Dove va l’Italia?

Fiat: l’unico rilancio su cui i lavoratori possono contare è quello della propria organizzazione!

Sono passati poco più di due anni dall’"accordo di programma" tra Fiat e governo Berlusconi. Secondo le dichiarazioni del management aziendale, del governo e di parte del sindacato, quell’intesa avrebbe dovuto costituire la base per il rilancio dell’industria automobilistica italiana e garantire i posti di lavoro.

Non è stato così. Non solo l’accordo ha portato con sé una serie di nuove ed ulteriori misure anti-operaie, ma, allo stesso tempo, le prospettive occupazionali in Fiat si fanno sempre più allarmanti. Anche dopo il divorzio da G-M.

Come possono e devono reagire i lavoratori?

Di fronte alla continua erosione delle quote di mercato della Fiat tutti i big dell’economia, della finanza e della politica sono corsi al capezzale del grande malato, con le più svariate ricette per rivitalizzarlo. Da quando, a dicembre 2004, la General Motors ha annunciato di volersi disimpegnare dalla azienda torinese non ritenendo più vincolante l’accordo del 2000 che prevedeva l’acquisto di Fiat auto da parte della casa statunitense, in vari ambienti si è iniziato a parlare con qualche remora in meno della necessità di prendere in considerazione l’ipotesi di un pesante intervento statale "per difendere l’unica grande industria italiana". Industria che, nonostante i circa due miliardi di dollari incassati grazie alla successiva intesa con General Motors, resta profondamente in difficoltà sia sul versante "produttivo", sia su quello finanziario e dell’indebitamento.

 

Un matrimonio di vecchia data

Soprattutto nella versione sindacale e di una certa sinistra, l’entrata in gioco dello stato viene presentata come la classica fava con cui si possono prendere due piccioni. Da un lato la casa automobilistica otterrebbe un prezioso appoggio finanziario e politico per far fronte ad una concorrenza internazionale sempre più agguerrita, dall’altro - "almeno negli stabilimenti italiani" - si garantirebbero i livelli occupazionali. Prima di farsi ammaliare da una simile prospettiva, però, sarà bene ragionare su alcune "cosette".

Innanzi tutto l’intervento pubblico a sostegno dell’azienda torinese è tutto tranne che una novità. Fin dalle sue origini la Fiat deve molto alla mano statale. Nella sua espansione ebbero grande importanza le commesse militari della prima e della seconda guerra mondiale. Gli Agnelli appoggiarono (e furono appoggiati) senza molti problemi tanto il fascismo, quanto la democrazia. Nei decenni successivi al secondo dopoguerra in Italia visse di fatto un autentico regime protezionistico a vantaggio della casa piemontese, mentre contemporaneamente buona parte delle scelte infrastrutturali furono ritagliate su misura per venire incontro alle esigenze dell’azienda (si pensi ad esempio a come e quanto il trasporto ferroviario sia stato penalizzato a vantaggio di quello su strada). In questi ultimi venticinque anni gli aiuti diretti ed indiretti sono tutt’altro che diminuiti: dai finanziamenti pubblici per la costruzione di stabilimenti quali Cassino e Melfi agli incentivi per le "rottamazioni, dal sostegno alle ristrutturazioni anti-operaie con massicce dosi di cassintegrazione alle tante e continue sovvenzioni economiche di sostegno. In sintesi si può ben dire che la Fiat è una azienda cresciuta e pasciuta all’ombra dello stato. Tutto ciò, però, non solo non ne ha mai moderato l’aggressività e l’arroganza contro i lavoratori, ma, alla lunga, si è dimostrato anche insufficiente a tutelarne la posizione sul mercato nazionale ed estero.

 

Un’aspettativa paralizzante

Questa volta però, i vertici sindacali, chiedono un diverso e più esplicito impegno pubblico. Non più un appoggio "esterno", ma una diretta partecipazione alla proprietà. Ciò, si bisbiglia, sarebbe anche un’ottima garanzia per i lavoratori. Veramente una (al momento molto, molto ipotetica) partecipazione pubblica alla proprietà tutelerebbe le condizioni operaie? L’analisi di quello che succede in Francia e Germania, cioè in quei paesi che sono considerati i baluardi dell’intervento statale nel settore automobilistico, porta a conclusioni opposte. L’accordo nella multinazionale Siemens ha aperto la strada ad accordi dello stesso tenore alla Volkswagen e alla Mercedes. In Francia anche il governo ha fatto la sua parte per affossare la legge sulle 35 ore. Nell’uno e nell’altro caso la ragione invocata è sempre la stessa: la concorrenza internazionale, che obbliga le imprese ad abbassare i salari e ad aumentare gli orari; l’esistenza di un’enorme sovraccapacità produttiva che richiede, se non si vuole affossare il profitto, che alcuni dei grandi produttori di auto vadano a picco. Se il primo fra loro, la G-M, ha le procedure avviate per il taglio di diecimila posti di lavoro in Germania e ottomila negli Usa, non è gli altri possano fare diversamente.

In realtà appellarsi e "sperare" nelle proprietà statale significa comunque legare il proprio destino all’andamento dell’azienda, alla logica ed alle leggi della concorrenza e del mercato. Accettare cioè proprio quella logica e quelle leggi che nel 1980 richiesero ed imposero ventiquattro mila cassintegrazioni, che poi hanno continuato a colpirci con continuità inesorabile e che adesso si apprestano a reclamare un ancor più salato conto.

 

La delocalizzazione galoppa

Il "piano industriale" per il rilancio della Fiat non potrebbe che essere ancor più duro con i lavoratori per le debolezze dell’azienda rispetto ai colossi esteri. Ed esso non può che essere, nella sostanza, quello che la direzione Fiat sta già attuando. Il piano industriale si può sintetizzare in pochissime parole, ed è lo stesso che stanno attuando tutti i concorrenti: produrre di più dove la manodopera costa di meno.

Riprendiamo dal quotidiano il manifesto" del 5 novembre 2004: "Produzione Fiat sempre più delocalizzata. Per la prima volta costruite più auto all’estero che in Italia…994 mila vetture prodotte in Italia, 979mila, cioè più del 50%, nel resto del mondo". Ed ancora: "La nuova Panda verrà prodotta in 200mila unità a Tychy (Polonia). Dalla Polonia arrivano sul mercato altri modelli, la Seicento e le versioni della Worldcar Palio e Siena. Lo stabilimento più importante della Fiat resta comunque quello brasiliano di Betim. Qui si fabbricano Uno, Marea, Ducato, Doblò, Stylo e le Worldcar… Pur meno appetitoso, il mercato indiano vede la Fiat presente da tempo con vetture costruite in loco, le solite Worldcar. Piccole fabbriche di assemblaggio si trovano in Vietnam e, in costruzione, nella Corea del Nord. Il sito più importante, anche per le prospettive di crescita del mercato interno, è in SudAfrica, mentre in Egitto si costruiscono poche centinaia di vetture. La Lancia Phedra e la Nuova Ulisse vengono costruite in Francia".

 

Il cavaliere bianco

Questi dati ci indicano che il problema non è assolutamente quello che, a detta di molti e soprattutto "a sinistra", la Fiat "non sa produrre auto" o che non ha una politica di mercato abbastanza "aggressiva". Per assurdo, la Fiat potrebbe lanciare sul mercato un modello al giorno e produrlo in modo tecnicamente perfetto, ma questo non risolverebbe i suoi problemi, perché queste produzioni dovrebbero poi poter essere vendute e per questo dovrebbero costare comunque di meno dei modelli presentati da altri concorrenti.

Sta tutto qui il segreto di Pulcinella sul perché la Fiat "preferisce" far produrre i motori in Turchia o in Polonia piuttosto che a Mirafiori. Altro che assenza di un piano industriale!

Anzi, la "nuova" Fiat, quella "liberata" dagli impegni con il colosso statunitense, dovrà sempre più spingere proprio su un simile "piano industriale". All’indomani dell’accordo sul disimpegno di General Motors, al di là chiacchiere propagandistiche, tutti i più attenti economisti hanno ribadito che per la Fiat i problemi restano tutti aperti. I due miliardi di dollari pagati dagli americani e l’eventuale arrivo di un "cavaliere bianco", cioè di un partner straniero (cinese?) hanno dato e darebbero solo una breve boccata d’ossigeno alla casa torinese, ma, come lucidamente ha sintetizzato Turani su la Repubblica del 14 febbraio 2005: "La partita che comincia adesso è quella vera e durissima… Ormai è evidente che ci sarà la necessità di tagliare (le intese con gli altri si fanno per questo) e anche robustamente".

 

Rompere gli indugi

Con la delocalizzazione la Fiat manda un preciso messaggio ai lavoratori. Tradotto dice: "Caro lavoratore italiano, la tua unica possibilità è che tu ti metta a produrre in competizione al ribasso con i lavoratori degli altri paesi dove io, azienda, sposto le produzioni che mi costano fino ad un ventesimo (!) in meno che in Italia".

Di fronte ad una tale realtà bisogna aprire gli occhi e rendersi conto di quanto sia nei fatti assolutamente impossibile tutelare per davvero l’occupazione nei singoli siti puntando sul coinvolgimento di istituzioni e "lobby" locali. Per questa via si rischia di finire in una guerra tra stabilimenti al fine di strapparsi l’un contro l’altro un pezzo di osso. Si rischia di finire in un "tutti contro tutti" per tentare di accaparrarsi la produzione di un motore, di un cambio, di un modello. È proprio quello che i vertici Fiat vogliono e a cui abilmente lavorano: una classe operaia divisa e disgregata, incapace di lottare unitariamente e, quindi, facile da schiacciare ovunque. C’è da rompere ogni attendismo e da andare in direzione esattamente opposta.

La situazione del capitalismo internazionale fanno sì che l’industria automobilistica a scala mondiale non èpiù in grado di offrire occupazione "buona" e "garantita". Le condizioni dei lavoratori non potranno essere tutelate da un "rilancio" della Fiat e/o del mercato automobilistico, ma solo ed esclusivamente dalla quantità e dalla qualità della lotta che si saprà mettere sul piatto.

Le lotte di Termini Imerese, di Melfi e quelle più recenti di Mirafiori e di altri stabilimenti dicono che la possibilità di battersi esiste. Occorre, innanzitutto, rompere gli indugi e passare all’organizzazione della lotta generale in tutti gli stabilimenti del gruppo. E per renderla incisiva e continua, occorre necessariamente affrontare e sciogliere in avanti alcuni nodi.

In una recente assemblea di delegati Fiat un lavoratore ha detto che nessuno stabilimento deve illudersi di essere al riparo dagli attacchi aziendali. Vero! Non lo sono neanche quello moderno e tecnologico di Melfi, o quello della Iveco dove, in un modo o nell’altro, si riesce ancora a fare la contrattazione integrativa. Ma proprio per questo è necessario che, ad esempio, il coordinamento dei delegati Fiat dei diversi siti industriali diventi un organismo realmente operativo e vitale, un luogo dove gli operai dei vari stabilimenti discutono comunemente e comunemente organizzano le lotte. Così come è sempre più importante (Melfi insegna) che si punti al coinvolgimento stabile nelle lotte, nell’organizzazione e nelle discussioni dei tantissimi lavoratori delle ditte d’appalto che ruotano intorno (e dentro) alla Fiat.

 

Internazionalizziamo la lotta.

Ma serve anche qualcosa in più: dare una proiezione internazionale alla lotta. Lo scorso anno i lavoratori francesi della Peugeot, nel corso di una serie di mobilitazioni a difesa del posto di lavoro, mandarono una delegazione per contattare direttamente gli operai dello stabilimento polacco dove l’azienda mirava a spostare buona parte della produzione. Il governo polacco, in pieno accordo con la casa automobilistica francese, attraverso l’utilizzo di ingenti forze di polizia riuscì ad impedire il "contatto". Ma che nell’occasione "sia andata male" vuol dir "poco", quello che invece è davvero importante è far proprio l’insegnamento dei lavoratori Peugeot ed andare in questa direzione. Bisogna adoperarsi in tutti i modi, con pazienza e determinazione, per stringere relazioni con gli operai degli stabilimenti "delocalizzati" del Sud e dell’Est del mondo e gettare con tenacia le basi per comuni mobilitazioni che puntino ad un’equiparazione verso l’alto dei diritti, dei salari e delle complessive condizioni lavorative di questi proletari super-sfruttati. Così come è sempre più urgente che viva un vero coordinamento tra gli operai del settore automobilistico europeo (e oltre). Alla Volkswagen, alla Opel, alla Peugeot, alla Saab, come alla Fiat si vivono problemi analoghi e si subiscono attacchi analoghi: è ora che le forze dei lavoratori comincino ad unificarsi.

È evidente che tutto ciò chiama all’assunzione di maggiori responsabilità politiche i lavoratori più attivi e che la cosa è nient’affatto semplice. Ma queste sono questioni poste dalla realtà ed affrontarle è l’unica via per rompere la spirale di concorrenza al ribasso tra proletari in cui la Fiat e l’intero capitalismo vogliono spingerci sempre più giù.

Fuori da questa difficile strada si trova solo il declino della nostra forza e delle nostre condizioni. Si trova solo la corsa al "si salvi chi può" nell’illusione di poterla magari "svangare" individualmente attraverso riconversioni occupazionali nel turismo o tramite i posti "spazzatura" delle olimpiadi 2006. Per questa strada vi è invece la possibilità di ricostruire e di rimettere orgogliosamente in piedi la forza e la dignità della nostra classe, di gettare le basi per riconquistare quella collettiva capacità di lotta e di resistenza sempre più indispensabile dinanzi alla crescente aggressività della Fiat e di tutto il capitalismo.