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Dossier Cina

Le lotte del proletariato, oggi

Solo da pochi anni il proletariato della Cina è diventato quel gigante che ora è, e che tanto inquieta – per ragioni assai diverse da quelle dichiarate – i nostri governanti e padroni. La Cina popolare, infatti, ereditò dalla Cina imperiale in decomposizione una struttura industriale, e perciò un proletariato industriale, molto esile. Tale struttura era composta per lo più di cantieri navali e di imprese tessili, concentrati nelle città dominate dalle potenze imperialiste (Tientsin, Shanghai, Wuhan), e di un’industria estrattiva del carbone e del ferro anch’essa sotto il controllo del capitale estero, sebbene negli uni e nell’altra avesse parte il capitale autoctono legato al Kuomintang. Nel lungo periodo della guerra civile gli effettivi del proletariato industriale aumentarono di poco rispetto ai 2.750.000 operai del 1927, già capaci, tuttavia, delle magnifiche sollevazioni di Shanghai e Canton. Al 1949 erano censiti soltanto 3.004.000 lavoratori industriali su una popolazione di 548 milioni di persone; altrettanto minimale era la loro presenza all’interno del Partito comunista. Da quel momento in poi, però, l’occupazione nell’industria manifatturiera è cresciuta in modo esponenziale fino a toccare nel 1995 il tetto di 98 milioni di unità, il 75-80% delle quali costituito da operai e apprendisti. In mezzo secolo l’industria cinese ha messo in fila una serie di primati produttivi da stordire raggiungendo il primo posto nel mondo per volume di acciaio grezzo, carbone, cemento, cotonerie, televisori, il secondo quanto a produzione di elettricità, fertilizzanti, fibre chimiche, il quinto per il petrolio, e così via. Al 1949 l’85% della popolazione della Cina era dedito all’agricoltura e l’80% del suo prodotto globale proveniva dalle campagne; oggi l’agricoltura contribuisce alla formazione del PIL solo per il 16% (con il 45% della forza-lavoro globale), mentre l’attività industriale ne rappresenta il 50%.

Si tratta di un apparato industriale che, a cospetto di quello della gran parte degli altri paesi ex-colonizzati, è relativamente completo, con un certo equilibrio tra industria pesante e industria leggera, sebbene sia evidente la sua debolezza nella produzione di macchine per la produzione, nell’informatica (ad eccezione di quella di consumo) e in altri settori "di punta". Ciò significa che l’odierno proletariato cinese sta socializzandosi alle tecniche più moderne. E che, nello stesso tempo, sta facendo conoscenza diretta del mercato mondiale per il quale sempre più lavora: il 60% degli operai delle zone speciali per l’esportazione esistenti oggi nel mondo si trova in Cina. Sotto tali aspetti, esso è più vicino e "somigliante" di quanto sia mai stato al proletariato occidentale (senza esagerare, comunque, in facili assimilazioni), ed è ben per questo che si fa di tutto per farlo apparire il più lontano e diverso possibile.

Colpisce, anche, la sua massa. Poiché se al cuore degli operai della grande industria manifatturiera si aggiungono i 5-6 milioni di minatori, gli oltre 35 milioni di addetti all’edilizia, i 20 milioni di lavoratori dei trasporti e delle telecomunicazioni e il crescente contingente del lavoro industriale sommerso che coinvolge soprattutto i neo-emigrati dalla campagna, si arriva a circa 150 milioni di salariati dell’industria in senso lato. A cui vanno aggiunti almeno altrettanti proletari di altri rami dei "servizi" (commercio, ristorazione, etc.) e, soprattutto, di un’agricoltura in cui l’introduzione della proprietà privata, oltre che dei prodotti, dello stesso suolo sta incrementando il processo di espropriazione e proletarizzazione dei contadini poveri. A fine anni ‘90 Trini Leung (Perspectives chinoises, n. 48, luglio-agosto, p. 21) formulava la stima di una classe operaia cinese composta di 300 milioni di salariati su una forza-lavoro complessiva che era, a quell’anno, poco oltre i 700 milioni di unità, ed è oggi a quota 750 milioni. In ogni caso, al di là delle rischiose stime numeriche rese tali anche dalle sfuggenti statistiche del governo cinese (1), siamo davanti alla sezione ‘nazionale’ più imponente del proletariato mondiale, composta oggi in proporzione ragguardevole, a differenza che nel 1949, anche da donne, che costituiscono il 26% degli addetti nelle miniere, il 44,6% nelle manifatture, il 46,8% nel commercio. Una sezione, nel suo insieme, giovane, in gran parte fisicamente estranea ai periodi più intensi della lotta di classe in Cina della seconda metà del ventesimo secolo, ma non priva di memoria storica.

Questo vero e proprio esercito di proletari ha sopra di sé una classe proprietaria borghese molto articolata ma incardinata su criterii-guida sempre più comuni, sempre meno mistificati da ideologici richiami al "socialismo", e che sono sempre più esplicitamente i criterii-guida del capitale sotto ogni cielo. Ne fanno parte anzitutto i manager dello stato "socialista" che fino alla riforma denghista era proprietario o controllore diretto o indiretto (a mezzo dei governi provinciali e locali) della massima parte della produzione industriale, ed ora, benché ridimensionato, mantiene nelle sue mani ancora il 30% di essa, mentre il restante 70% è in mani private. Mani le più diverse, che vanno dalle imprese (le cd. imprese di borgo e di villaggio) rimaste "collettive" nella loro denominazione ma di fatto gestite sempre più in proprio, come imprese proprie, dai loro dirigenti tecnici e amministrativi, alle polverizzate imprese individuali (le geti hu) balzate negli anni del denghismo dalle 150.000 del 1978 ai 23 milioni del 1996, attive soprattutto nei rami extra-industriali nei piccoli centri e nei villaggi, alle società per azioni made in China, alle joint-ventures tra imprese (o enti territoriali) cinesi e capitali esteri, di imprenditori cinesi di Hong Kong, Taiwan e Macao o di grandi imprese multinazionali, per finire con le imprese a capitale integralmente straniero, che nelle sole export processing zones sfruttano oltre 16 milioni di operai cinesi. A questa articolazione delle forme di proprietà (tutte capitalistiche) corrisponde un notevole frastagliamento delle condizioni salariali e normative, con la permanenza di residui decrescenti di "garanzie" extra-salariali nelle imprese statali - da cui, tuttavia, sono stati espulsi in vent’anni quasi 50 milioni di lavoratori (2).

La dislocazione territoriale del proletariato, che pure è largamente concentrato nelle maggiori aree urbane, è molto più diffusa di quanto fosse nel 1949. La Cina maoista, in specie a partire dall’esperimento del "grande balzo in avanti" (1958), ha tentato di diffondere sulla scala territoriale più ampia i semi dell’industrializzazione. In quella forma, fortemente volontaristica ed alquanto sbilanciata verso le campagne, il tentativo è totalmente fallito, non senza lasciare tracce, però, se è vero che al 1996, delle 30 province, regioni autonome e municipalità "speciali" in cui è articolata la struttura amministrativa, ben 12 (le municipalità di Shanghai, Tianjiin e Bejing, e le province del Liaoning, Heilongjiang, Jiangsu, Zhejiang, Shanxi, Guandong, Hebei, Jilin, Shandong) avevano un tasso di occupazione industriale collocato tra il 25 e il 48,8%, mentre solo in cinque unità territoriali (Tibet, Yunnan, Guizhou, Hainan e Guangxi, che assommano nel loro insieme a circa il 10% della popolazione totale del paese) tale indice si trovava al di sotto del 15%.

Naturalmente, quanto più la Cina, per effetto anche della sua stessa crescita (molto) relativamente "equilibrata", ha dovuto aprirsi alle necessità del mercato mondiale, tanto più le si è venuta imponendo, dall’interno e dall’esterno, un’acuta diseguaglianza di sviluppo tra le zone urbano-industriali capaci di attrarre i capitali internazionali, zone ormai in ogni senso congestionate (e maledettamente "simili" a delle metropoli occidentali), e le zone agricole più interne, anch’esse legate al mercato internazionale ma afflitte da condizioni di esistenza stagnanti ai confini della miseria e da un crescente surplus di manodopera che vede nell’emigrazione verso le grandi città la sua sola risorsa di miglioramento. Ciò comporta una doppia difficoltà per il processo di unificazione degli sfruttati, rappresentata dalla divisione tra proletari stanziali delle città e proletari neo-immigrati, largamente discriminati dalle autorità e spesso disoccupati (il tasso di disoccupazione ufficiale ha raggiunto il 4%, quello reale si aggira, forse, intorno al 10%), e dalla distanza esistente tra gli operai e la massa dei contadini. Si aggiunga, poi, che l’autonomia delle unità amministrative induce ulteriori elementi di differenziazione, a cominciare dall’esistenza di centinaia di livelli di salario minimo, a seconda delle città, dei distretti, etc.

Ciò per mettere a fuoco che il giovane gigante di cui stiamo parlando avrà comunque i suoi problemi a raccogliere e concentrare tutte le proprie forze quando vorrà far valere a pieno le sue necessità contro gli sfruttatori interni ed esterni che lo tengono attualmente alla frusta. Sia per le ragioni strutturali appena richiamate, sia per il peso inerziale dei due "compromessi" politici, che ne hanno fin qui condizionato, se non proprio tarpato, l’autonomia: il "compromesso maoista" e il "compromesso denghista".

Note

(1) Basti dire che il China Statistical Yearbook contiene una categoria di attività identificate semplicemente come "altre" che è esplosa, tra il 1978 ed il 1996, da 5 milioni a qualcosa come 45 milioni di addetti. Nello Statistical Yearbook for Asia and the Pacific 2002, curato dall’ONU, la voce "attività non adeguatamente definite" passa addirittura dai 109 milioni di addetti del 1992 ai 181 milioni del 2001; quasi il 25% della forza-lavoro complessiva della Cina risulterebbe non "adeguatamente definita". Di quest’area molto ampia dell’economia cinese fa di certo parte un’economia sommersa "fusa e confusa con l’economia legale", dedita ad ogni sottospecie di losca attività illegale, "inclusi il traffico di droga, il contrabbando, la compravendita di esseri umani, la prostituzione, la pornografia" (E. Masi, il manifesto, 29 luglio 1999).

(2) Questo vero e proprio crollo dell’occupazione nelle industrie di stato è visibile anche nei dati relativi all’industria manifatturiera che dopo aver toccato il suo massimo nel 1995 (con 98 milioni di addetti), ha visto diminuire i suoi effettivi fino agli 80.830.000 addetti del 2002. Precoce maturità del capitalismo cinese? Solo in parte, crediamo. Poiché se è vero che la Cina, per non essere nuovamente colonizzata in altre forme, deve assolutamente passare dallo sviluppo estensivo della sua accumulazione a quello intensivo, e se è vero che tale passaggio è già iniziato, esso coesiste però con un tentativo del governo di Pechino e dei governi delle province rimaste attardate di espandere verso l’interno e verso l’ovest i settori industriali più consolidati.


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