesso che ci fosse l’occupazione. Non sono uno di quelli che credono che ogni singolo disastro che ha colpito il mondo arabo sia un risultato dell’intervento occidentale. Spesso l’Occidente ha sfruttato la debolezza araba per aggiudicarsi delle vittorie. Le ferite che il mondo arabo si è auto-inflitto vengono ampiamente discusse in questo libro perché, senza comprenderne le cause, sarà difficile poter guardare di nuovo al futuro… Se si ripetono i vecchi errori, i nemici marceranno come formiche sulla nostra debolezza."

Tariq ci racconta la "storia araba e irachena in relazione alla politica mondiale" attraverso gli incontri con alcuni dei protagonisti, spesso anonimi, di essa o le composizioni degli scrittori dell’Iraq. Il che, anziché edulcolare la trama politica vissuta da questo popolo e dagli sfruttati mediorientali, permette al lettore di metterla a fuoco con vivacità. E così scopriamo che, oggi come ieri nel 1920 e nel 1948 e poi ancora nel 1958, la resistenza deve fare i conti con gli "sciacalli delle nozze" interni al popolo iracheno e arabo. Tariq Ali ce ne indica gli interessi materiali e soprattutto, con gli episodi che racconda, ce ne descrive il viscido e opportunistico comportamento politico, le spietate persecuzioni contro i militanti antimperialisti radicali e comunisti, la meschina umanità.

Viva l’Infitada palestinese!

Ai "ragazzi di Gaza" si sono affiancati

i "figli delle sanzioni" in Iraq...

"Gli infuriati"

O ragazzi di Gaza,

insegnateci ad essere uomini,

perché da noi gli uomini

sono dei rammolliti.

Insegnateci come una pietra

nelle mani dei bambini

diventi un diamante prezioso,

come la bicicletta di un bambino

si trasformi in ordigno

e un nastro di seta

diventi una trappola,

come una bambina lattante,

se arrestata, si trasforma in coltello.

Ragazzi di Gaza non date ascolto

a noi, né alle nostre radio,

lottate con tutte le vostre forze,

risolvete la vostra questione,

senza chiedere il nostro parere.

Noi siamo dei calcolatori,

usiamo addizioni, sottrazioni,

voi, invece, lasciateci,

combattete la vostra guerra. (...)

Noi siamo dei morti senza tomba,

siamo degli orfani senza occhi,

siamo chiusi nelle nostre tane

chiedendo a voi di combattere il drago.

Dinanzi a voi siamo rimpiccioliti per secoli

voi in un mese siete cresciuti per secoli.

Ragazzi di Gaza,

non guardate quel che scriviamo,

non leggetelo,

non somigliate a noi, vostri padri,

noi siamo delle statue: non adorateci.

Noi abbiamo passione per il "qat" politico,

applichiamo la repressione,

costruiamo cimiteri e prigioni.

Liberateci dal complesso della paura,

cacciate l’oppio dalle nostre teste,

insegnateci l’attaccamento alla terra,

non lasciate triste il Cristo.

Cari piccoli, pace a voi,

Dio coroni le vostre giornate con gelsomini;

dai solchi della terra arida siete spuntati

per piantare una rosa

sulle nostre ferite.

 

(Nizâr Qabbân)

 

Il testo non manca di denunciare che tra gli "sciacalli" ci sono anche gruppi che si fregiano del nome di "comunisti". Così come non manca di fornire gli elementi per comprendere quanto questo sfregio è legato alle responsabilità del movimento comunista occidentale, alla sua degenerazione stalinista, rea di aver prodotto l’isolamento delle lotte di liberazione anti-coloniali del Sud del mondo e la conseguente chiusura di esse in una soluzione di tipo nazionalista.

"Il piccolo gruppo di intellettuali siriani che fondarono il ‘Rinascimento’ Ba’ath negli anni quaranta non era mai stato attratto dal fascismo. Il suo fondatore e ideologo più influente, Michel Aflaq, aveva studiato in Francia ed era attratto dal partito comunista francese. Il rifiuto da parte di quest’ultimo (durante il governo popolare del 1936) di insistere sulla libertà delle colonie come parte del programma del fronte popolare sorprese ed allontanò Aflaq. Fu questa esperienza che portò a ritenere che i leader del partito comunista avrebbero sempre anteposto i loro personali interessi o quelli dello stato sovietico ai bisogni oggettivi del povero e dell’oppresso, specialmente nelle colonie. Se questa era una dimostrazione pratica di ‘internazionalismo proletario’, allora sarebbe stato meglio, per i popoli del mondo coloniale o semicoloniale, dimenticare le frasi altisonanti, dimenticare l’Unione Sovietica e lottare per l’autoemancipazione come semplici nazionalisti. Così ragionava Aflaq, quando lui e Salah Bitar decisero di fondare un nuovo partito nel 1943. Questo punto di vista divenne un dogma dopo il 1948, quando i partiti comunisti arabi con l’eccezione dell’Iraq (mentre Fahd era ancora in vita), appoggiarono la creazione dello Stato d’Israele semplicemente perché quella era la politica ufficiale dei sovietici a quel tempo. Agirono cosi, e vale la pena ripeterlo, nonostante la risoluta opposizione di molti membri ebrei del partito egiziano e iracheno. Uno dei fondatori del partito comunista egiziano cambiò il suo nome ebreo per proteste dopo la creazione di Israele e rifiutò di lasciare il suo paese. Ma nulla di tutto ciò poteva giustificare la posizione ufficiale adottata da questi partiti. Divenne un elemento importante nell’antica ostilità che opponeva le due correnti antimperialiste nella regione rendendo molto più semplice, per il Ba’ath, la trasformazione in partito di massa" (p. 92).

In effetti, le debolezze del movimento di resistenza iracheno e arabo non sono cose diverse dalle debolezze del movimento contro la "guerra infinita" in Occidente. L’uno e l’altro sono i pulcini di una stessa chioccia. Potranno, potremo, superarle solo insieme.

Come? Molto rimane da dire su questo punto vitale, rispetto a quanto leggiamo nel "dono" che attraverso Tariq Ali il Sud del mondo offre al Nord. Sul che fare qui e lì, sulla necessità vitale di uno stretto collegamento tra la lotta delle masse oppresse del Sud del mondo e quella dei proletari del Nord del mondo, sulla necessità di una prospettiva di liberazione che o è dell’intera massa degli sfruttati dal capitalismo oppure non è una vera e duratura liberazione.

All’autore il merito di aver sollevato il velo su questi nodi, spazzando via mille mistificazioni.

Sulla storia irachena, in relazione alla politica mondiale, segnaliamo gli articoli pubblicati nei due precedenti numeri del nostro giornale e le indicazioni di ulteriori letture che vi sono suggerite.